I successi elettorali conseguiti recentemente dai Verdi in alcuni Paesi europei hanno attirato l'attenzione di molti commentatori politici che si chiedono se tali partiti ambientalisti possano prendere il posto di quelle forze “progressiste”, ovunque in crisi, e diventare il polo che, in un nuovo bipolarismo, si contrappone ai populisti e ai sovranisti, classificati come la “nuova destra”. Un ruolo che i Verdi possono ricoprire anche perché avrebbero abbandonato le posizioni fondamentaliste che li avevano finora caratterizzati e sono quindi diventati spendibili nel gioco politico.
C'è una definizione dei Verdi che è circolata a lungo, in particolare in ambito conservatore e moderato: “Sono simili a un’ anguria, verde fuori, ma rosso dentro”. Per una destra liberista, chiunque ponesse ostacoli alle attività produttive era classificato a sinistra, come nemico del capitalismo, tanto più che molti Verdi provenivano dai gruppuscoli antagonisti in cui era (ed è) frazionata quella sinistra da sempre votata all'insuccesso.
Possono tuttavia i Verdi e più in generale gli ambientalisti essere collocati nella sinistra (ammesso che, oggi, termini come destra e sinistra siano ancora idonei per definire movimenti e partiti politici)?
Mi limito ad osservare che “sinistra” e “progressismo” sono termini strettamente legati e che, a partire dall'illuminismo, il progresso è inteso nel senso di una progressiva liberazione dell'uomo dai condizionamenti posti non solo dalle superstizioni (includendovi frequentemente la religione) e dalle tradizioni, ma anche dalla natura stessa, condizionamenti che grazie alla scienza e alla ragione sarebbero stati superati. Ora, quando, a inizio anni Settanta, uscì il rapporto del MIT sui “limiti dello sviluppo”, quei valori progressisti che avevano improntato di sé le società occidentali entrarono in crisi e con essi lo stesso concetto di progresso divenne fragile. Rendendosi conto di ciò, in ambito marxista, il sopraddetto rapporto fu aspramente criticato poiché, secondo i discepoli di Marx, non ci sarebbero limiti che l'umanità non possa superare. Anche nel mondo liberale (liberal inclusi) e in specie tra gli economisti, l'idea dell'esistenza di limiti fu ritenuta inaccettabile. Pertanto l'ambientalismo ispirato al rapporto del MIT (un ambientalismo definito radicale) fu ritenuto conservatore nella misura in cui cerca di salvaguardare la natura e di proteggere l'equilibrio degli ecosistemi ponendo limiti a una spericolata corsa verso uno sviluppo distruttivo dell'ambiente naturale e sociale.
Tuttavia un diverso ambientalismo era già presente in seno alla società: includeva piccole associazioni e singoli intellettuali che denunciavano le malefatte degli speculatori edilizi i quali, con la complicità di politici spregiudicati o disonesti, stavano alterando la fisionomia urbana (in specie delle periferie) e il paesaggio agrario con casermoni e capannoni al di fuori di ogni razionale progetto urbanistico e senza adeguati servizi ed infrastrutture. Queste formazioni “ambientaliste” erano orientate a sinistra perché con essa condividevano l'avversione alle attività speculative e alle forze politiche governative, posizionate al centro o al centrodestra del panorama politico, ritenute prive di ogni sensibilità ambientalista. Nascono così i cosiddetti Verdi, fra i quali hanno trovato successivamente spazio quanti conducono campagne contro la presenza o l'insediamento di attività inquinanti o comunque pericolose per gli abitanti dei territori da esse interessati. A questo filone è riconducibile anche la campagna (vittoriosa in Italia) condotta contro il nucleare che, è bene ricordarlo, è alternativo alle fonti energetiche fossili causa prima dei mutamenti climatici.
In parallelo, sono entrate a far parte delle tematiche “verdi” anche quelle riguardanti l'alimentazione (scelta a favore del biologico, del vegetariano, del vegano) pur se il rapporto con l'ambiente è tenue: infatti, il biologico in origine mirava a limitare la diffusione di pesticidi, di diserbanti, mentre la riduzione del consumo degli alimenti di origine animale aveva l'obiettivo di contenere le superfici di terreno richieste dalle necessità alimentari degli animali in produzione zootecnica, ma questi aspetti sono passati in secondo piano e l'interesse è stato rivolto a una presunta maggiore salubrità di un siffatto tipo di alimentazione. Infine i Verdi hanno fatte proprie, in notevole misura, le tematiche care agli animalisti, le cui preoccupazioni vanno ben oltre il necessario rispetto del benessere degli animali domestici e la salvaguarda delle specie selvatiche ancora presenti sul territorio, poiché molti animalisti tendono a porre il problema in termini di diritti degli animali mettendoli a uno stesso livello degli esseri umani.
Fino ad oggi, nelle associazioni e nei movimenti verdi, non c'è stata, nella sostanza, una piena convivenza o sintesi fra le istanze radicali tese a dare risposte alle problematiche poste dai limiti dello sviluppo (che richiedono il rovesciamento delle politiche economiche attuali) e quelle moderate di tipo “riparatorio” volte a porre rimedio a singoli fenomeni degenerativi dello sviluppo in corso. In Italia, è questo secondo tipo di ambientalismo che si è imposto, nei fatti se non a livello ideologico. Oggi, ancor più marcatamente di tale natura sembra essere quello che prende piede in alcuni Paesi europei.
Ci sono altri aspetti, intrecciati con le problematiche ambientali, che occorre tenere presenti.
Per molti Verdi, la difesa della natura e delle specie viventi e il loro diritto di vivere senza essere manipolati in un ambiente loro confacente viene meno quando entrano in campo gli esseri umani. Di questi si tende a disconoscere una fisionomia naturale di ordine etologico, venendo essa avvertita come un ostacolo a che l'uomo moderno prenda nelle sue mani (grazie ai mezzi che gli fornisce la tecnologia) la propria evoluzione per oltrepassare le barriere biologiche che lo limitano e per emanciparsi dagli ostacoli dovuti al suo condizionamento genetico. È invece assurdo non considerare lo stretto nesso tra mondo naturale e natura umana. Poche voci nel mondo ambientalista si levano contro questo non riconoscimento della natura umana e contro il percorso tecnicistico teso a sostituirla con un artefatto. Fra queste, ricordo le denunce di Serge Latouche (il padre della “decrescita”) e di Marina Silva (già leader degli ambientalisti brasiliani).
Un'altra tematica oggetto di dibattito e di divisione, entro l'area riconducibile all'ambientalismo, riguarda la globalizzazione in contrapposizione alla tutela dei territori come luoghi di vita di comunità culturalmente differenziate e democraticamente gestite, una tematica che si intreccia con la valutazione dei fenomeni migratori e del loro impatto sul territorio. Il mondo ambientalista guarda con preoccupazione alla globalizzazione, alla logica ultra competitiva che la alimenta e al rifiuto dei limiti che la caratterizza, ma si divide fra chi ritiene che il mondo globalizzato sia ingestibile e chi vorrebbe distinguere la componente economica e finanziaria, a cui mettere limitazioni, da altri aspetti da mantenere e implementare, quali la mobilità delle persone, l'estensione planetaria dei diritti dell'uomo (secondo l'interpretazione occidentale) e della liberaldemocrazia. Impresa quest'ultima improbabile perché, come scrive Zygmunt Bauman, l'attuale società, che si identifica con il mondo intero, appare sempre più inconoscibile e incontrollabile.
Inoltre, ogni politica di difesa dell'ambiente non può non mettere al centro il territorio con le sue peculiarità fisiche, biologiche e umane, e quindi spostare il baricentro dell’economia e delle politiche sociali verso la dimensione locale, per favorire il controllo partecipato dei processi di produzione e di distribuzione della ricchezza. Infatti i municipi e le regioni, intesi come entità spaziali omogenee che coincidono con una realtà geografica, sociale e storica, sono i luoghi più idonei per creare una rete di relazioni solidali volta a rafforzare il tessuto sociale e democratico, e per mettere in campo strumenti che permettano di fare fronte alla minore disponibilità di risorse che ci attende.
Come si vede, la realtà del mondo ambientalista è poco omogenea e molte sue componenti sono ancora condizionate dalla dominante ideologia neoliberale con il suo individualismo estremo, e dalle parole d'ordine del politicamente corretto.
Se prendiamo in considerazione i movimenti e i partiti che (secondo l'ipotesi di un nuovo bipolarismo presentata in apertura dell'articolo) dovrebbero costituire il polo contrapposto ai Verdi, cioè populisti e sovranisti, troviamo una ancor maggiore disomogeneità e più marcate differenze, in particolare su quelle tematiche sopra descritte (globalizzazione e difesa dei territori, crescita economica e compatibilità ambientale, tecnologia e manipolazione dei viventi, uomo incluso, migrazioni e identità nazionale). Inoltre, anche in questo ambito è marcato il condizionamento dell'ideologia neoliberale che permea la società.
Ritengo pertanto che questo ipotizzato nuovo bipolarismo non sia idoneo a razionalizzare il quadro politico riproponendo qualche cosa di equivalente a ciò che, in passato, è stato lo storico confronto fra sinistra e destra o tra progressisti e conservatori.
Ho già citato, in altro articolo, uno studio della Banca Mondiale (pubblicato a fine ottobre 2017) che denuncia i due fenomeni più preoccupanti di questo secolo: un'esuberante crescita demografica (nel Sud del Mondo) e un clima che cambia a un ritmo superiore alle previsioni più pessimistiche dei climatologi. È con questi fenomeni che dovranno confrontarsi ben presto le forze politiche, vecchie o nuove che siano; e sarà la dura realtà che ci attende a riportarle con i piedi per terra e a mettere in primo piano le esigenze di salvaguardia, e talora di sopravvivenza, delle comunità che ad esse affidano la responsabilità di governarle.
Di fronte ai pericoli incombenti, è corretto dire che siamo tutti sulla stessa barca, la Terra, e certamente minacce come le modificazioni climatiche richiedono di essere affrontate con ricorso ad una collaborazione internazionale.
Non possiamo tuttavia non rilevare che questa collaborazione è assai lacunosa perché in troppi si sottraggono ad essa, e chi si dichiara favorevole poi fa ben poco e dilaziona gli impegni presi (vedi la Cop 24 di Katowice), mentre ci dicono i climatologi che, per evitare catastrofiche situazioni irreversibili, restano solo pochi anni per realizzare una completa inversione di rotta in tema di modalità produttive, di tipologia dei prodotti e di quantità e qualità dei consumi.
Nella speranza che tale collaborazione internazionale prenda rapidamente corpo, spetta comunque alle varie comunità nazionali e territoriali fare la propria parte facendosi carico delle misure che impongono i cambiamenti climatici in atto. In questa ottica, è un buon esempio l'impegno messo in campo dalla California, forse perché, con la pluriennale grave siccità che l'ha investita, ne avverte sulla propria pelle i primi seri effetti.
C'è una definizione dei Verdi che è circolata a lungo, in particolare in ambito conservatore e moderato: “Sono simili a un’ anguria, verde fuori, ma rosso dentro”. Per una destra liberista, chiunque ponesse ostacoli alle attività produttive era classificato a sinistra, come nemico del capitalismo, tanto più che molti Verdi provenivano dai gruppuscoli antagonisti in cui era (ed è) frazionata quella sinistra da sempre votata all'insuccesso.
Possono tuttavia i Verdi e più in generale gli ambientalisti essere collocati nella sinistra (ammesso che, oggi, termini come destra e sinistra siano ancora idonei per definire movimenti e partiti politici)?
Mi limito ad osservare che “sinistra” e “progressismo” sono termini strettamente legati e che, a partire dall'illuminismo, il progresso è inteso nel senso di una progressiva liberazione dell'uomo dai condizionamenti posti non solo dalle superstizioni (includendovi frequentemente la religione) e dalle tradizioni, ma anche dalla natura stessa, condizionamenti che grazie alla scienza e alla ragione sarebbero stati superati. Ora, quando, a inizio anni Settanta, uscì il rapporto del MIT sui “limiti dello sviluppo”, quei valori progressisti che avevano improntato di sé le società occidentali entrarono in crisi e con essi lo stesso concetto di progresso divenne fragile. Rendendosi conto di ciò, in ambito marxista, il sopraddetto rapporto fu aspramente criticato poiché, secondo i discepoli di Marx, non ci sarebbero limiti che l'umanità non possa superare. Anche nel mondo liberale (liberal inclusi) e in specie tra gli economisti, l'idea dell'esistenza di limiti fu ritenuta inaccettabile. Pertanto l'ambientalismo ispirato al rapporto del MIT (un ambientalismo definito radicale) fu ritenuto conservatore nella misura in cui cerca di salvaguardare la natura e di proteggere l'equilibrio degli ecosistemi ponendo limiti a una spericolata corsa verso uno sviluppo distruttivo dell'ambiente naturale e sociale.
Tuttavia un diverso ambientalismo era già presente in seno alla società: includeva piccole associazioni e singoli intellettuali che denunciavano le malefatte degli speculatori edilizi i quali, con la complicità di politici spregiudicati o disonesti, stavano alterando la fisionomia urbana (in specie delle periferie) e il paesaggio agrario con casermoni e capannoni al di fuori di ogni razionale progetto urbanistico e senza adeguati servizi ed infrastrutture. Queste formazioni “ambientaliste” erano orientate a sinistra perché con essa condividevano l'avversione alle attività speculative e alle forze politiche governative, posizionate al centro o al centrodestra del panorama politico, ritenute prive di ogni sensibilità ambientalista. Nascono così i cosiddetti Verdi, fra i quali hanno trovato successivamente spazio quanti conducono campagne contro la presenza o l'insediamento di attività inquinanti o comunque pericolose per gli abitanti dei territori da esse interessati. A questo filone è riconducibile anche la campagna (vittoriosa in Italia) condotta contro il nucleare che, è bene ricordarlo, è alternativo alle fonti energetiche fossili causa prima dei mutamenti climatici.
In parallelo, sono entrate a far parte delle tematiche “verdi” anche quelle riguardanti l'alimentazione (scelta a favore del biologico, del vegetariano, del vegano) pur se il rapporto con l'ambiente è tenue: infatti, il biologico in origine mirava a limitare la diffusione di pesticidi, di diserbanti, mentre la riduzione del consumo degli alimenti di origine animale aveva l'obiettivo di contenere le superfici di terreno richieste dalle necessità alimentari degli animali in produzione zootecnica, ma questi aspetti sono passati in secondo piano e l'interesse è stato rivolto a una presunta maggiore salubrità di un siffatto tipo di alimentazione. Infine i Verdi hanno fatte proprie, in notevole misura, le tematiche care agli animalisti, le cui preoccupazioni vanno ben oltre il necessario rispetto del benessere degli animali domestici e la salvaguarda delle specie selvatiche ancora presenti sul territorio, poiché molti animalisti tendono a porre il problema in termini di diritti degli animali mettendoli a uno stesso livello degli esseri umani.
Fino ad oggi, nelle associazioni e nei movimenti verdi, non c'è stata, nella sostanza, una piena convivenza o sintesi fra le istanze radicali tese a dare risposte alle problematiche poste dai limiti dello sviluppo (che richiedono il rovesciamento delle politiche economiche attuali) e quelle moderate di tipo “riparatorio” volte a porre rimedio a singoli fenomeni degenerativi dello sviluppo in corso. In Italia, è questo secondo tipo di ambientalismo che si è imposto, nei fatti se non a livello ideologico. Oggi, ancor più marcatamente di tale natura sembra essere quello che prende piede in alcuni Paesi europei.
Ci sono altri aspetti, intrecciati con le problematiche ambientali, che occorre tenere presenti.
Per molti Verdi, la difesa della natura e delle specie viventi e il loro diritto di vivere senza essere manipolati in un ambiente loro confacente viene meno quando entrano in campo gli esseri umani. Di questi si tende a disconoscere una fisionomia naturale di ordine etologico, venendo essa avvertita come un ostacolo a che l'uomo moderno prenda nelle sue mani (grazie ai mezzi che gli fornisce la tecnologia) la propria evoluzione per oltrepassare le barriere biologiche che lo limitano e per emanciparsi dagli ostacoli dovuti al suo condizionamento genetico. È invece assurdo non considerare lo stretto nesso tra mondo naturale e natura umana. Poche voci nel mondo ambientalista si levano contro questo non riconoscimento della natura umana e contro il percorso tecnicistico teso a sostituirla con un artefatto. Fra queste, ricordo le denunce di Serge Latouche (il padre della “decrescita”) e di Marina Silva (già leader degli ambientalisti brasiliani).
Un'altra tematica oggetto di dibattito e di divisione, entro l'area riconducibile all'ambientalismo, riguarda la globalizzazione in contrapposizione alla tutela dei territori come luoghi di vita di comunità culturalmente differenziate e democraticamente gestite, una tematica che si intreccia con la valutazione dei fenomeni migratori e del loro impatto sul territorio. Il mondo ambientalista guarda con preoccupazione alla globalizzazione, alla logica ultra competitiva che la alimenta e al rifiuto dei limiti che la caratterizza, ma si divide fra chi ritiene che il mondo globalizzato sia ingestibile e chi vorrebbe distinguere la componente economica e finanziaria, a cui mettere limitazioni, da altri aspetti da mantenere e implementare, quali la mobilità delle persone, l'estensione planetaria dei diritti dell'uomo (secondo l'interpretazione occidentale) e della liberaldemocrazia. Impresa quest'ultima improbabile perché, come scrive Zygmunt Bauman, l'attuale società, che si identifica con il mondo intero, appare sempre più inconoscibile e incontrollabile.
Inoltre, ogni politica di difesa dell'ambiente non può non mettere al centro il territorio con le sue peculiarità fisiche, biologiche e umane, e quindi spostare il baricentro dell’economia e delle politiche sociali verso la dimensione locale, per favorire il controllo partecipato dei processi di produzione e di distribuzione della ricchezza. Infatti i municipi e le regioni, intesi come entità spaziali omogenee che coincidono con una realtà geografica, sociale e storica, sono i luoghi più idonei per creare una rete di relazioni solidali volta a rafforzare il tessuto sociale e democratico, e per mettere in campo strumenti che permettano di fare fronte alla minore disponibilità di risorse che ci attende.
Come si vede, la realtà del mondo ambientalista è poco omogenea e molte sue componenti sono ancora condizionate dalla dominante ideologia neoliberale con il suo individualismo estremo, e dalle parole d'ordine del politicamente corretto.
Se prendiamo in considerazione i movimenti e i partiti che (secondo l'ipotesi di un nuovo bipolarismo presentata in apertura dell'articolo) dovrebbero costituire il polo contrapposto ai Verdi, cioè populisti e sovranisti, troviamo una ancor maggiore disomogeneità e più marcate differenze, in particolare su quelle tematiche sopra descritte (globalizzazione e difesa dei territori, crescita economica e compatibilità ambientale, tecnologia e manipolazione dei viventi, uomo incluso, migrazioni e identità nazionale). Inoltre, anche in questo ambito è marcato il condizionamento dell'ideologia neoliberale che permea la società.
Ritengo pertanto che questo ipotizzato nuovo bipolarismo non sia idoneo a razionalizzare il quadro politico riproponendo qualche cosa di equivalente a ciò che, in passato, è stato lo storico confronto fra sinistra e destra o tra progressisti e conservatori.
Ho già citato, in altro articolo, uno studio della Banca Mondiale (pubblicato a fine ottobre 2017) che denuncia i due fenomeni più preoccupanti di questo secolo: un'esuberante crescita demografica (nel Sud del Mondo) e un clima che cambia a un ritmo superiore alle previsioni più pessimistiche dei climatologi. È con questi fenomeni che dovranno confrontarsi ben presto le forze politiche, vecchie o nuove che siano; e sarà la dura realtà che ci attende a riportarle con i piedi per terra e a mettere in primo piano le esigenze di salvaguardia, e talora di sopravvivenza, delle comunità che ad esse affidano la responsabilità di governarle.
Di fronte ai pericoli incombenti, è corretto dire che siamo tutti sulla stessa barca, la Terra, e certamente minacce come le modificazioni climatiche richiedono di essere affrontate con ricorso ad una collaborazione internazionale.
Non possiamo tuttavia non rilevare che questa collaborazione è assai lacunosa perché in troppi si sottraggono ad essa, e chi si dichiara favorevole poi fa ben poco e dilaziona gli impegni presi (vedi la Cop 24 di Katowice), mentre ci dicono i climatologi che, per evitare catastrofiche situazioni irreversibili, restano solo pochi anni per realizzare una completa inversione di rotta in tema di modalità produttive, di tipologia dei prodotti e di quantità e qualità dei consumi.
Nella speranza che tale collaborazione internazionale prenda rapidamente corpo, spetta comunque alle varie comunità nazionali e territoriali fare la propria parte facendosi carico delle misure che impongono i cambiamenti climatici in atto. In questa ottica, è un buon esempio l'impegno messo in campo dalla California, forse perché, con la pluriennale grave siccità che l'ha investita, ne avverte sulla propria pelle i primi seri effetti.
Mi sa che anche per la prossima tornata elettorale mi ridurrò a scegliere il “male minore” poco prima di andare al seggio elettorale (e magari dare 3 voti diversi: a quello per le europee aggiungerei il disgiunto per le regionali). Se fossero presenti i Verdi Europei, forse, potrei non avere esitazioni.
Il programma per noi è già stilato ed è il nuovo Magistero Sociale di Papa Francesco: la Laudato sì, l’enciclica sulla cura della casa comune. A questo proposito consiglierei di andare a soffermarsi sui punti dal 182 al 188 (capitolo V) della medesima e poi di esprimersi su quanto qui di seguito scrivo a proposito di quanto di disgustoso si sente dire sul tema TAV. Mi permetto infatti di segnalare che nutro seri e preoccupanti dubbi su quanto viene riportato da molti organi di informazione, a mio parere indipendenti solo di facciata, ad esempio riguardo alle reazioni dopo il pronunciamento di ieri del Parlamento, ad un articolo apparso su una newsletter dal titolo “Non è che il Treno si Ferma a Lione” (in particolare su quanto riportato dall’intervento di Davide Gariglio alla Camera), così pure riguardo alle dichiarazioni del sig. Paolo Foietta, e così via.
Non sono un tecnico e pur non entrando nel merito ritengo molto più attendibili i dati dell’Analisi costi benefici del nuovo collegamento Torino-Lione che non quelli dei Quaderni dell’Osservatorio, in quanto ritengo questi pilotati dai fautori dell’opera – certi industriali ed alcuni politici -, che a priori hanno escluso alternative presentate a suo tempo all’attuale progetto (mi riferisco all’Opzione Zero e al cosiddetto F.A.R.E. – Ferrovie Alpine Ragionevoli ed Efficienti -). Ma non è solo questo il punto. Desidero innanzitutto sottolineare che non sono assolutamente a sfavore del trasporto su ferro e neanche sostenitore di quello su gomma.
Mi pare però che prima di tutto occorrerebbe informare, qualora qualcuno non lo sappia ancora, che il tunnel attuale del Frejus, recentemente rimodernato, è lontano dalla saturazione e nel medesimo già transita già 6 volte al giorno il TGV (l’equivalente francese del TAV) Parigi – Milano. Segnalo, qualora qualcuno l’abbia dimenticato, che le proiezioni di traffico non sono in crescita, che in passato è sempre stato dato ampio spazio ai fautori dell’opera e nulla (o quasi) ai cittadini e agli amministratori della Valle di Susa, che le priorità già solo in campo trasportistico sono ben altre (ad esempio la linea 2 del Metro di Torino, l’ultimazione della 1, la conversione delle linee ancora a binario unico, i collegamenti con porti e fabbriche, l’aumento del numero dei treni – e che siano più confortevoli ed in orario – per incentivare i pendolari a non utilizzare l’automobile, il costringere i mezzi pesanti ad utilizzare l’attuale linea ferroviaria in quanto è operante da almeno due decenni l’A.F.A. – Autostrada Ferroviarie Alpine – da Aiton – bassa Maurienne – a Orbassano – a pochi chilometri da Torino -).
Certo che il Treno non si ferma a Lione. Dei tanti Paesi attraversati dalla Lisbona – Kiev bisognerebbe però sottolineare che molti hanno già rinunciato a nuove progettazioni e successivamente molti governi (compresi quelli francese ed italiano alcuni anni fa) hanno deciso che si continuerà a viaggiare sulle linee esistenti per moltissimi tratti.
Cosa serve un nuovo tunnel quando c’è già e funziona benissimo quello che c’è, oltretutto quando continuano ad essere utilizzate prima e dopo il medesimo quelle storiche ?
Non mi addentro sulle altre priorità del nostro Paese (prevenzione rischi idrogeografico, incendi, sismico, vulcanico, tante altre piccole opere, cura del territorio, …).
E per tutto quanto sopra indicato le ricadute occupazionali ci sarebbero e in misura ben superiore rispetto alle perdite di posti di lavoro che ipotizzano Boccia e Chiamparino riguardo alla NLTL (Nuova Linea Torino Lione, né la/il TAV, né TAC).
Mi permetto ancora di sottolineare :
– riguardo al tunnel di base di 57 Km. la Comunità Europea finanzierebbe l’opera per il 40%. La restante parte sarebbe a carico dell’Italia per il 35% (con 12 su 57 Km.) e per il 25% dalla Francia (con 45 dei 57 Km.) Per gli amici transalpini un vero affare !
– sino ad oggi sono stati costruiti solo tunnel geognostici (le cosiddette discenderie, cioé tunnel di studio, due in Francia e una in Italia – a Chiomonte -) e non un metro del famoso ed ipotetico tunnel di 57 Km. tra Saint Jean de Maurienne e Susa.
In conclusione mi chiedo anche se ha un senso logico costruire un tunnel con dei costi che influiranno sul debito pubblico in modo pesantissimo per far arrivare 30 minuti (o poco più) prima a Lione le persone o le merci (che rimarranno poi stoccate nei magazzini).
Il buon senso, mi pare, ci suggerisca un NO forte e deciso. E questo anche solo senza parlare dei danni ambientali e alla salute.
Dunque SI’ alle tante opere pubbliche a mio avviso indispensabili per la qualità della vita e NO alle grandi opere, non solo dannose, ma inutili ed nel nostro caso anche “imposte”, opere non nell’interesse della gente comune, ma solo di chi è interessato da altre logiche non facilmente comprensibili. Ecco perché sono tornato sull’argomento: l’oltraggio ai processi decisionali (vedi Laudato sì 186 e 187) è la cartina al tornasole della malafede dei politici “sostenitori”.
Non entro nel merito della, come sempre, lucida e rigorosa analisi di Ladetto, in quanto ritengo che, purtroppo, non è sempre la ragionevolezza e l’intelligenza delle analisi che muove l’azione storica dell’uomo per cui mi chiedo quanto possa trovare volontà di applicazione in concreto la “ragionevolmente verde” tematica esposta in un mondo il cui ordine politico, sociale ed economico è totalmente basato su di un meccanismo di sviluppo senza limiti nel tempo e nello spazio dello sfruttamento delle risorte naturali nel totale rifiuto del concetto di limite, che l’idea stessa di globalizzazione, basata sin dal Rinascimento sul principio, paradossalmente anti classico, del “Plus ultra”, rifiuta.
Infatti il problema odierno del genere umano è dato dal fatto che questi si è andato a cacciare, per il suo “delirio di onnipotenza”, che in altre circostanze abbiamo definito come una egocentrica forma di escatologica autosalvazione umana.
Ladetto ci ha ricordato, citando la Banca Mondiale, due risultati estremi, di natura ecologica, quello della bomba demografica e quello del mutamento climatico, antropicamente provocato, con tutte le altre problematiche di contorno relative agli equilibri naturalistici e all’inquinamento ambientale.
Il solo fatto che un attore dell’establishment finanziario-industriale come la Banca Mondiale nel 2017 abbia correttamente denunciato i due grossissimi problemi di natura ecologica sopra citati la dice lunga su come l’ordine mondiale corrente abbia da interrogarsi sul suo futuro, ma il problema è che nessuno sa come porvi rimedio salvando l’ordine politico-sociale esistente e quindi gli interessi stessi dell’establishment. Da qui lo scontro tra le reticenze dell’establishment e le fantasie salvifiche populistiche che, anche se dettate dalla pancia (quando non si può dire la verità è l’istinto che inconsciamente agisce), hanno una loro verità nel rapporto con le contingenze storiche, pur essendo totalmente prive di ogni soluzione operativa.
Una cosa è certa: che ormai il progressismo (che qui intendiamo nel suo significato di filosofica concezione redentoria della storia, al di là delle declinazioni pratico-applicative della politica: in pratica una forma di religione filosofica che predica la trasformazione dell’uomo in un dio autoredentivo), vuoi nella sua versione applicativa liberista vuoi in quella applicativa socialista, mostra le corde in quanto entrambe le applicazioni politiche, come ha ben illustrato Ladetto, si basano su una visione infinita delle risorse naturali per cui il modo come è stato affrontato nei due secoli passati il problema della giusta distribuzione della ricchezza da problema di possibile soluzione politica oggi rischia, ogni giorno di più, di apparire come un problema politicamente insolubile in quanto il contesto attuale, contrariamente a quello passato, non consente di ignorare la finitudine delle risorse e la conseguente rottura degli equilibri naturali.