Il mio Sessantasette



Oreste Calliano    12 Dicembre 2018       2

Martedì 4 dicembre si è svolto un interessante incontro promosso al Polo del ‘900 dal Centro Studi “Gobetti” e dalle Fondazioni Carlo “Donat Cattin” e “Nocentini” su “I cattolici nella contestazione 1967-68”.

Questo titolo è stato da alcuni relatori contestato perché ambiguo. Poteva intendersi come la testimonianza dei cattolici presenti nel periodo (secondo i più), la valutazione socio-politica del fenomeno (secondo i politici presenti) o la presenza attiva, in quanto cattolici, contestata perché la partecipazione è stata individuale e transculturale.

Io c’ero nel 1967, quando arrivarono a a Palazzo Campana, sede torinese di Giurisprudenza e Scienze politiche, le notizie delle prime occupazioni e manifestazioni parigine e i primi slogan: “ L’imagination au pouvoir” e poi “Ce n’est qu’un début, continuon le combat” che darà poi stimoli al documentario di Jean-Pierre Pozzi nel 2010.

Si aprì un primo dibattito su come superare il nozionismo della formazione universitaria aprendo a materie di ampio respiro e di prospettiva europea e internazionale. Tre delegati – Andrea Casalegno, Roberto Weigman e il sottoscritto – andarono dal preside di Giurisprudenza il professor Grosso, all’epoca anche sindaco di Torino, per negoziare l’introduzione di una nuova materia, Sociologia del diritto. In cambio di che? Di Esegesi delle fonti del Diritto romano. Poveri illusi: era una delle materie che controllavano i romanisti guidati dal maestro Grosso che, a muso duro, ci rispose che il potere l’aveva lui sino a 70 anni e che noi, tra poco laureandi, potevamo farne a meno. Uscimmo amareggiati e fuori dalla porta incontrammo Vittorio Rieser (già assistente di Sociologia), Luigi Bobbio (Scienze politiche), Guido Viale (Filosofia) che proclamarono che l’Università non si migliorava con atteggiamenti riformisti, ma contestando l’autoritarismo delle strutture come scuola, fabbrica, carceri e manicomi; e che occorresse quindi occupare le Facoltà e poi sollevare la rabbia degli operai occupando le fabbriche. Operai e studenti uniti avrebbero fatto la “rivoluzione” che i loro genitori, antifascisti, non erano riusciti a portare a compimento dopo la resistenza. (Vedi anche Dentice. “L’Espresso” 7-4-68 ( http://temi.repubblica.it/espresso-il68/1964/04/07/e-adesso-occupiamo-le-fabbriche/).

La sera stessa iniziò l’occupazione pacifica di Palazzo Campana. La mattina dopo iniziò lo sgombero per ordine del Questore, durante il quale si svilupparono comportamenti di resistenza passiva e non violenta, cui seguì la sfrontatezza per la reazione timorosa di alcuni docenti universitari (il rettore Allara) o conflittuale (il preside Grosso), di dialogo (il decano Bobbio), di stupore e incomprensione (i più). Purtroppo vennero arrestati alcuni compagni di Università, tra cui Viale, e la reazione di stupore si trasformò in molti studenti in rabbia per la decisione aggressiva e a mio avviso miope delle autorità accademiche e politiche.

Frattanto il Consiglio di Amministrazione stava discutendo della creazione di un nuovo Campus nel parco della Mandria, che alcune frange ritenevano una speculazione edilizia, interrompendo il Senato Accademico, e a livello nazionale si stava esaminando la riforma Universitaria promossa dal ministro Gui, che molti ritenevano inadeguata per portare l’Università italiana ai livelli europei.

Tutta benzina sul fuoco che sviluppò atteggiamenti aggressivi: interruzione delle lezioni, assemblee interminabili in cui tutti avevano diritto di parola, ma si decideva secondo i criteri della cosiddetta “democrazia diretta” in cui i piccoli gruppi organizzati e i “leaderini” con voce più tonante imponevano le decisioni giorno per giorno, senza alcuna apparente strategia condivisa, gruppi di studio in cui più che analizzare problemi geo-politici (storia del colonialismo e lotta per l’indipendenza) si dibattevano impressioni e sentimenti su fatti lontani (violenza nella guerra del Vietnam, esaltazione per la rivoluzione culturale cinese)

Poi arrivò il ’68, in particolare a Milano Roma Trento, e si sviluppò un’altra storia.

Quali le mie prime personali valutazioni di quella esperienza emotiva, culturale e politica?

Credo l’analisi debba essere svolta su tre piani: quello della contestazione al nozionismo, al provincialismo e all’autoritarismo di alcuni Corsi di studio e insegnamenti nelle Università italiane, quello della tensione “ rivoluzionaria” e quello dell’esperienza collettiva e dei costumi giovanili.

Sul piano della necessità di svecchiare i contenuti e i metodi dell’insegnamento universitario vi era unanime consenso. L’Italia della rinascita post-bellica e del primo sviluppo economico non poteva più sopportare una visione ancora legata agli stereotipi del modello gentiliano e delle parole d’ordine fasciste: si pensi che in Diritto privato non si citava la Costituzione italiana come strumento interpretativo del codice civile del 1942 e nel diritto Costituzionale non si citava il Diritto comunitario, dopo dieci anni dall’istituzione della CEE, come fonte del diritto. In Scienze politiche si citavano sì Mosca e Pareto, ma non la sociologia tedesca e la cultura liberaldemocratica anglosassone, sino a quando Bobbio non fece l’anno sabbatico in Stati Uniti, portando in Italia  un nuovo afflato nella Scienza della politica.

Sul piano metodologico, poi , il metodo “attivo” dei lavori di gruppo, della didattica “partecipata” con seminari tematici si richiamava ai modelli di learning by doing anglosassoni che mettevano in crisi il metodo dogmatico ancora in vigore. Mancava però sia la preparazione dei docenti a questa rivoluzione, sia l’impegno forte degli allievi.

Tutto ciò si sviluppò, per la mia esperienza, a partire dagli anni ’80 a Scienze politiche e poi ad Economia e più diffusamente nelle altre facoltà umanistiche, anche se spesso in conflitto con la scarsa preparazione di base delle matricole, conseguente al crollo della formazione nelle scuole secondarie.

Il tema della tensione “rivoluzionaria” veniva declinato sulla base delle diverse esperienze e culture politiche.

Vi era chi, come il sottoscritto federalista europeo, sognava la “rivoluzione mazziniana” per la Federazione europea. Una rivoluzione di popolo come quella della “riunione nella sala della pallacorda” che dichiarò la fine della sovranità regia in Francia sostituendola con la sovranità popolare. Si “ contestava” persino Altiero Spinelli che aveva abbandonato i sogni rivoluzionari per accettare un seggio al Parlamento europeo, non ancora eletto a suffragio universale, e si facevano i primi referendum consultivi popolari (una firma per la Federazione europea a Berlino ancora divisa) prima ancora della deriva pannelliana.

Vi era chi, con una interpretazione leninista del marxismo, vedeva la rivoluzione come  cambiamento violento dell’assetto di potere e “ contestava” il PCI in quanto traditore degli ideali di una certa resistenza. Non incitava alla violenza fisica, ma la usava per difendersi dal nemico “fascista” (erano fascisti tutti coloro che non aderivano all’afflato rivoluzionario...), ma sviluppava una violenza verbale a fini sia propagandistici che di identità. Quando in una riunione ufficiale alla presenza del vicepresidente del Consiglio Nenni, venne intonato lo slogan “Moro e Nenni servi di Agnelli”, Nenni impallidì esterrefatto. Mancava però una strategia politica efficace ed efficiente.

Vi era infine chi, spesso da esperienze cristiane e pacifiste, vedeva la “rivoluzione” come una mutazione di approccio ai conflitti sociali, sulla base del modello gandhiano, e, con marce per la pace, disobbedienza civile, scuole popolari stimolava un cambiamento della  cultura di origine nazionalista e fascista che aveva “costruito” sin dall’infanzia la classe dirigente al potere.

Tutte queste “visioni rivoluzionarie” fallirono, dimentiche del viatico di Machiavelli ai riformatori – “Il riformatore ha nemici tra quelli che traggono profitto dal vecchio ordine e solo dei tiepidi difensori in quelli che dovrebbero trarre profitto dal nuovo” – e quello di Lenin  ai rivoluzionari – “Estremismo malattia infantile del comunismo” –.

Gli avversari erano noti: quella parte della classe politica statunitense che temeva il mutamento di assetto geo-politico nei Paesi europei (Germania, Italia), la nomenclatura del PCUS che non voleva modifiche di assetti all’interno del PCI, parte della classe politica italiana, sia quella conservatrice sia quella che aveva programmato il centro-sinistra e che non voleva “disturbi al manovratore”.

Vennero adottate tre strategie: aprire l’Università a tutti (legge Misasi) cosicché l’Università divenisse non più scuola di formazione di una nuova classe dirigente “alternativa e critica”, ma un ampio parcheggio in cui il mercato avrebbe pescato giovani disposti a “vendersi” al miglior offerente. Venne consentita la diffusione delle droghe, sia leggere che pesanti, se è vero ciò che è emerso da una testimonianza di un ex agente segreto americano, che il suo compito fu quello di diffondere le droghe in Europa soprattutto tra i giovani. Venne infine agevolata la strategia della tensione che portò in Germania e in Italia alla creazione di due aree contrapposte tra cui la classe politica al potere poteva mediare o contrapporsi “ Divide et impera”.

Alcuni partecipanti rividero il loro metodi e obiettivi, altri li mantennero per un lungo periodo (spesso sino ad oggi) sulla base del principio “abbiamo perso, ma avevamo ragione” che in politica, come nei rapporti interpersonali, è indice di distopismo non di vero utopismo.

Sul piano delle esperienze personali invece il ’67 fu una interessante svolta, in particolare in Italia, nei comportamenti intergenerazionali, sociali, sessuali, economici, valoriali.

Occorre al proposito fare un passo indietro agli anni ’30 nei college inglesi dove il filosofo Bertrand Russel, constatando in Inghilterra l’aumento delle nascite pre-matrimoniali tra i suoi allievi e preconizzando il futuro trend divorzistico (lui stesso divorziò due volte) propose che i giovani facessero, nei rigidi e separati college inglesi, esperienze miste e pre-matrimoniali al fine di conoscersi sessualmente ed evitare successivi matrimoni critici.

In Francia poi a partire dagli anni ’50 la “vague” esistenzialista aveva abbattuto alcune barriere nelle esperienze di genere (la coppia Sartre-de Beauvoir  era un modello per gli intellettuali engagés). Ciò spiega perché i primi in Europa a sollevarsi, dopo le proteste nei college americani  per avere dormitori misti, furono gli studenti parigini.

Come è stato ben raccontato, nel ’67 confluirono tre diverse generazioni di studenti: i laureandi, nati nel ’43-’45 che avendo avuto una precedente esperienza politica,cercavano la “ contestazione” dei padri e delle loro scelte ritenute infruttuose, gli studenti provenienti dalle province piemontesi che trovarono nelle occupazioni momenti di aggregazione e di integrazione con i giovani borghesi di città, e infine i primi figli di immigrati dal Sud che scoprirono la “liberazione” dai valori statici e tradizionali dei loro padri. Certo le comuni, il “sesso di gruppo”, la filosofia dei “figli dei fiori”, il permissivismo educativo, fallirono o deviarono l’impegno politico e sociale.

Cosa rimane del ’67 oggi, a ’50 anni da quell’esplosione di “giovanilismo” e di “voglia di cambiamento”?

Molti borghesi si sono integrati nel sistema, spesso pubblico (insegnamento, amministrazione pubblica ) o della comunicazione (giornalismo, pubblicità, organizzazione culturale). Alcuni sono finiti per brevi periodi  in carcere o emarginati (un mio compagno di scuola segretario di un Partito marxista-leninista, avendo donato il suo alloggetto al partito, rimase fuori casa...). Altri rimpiangono ancora “le magnifiche sorti e progressive” e, come i reduci, si consolano vicendevolmente.

Resta però il linguaggio di quel periodo trasferitosi ai figli: slogan aggressivi, emotivamente coinvolgenti; superficialità di analisi dei fenomeni sia politici che sociali; un sotterraneo complesso di inferiorità verso quei Paesi europei che seppero contrastarne gli aspetti “antipolitici”: in Francia De Gaulle si contrappose e poi perse il successivo referendum, dando coerentemente le dimissioni; in Germania la lotta alla Rote Armee Fraktion fu dura ma breve, e diede spazio ad esperienze di “alternativa democratica” come i Grünen.

Resta infine il superamento dei valori nati dalla Resistenza: lotta all’individualismo, libertà responsabile, solidarismo sociale, che sono stati via via trasformati in individualismo consumistico, in narcisismo politico ed economico, in libertà spesso irresponsabile. Si sono sviluppate battaglie sociali per i diritti (divorzio, aborto, eguaglianza, parità di genere ), ma non analoghe battaglie per i doveri sociali e civili, premessa per l’acquisizione e la tutela dei diritti: doveri verso la legalità, verso una giustizia rapida ed efficace, verso i consumatori e risparmiatori deboli, verso l’ ambiente, verso i residenti in Italia di origine extracomunitaria (acquisto della cittadinanza come strumento di integrazione).

Come disse un noto sociologo: la società europea è nata sulla base dei valori del buon contadino (duro lavoro per sfamare la grande famiglia), del buon operaio e dell’artigiano (il capolavoro come espressione della precisione), del  professionista (correttezza come espressione di richiesta di fiducia).

Non sappiamo, dai valori che ora sono in auge, quale società verrà lasciata ai nostri nipoti.


2 Commenti

  1. Simpatica e precisa (anche se necessariamente sintetica) ricostruzione della nostra gioventù. Ho apprezzato soprattutto la visione non condizionata da pregiudizi di parte. Un grazie all’amico Oreste.

  2. Ringrazio l’amico Oreste per la simpatica ricostruzione degli eventi torinesi anticipatori del sessantotto. I ricordi personali di momenti significativi della vita del Paese sono sempre un contributo utile alla comprensione degli avvenimenti.

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