A un secolo dall’Appello “ai liberi e forti” e mentre si moltiplicano inviti e iniziative per una nuova stagione di impegno dei cattolici in politica, credo sia opportuno riflettere attorno a quale sia la responsabilità storica da esercitare in questa fase. Questa è la condizione necessaria per definire una strategia politica adeguata alle sfide attuali e le forme organizzative più opportune con cui interpretarla.
Siamo nel pieno di una crisi sociale ed economica, che, se non adeguatamente governata dalla politica, rischia di finire fuori controllo. Le proteste dei gilet gialli in Francia non sono che l’ultima, e più allarmante, spia di un malessere diffuso che sta dilagando fra la classe media europea che ha preso coscienza di esser maggioranza e di esser stata impoverita da scelte politiche che sono state assunte non in nome del bene comune ma per aumentare i vantaggi di pochissimi ricchi che divengono sempre più ricchi, come non si stanca di denunciare un tenace quanto inascoltato pontefice.
La Francia non appare troppo lontana dal precipitare in uno stato insurrezionale, con i militari e il popolo che si stanno riconoscendo nel capo di Stato Maggiore dell'esercito de Villiers (Pierre Le Jolis de Villiers Saintignon), destituito da Macron, e un establishment radical-chic ma “péteniano”, satellite di Berlino, asserragliato a difesa dell’inquilino dell’Eliseo.
Non migliori appaiono le prospettive del nostro Paese, fin quando non avrà altra scelta tra l’applicazione di una austerità che soffoca l’economia e frantuma la coesione sociale, oppure rischiare di esporsi alle dolorose ritorsioni minacciate da Commissione europea e BCE, nel tentativo da queste reso vano, di attuare politiche espansive.
In un simile contesto si colloca la domanda di quale sia la nuova responsabilità da assumere per un rinnovato impegno politico dei cattolici democratici e popolari. Con tutti i rischi del caso, con inevitabili laceranti scelte su quali siano i mali minori. Rischi non diversi da quelli che dovettero assumersi nel loro tempo le grandi figure del cattolicesimo politico, da don Sturzo a De Gasperi a Moro.
Il dilemma in ultima analisi ruota attorno ad una scelta fondamentale: aderire all’unica forma possibile, in questo tempo, di Europa, quella egemonizzata dalla Germania – correndo con ciò il rischio di insostenibili squilibri sul piano economico, sociale e democratico –, oppure ribadire, in continuità con i nostri ideali e con la nostra storia, che non può esservi, né può esser ritenuto accettabile, un primato delle ragioni contabili su quelle della solidarietà senza insidiare alle fondamenta la coesione sociale e la stessa tenuta delle istituzioni democratiche.
Ma forse per poter realizzare questa assunzione di responsabilità occorrerebbe valutare bene il fatto, la terribile sorpresa, che con l’avanzare del processo di integrazione comunitaria ci si attendeva una Germania europea, invece si è affermata un’Europa tedesca che ha cambiato il dna delle istituzioni comunitarie. Dal trattato di Maastricht in poi, l’Unione Europea è divenuta altra cosa rispetto alla Comunità europea dei padri fondatori. L’Europa di De Gasperi, Schuman e Adenauer era sorretta, per dirla con Giulio Sapelli, dalla politica economica dell’inclusione sociale fondata sul lavoro, non dalla deflazione disgregatrice, che è quella che la Germania ha imposto a tutta l’Eurozona.
Il mito della stabilità monetaria a scapito del potere d’acquisto dei salari e dei diritti del lavoro, opera un sistematico trasferimento di ricchezza dai ceti lavoratori ai detentori del potere finanziario, che causa una persistente crisi della domanda interna. È questo meccanismo che sta mandando in frantumi l’Europa, e che sta mettendo gli stati e le classi sociali gli uni contro gli altri. L’Europa potrebbe crescere ed essere prospera, potrebbe permettersi ingenti investimenti per l’innovazione, per stare al passo con il Sud Est asiatico, ma non lo fa, perché deve saziare l’avidità, e le mire geopolitiche non troppo dissimili dal passato, della classe dirigente tedesca.
Per queste ragioni riconoscere che ci sono dei problemi forse costituisce a un tempo il miglior aiuto che si possa ancora dare, prima che sia troppo tardi, alla causa europeista e il contributo più significativo che una nuova stagione d’impegno politico dei cattolici possa dare al Paese e alla nostra epoca.
Siamo nel pieno di una crisi sociale ed economica, che, se non adeguatamente governata dalla politica, rischia di finire fuori controllo. Le proteste dei gilet gialli in Francia non sono che l’ultima, e più allarmante, spia di un malessere diffuso che sta dilagando fra la classe media europea che ha preso coscienza di esser maggioranza e di esser stata impoverita da scelte politiche che sono state assunte non in nome del bene comune ma per aumentare i vantaggi di pochissimi ricchi che divengono sempre più ricchi, come non si stanca di denunciare un tenace quanto inascoltato pontefice.
La Francia non appare troppo lontana dal precipitare in uno stato insurrezionale, con i militari e il popolo che si stanno riconoscendo nel capo di Stato Maggiore dell'esercito de Villiers (Pierre Le Jolis de Villiers Saintignon), destituito da Macron, e un establishment radical-chic ma “péteniano”, satellite di Berlino, asserragliato a difesa dell’inquilino dell’Eliseo.
Non migliori appaiono le prospettive del nostro Paese, fin quando non avrà altra scelta tra l’applicazione di una austerità che soffoca l’economia e frantuma la coesione sociale, oppure rischiare di esporsi alle dolorose ritorsioni minacciate da Commissione europea e BCE, nel tentativo da queste reso vano, di attuare politiche espansive.
In un simile contesto si colloca la domanda di quale sia la nuova responsabilità da assumere per un rinnovato impegno politico dei cattolici democratici e popolari. Con tutti i rischi del caso, con inevitabili laceranti scelte su quali siano i mali minori. Rischi non diversi da quelli che dovettero assumersi nel loro tempo le grandi figure del cattolicesimo politico, da don Sturzo a De Gasperi a Moro.
Il dilemma in ultima analisi ruota attorno ad una scelta fondamentale: aderire all’unica forma possibile, in questo tempo, di Europa, quella egemonizzata dalla Germania – correndo con ciò il rischio di insostenibili squilibri sul piano economico, sociale e democratico –, oppure ribadire, in continuità con i nostri ideali e con la nostra storia, che non può esservi, né può esser ritenuto accettabile, un primato delle ragioni contabili su quelle della solidarietà senza insidiare alle fondamenta la coesione sociale e la stessa tenuta delle istituzioni democratiche.
Ma forse per poter realizzare questa assunzione di responsabilità occorrerebbe valutare bene il fatto, la terribile sorpresa, che con l’avanzare del processo di integrazione comunitaria ci si attendeva una Germania europea, invece si è affermata un’Europa tedesca che ha cambiato il dna delle istituzioni comunitarie. Dal trattato di Maastricht in poi, l’Unione Europea è divenuta altra cosa rispetto alla Comunità europea dei padri fondatori. L’Europa di De Gasperi, Schuman e Adenauer era sorretta, per dirla con Giulio Sapelli, dalla politica economica dell’inclusione sociale fondata sul lavoro, non dalla deflazione disgregatrice, che è quella che la Germania ha imposto a tutta l’Eurozona.
Il mito della stabilità monetaria a scapito del potere d’acquisto dei salari e dei diritti del lavoro, opera un sistematico trasferimento di ricchezza dai ceti lavoratori ai detentori del potere finanziario, che causa una persistente crisi della domanda interna. È questo meccanismo che sta mandando in frantumi l’Europa, e che sta mettendo gli stati e le classi sociali gli uni contro gli altri. L’Europa potrebbe crescere ed essere prospera, potrebbe permettersi ingenti investimenti per l’innovazione, per stare al passo con il Sud Est asiatico, ma non lo fa, perché deve saziare l’avidità, e le mire geopolitiche non troppo dissimili dal passato, della classe dirigente tedesca.
Per queste ragioni riconoscere che ci sono dei problemi forse costituisce a un tempo il miglior aiuto che si possa ancora dare, prima che sia troppo tardi, alla causa europeista e il contributo più significativo che una nuova stagione d’impegno politico dei cattolici possa dare al Paese e alla nostra epoca.
Siamo dell’avviso che nelle osservazioni esposte nell’articolo di Giuseppe Davicino sulla attuale situazione della UE c’è una verità di fondo che però non è in grado di spiegare quali siano le ragioni politico-filosofiche che hanno portato all’attuale “degenerazione” dell’Istituzione europea. In effetti a nostro modo di vedere tale “degenerazione” non è meramente frutto di cause endogene alla U.E. (anche se non si può negare che il processo di unità politica, in forma di Federazione Europea, come punto d’arrivo di una primitiva fase di Zollverein è sempre apparsa, diremmo sin da subito, come una irraggiungibile chimera, malgrado il grande clima di sincera solidarietà europea delle origini ed i parziali passi fatti) ma va imputata soprattutto a cause storiche e culturali più generali, assolutamente trascurate sino ad ora da parte di storici e analisti politici, esogene al processo di unificazione del nostro continente.
Per entrare in medias res dovremmo, a nostro avviso, cominciare col distinguere nel periodo intercorrente tra la fine della seconda guerra mondiale ed oggi in due parti: la prima dominata dallo scontro tra la “pluralista” ideologia liberal-democratica occidentale e l’ideologia “totalitaria” marxista-leninista, che dividevano l’Europa in due campi avversi comprendenti, il primo, i paesi del Patto Atlantico avente come modello dominante (ma non senza una certa libertà di declinazione del modello stesso in forme ora tendenzialmente più liberali ora tendenzialmente più lato sensu socialdemocratiche ma pur sempre aventi sempre presente, a buon senso, prima ancora che per motivi strettamente ideologici, il concetto di solidarietà sociale) quello rappresentato dagli USA e, il secondo, i paesi del Patto di Varsavia più ferreamente legati al modello sovietico (anche se col tempo l’unitatietà del modello, malgado i tentativi, talvolta anche violenti, di repressione di ogni devianza da parte dell’URSS non si mantenne del tutto e nei paesi satelliti ebbe delle ridotte deviazioni nazionali).
Si parlò per questo primo periodo, terminato nel 1989, di “secolo delle ideologie” e si arrivò a dire, per il successivo secondo periodo, tutt’ora in corso, che, essendo finite le contrapposizioni idelogiche si era raggiunta “la fine della storia”, una sorta di “pace universale ed eterna” non più rotta da scontri tra contrapposti modelli socioeconomici. Prescindiamo qui sul fatto che ipotetici “scontri di civiltà” potrebbero (come poi del resto è accaduto, si pensi in particolare ai fermenti antioccidentali del mondo musulmano) avere altri momenti valoriali su cui basarsi, va rilevato che il presunto “modello unico vincente occidentale” è stato visto, in un’ottica di progresso che avrebbe dovuto portare tutti i popoli dell’ecumene verso un unico modello valoriale, comune a tutti i popoli in quanto “dettato dalla ragione universale”.
Il trucco per considerare questa visione come un fatto reale è consistito nel concentrare l’attenzione sulla tendenza alla formazione nel corso dell’ultimo decennio del secolo XX di un mercato globale, visto come una sorta di “cavallo di Troia” della trionfante liberaldemocrazia. La frase più in voga negli anni novanta del secolo scorso era: “Anche la Cina comunista, ultimo paese di rilievo rimasto sotto un regime comunista, ha privatizzato l’economia e vuole aprirsi al libero commercio dei mercati mondiali. Tutto ciò, è solo questione di tempo, alla fine non potrà che portare la Cina verso una forma di governo liberal-democratico, visto che la storia ha dimostrato che per far funzionare un libero mercato ci si deve dotare di un regime pluralista di tal fatta”. Evidentemente tali dottrinari che andavano per la maggiore, non avendo letto (o, pur avendolo letto, non avendo capito) Shakespeare, non tenevano conto del fatto che “ci sono più cose in cielo ed in terra che in qualsiasi filosofia” che mente umana possa partorire.
Da questo errore concettuale di partenza è derivata la possibilità da parte degli egemoni USA di diffondere, facendola accettare dai loro alleati occidentali, culturalmente predisposti ad una sua acritica assimilazione (resa anche tacita dalla sparizione dalla circolazione del termine stesso dalla stessa stampa quotidiana), trasformandola in un vero e proprio indiscutibile “senso comune”, la dottrina anarco-capitalistica (ci si può informare agevolmente e in modo sufficientemente approfondito su questa dottrina, che è una dottrina politico-filosofica prima che una dottrina avente una applicazione economica, leggendo la voce “Anarcocapitalismo” di Wikipedia) che, senza che ne venissero tanto divulgati i principi teorico-politici, veniva applicata nei paesi anglossassoni ancor prima della caduta del muro da Donald Reagan e da Margareth Thatcher.
A questo punto è scattato un altro meccanismo: l’indiscutibilità della svalutazione, che purtroppo nella storia del processo unificatorio europeo era già presente, anche se solo in nuce, della valenza dell’azione politica rispetto alla valenza dell’azione economica, che viene vista, secondo la visione dottrinaria anarco-capitalistica, come il motore della “liberazione dal male” e “la fonte della felicità umana” (concezione escatologica del binomio tecnologia-economia nel cammino del progresso umano) alla quale, conseguentemente, la politica deve essere ancillata nelle sue scelte.
In seguito al predominare di questa dottrina, dalla quale consegue necessariamente (anche se in forma solo implicita per ovvi motivi) la fine delle ideologie politiche come strumenti di salvezza e la riduzione del sistema di governo liberal-democratico ad un semplice strumento per consentire presuntivamente l’efficienza del mercato, di fatto veniva più o meno cripticamente spostato nelle mani degli operatori economici, e soprattutto finanziari, anche il potere di scelta politica (per molti aspetti a sovranità limitata, né più né meno di quella degli stati federati all’interno di uno stato federale) degli stati membri della U.E., provocando le c.dd. reazioni populistico-sovranistiche che tutti ben conosciamo.
Qui non ci è possibile approfondire la questione ma basterà dire che a nostro avviso la dottrina anarco-capitalistica sia la vera concezione politica profonda della civiltà statunitense, in quanto gli Stati Uniti hanno la peculiarità storica di essere un originale stato fondato e costituito pressocché esclusivamente da coloni borghesi adattatisi, per potersi liberare dai vincoli della corona inglese (percepiti come oppressivi), a esercitare anche funzioni politico-militari, ma pur sempre con la riserva mentale che “lo stato è il problema”, per cui quanto meno meno fa sentire la sua autorità e quanto meno interviene tanto meglio è. Riserva mentale carsicamente riemersa nel XX Secolo nel seno della scuola economica iperliberista di Chicago.
Tornando all’Europa del periodo successivo alla caduta del muro di Berlino va notato come l’accresciuto potere statunitense sul Vecchio Continente, a cui a fatto da stimolo come accrescitore il timore che i paesi della sponda europea della NATO, una volta sciolto il Patto di Varsavia, fossero presi dalla tentazione di allentare i vincoli politico-militari con gli USA, magari sentendosi anche più liberi di fargli una concorrenza commerciale senza limiti, e, perché no, potessero essere interessati a riempire i nuovi spazi commerciali apertisi nell’ex URSS, inficiasse l’ormai incontrastata egemonia mondiale statunitense.
In tale egemonia globale era anche ricompresa l’egemonia culturale, aspetto imprescindibile per il mantenimento del nuovo pensiero unico (sostitutivo del precedente pensiero liberal-democratico della guerra fredda, che era un pensiero “parziale”, in quanto contrapposto al totalitarismo sovietico) supportante l’ormai splendidamente solitario (e garante incontrastato di nuove “magnifiche sorti e progressive”) potere mondiale, politico, militare e soprattutto economico, della superpotenza americana (o che almeno come tale appariva).
Questa strategia politica americana successiva al 1989 nei confronti della U.E. a nostro parere ha una doppia valenza: una pratica e una teorica.
La valenza pratica sarebbe quella di facilitare i rapporti con i paesi europei avendo un interlocutore formale unico per una serie di controparti che in realtà nello stesso tempo è divisa da interessi nazionali diversificati e talora anche contrastanti. Una sorta di divide et impera (accentuatosi da quando c’è Trump alla presidenza) che però viene semplificato dalla presenza di una istituzione capestro che obbliga se non altro i riottosi europei a svolgere collettivamernte l’attenzione, anche se in ordine sparso, verso gli USA (si era anche parlato di tentativi di portare la U.E. ad essere quasi un’altra faccia della NATO per meglio garantire gli interessi statunitensi).
La valenza teorica (oggi entrata in crisi con la presidenza Trump) è quella di predicare il verbo antisovranista in nome della globalizzazione economica che aveva preso subito il sopravvento sotto la spinta sia del governo statunitense sia delle multinazionali transatlantiche. Un tragico errore di calcolo che gli USA, forti, tra l’altro, anche della non convertibilità in oro del dollaro, ritenevano di poter egemonizzare i mercati mondiali stanno pagando duramente dal momento che si stanno rendendo conto che la delocalizzazione in Cina si è rivelata una trappola che sta comportando, da parte della quanto mai globalizzata potenza sovranista cinese, un grande accumulo di ricchezza e di capitale tecnologico che sta sovvertendo le graduatorie mondiali della potenza economica.
Contemporaneamente la U.E., vittima delle illusioni che le dottrine anarco-capitaliste che predicano l’antisovranismo per principio, quasi si trattasse di un dogma di fede, ha totalmente arrestato la già flebile spinta verso uno stato federale europeo (anche la spinta USA a inglobare i paesi dell’Est nella U.E. ad uso e consumo dell’espansione NATO ci ha messo del suo a rendere di fatto sempre più utopica la conversione della U.E. in uno stato federale) per cui l’istituzione europea ha assunto sempre più la forma di un “ircocervo anarco-capitalistico”, con la conseguenza che i segnali di un suo sgretolamento cominciano a farsi evidenti. E vediamo perché.
L’illusione che l’economia di mercato e la sua “spontaneità” (si fa per dire, naturalmente), basta su principi di darwinismo sociale, possa gerarchicamente sovrapporsi alla politica, facendo di questa la sua ancella, non può reggere. L’idea di politica, qualunque sia la forma di governo, dall’assolutismo più spinto alla democrazia più spinta, ha sempre una sua legittimazione nel concetto di giustizia, cioè nel consentire di dare a ciascuno il suo. Naturalmente “dare a ciascuno il suo” è un concetto astratto che nel tempo e nello spazio è stato riempito con i contenuti più diversi e più contraddittori. Resta il fatto che la giustizia, per coincidere con il darwinismo sociale del mercato, come si va predicando, dovrebbe essere in grado di premiare una equa distribuzione della ricchezza, cosa che non si confà alle finalità concorrenziali che condizionano il comportamento degli operatori economici.
Questo è il problema della U.E.! Essa, anziché sostanziarsi in una entità politica che amministra con pesi e contrappesi gli interessi generali degli stati che ne fanno parte sotto forma di un governo federale super partes, agisce come un “regolatore di mercato” in cui i singoli stati membri altro non sono che dei “sistemi paese”, economicamente intesi, in concorrenza tra di loro, ove il pesce grosso mangia il pesce piccolo (rectius: il più efficiente divora il meno efficiente sul mercato) senza pietà. E senza “scrupoli di coscienza”, visto che i principi d’azione sono quelli del darvinismo sociale.
E quel che è peggio è che non ci si rende conto che ciò avviene non solo con riferimento alle scelte economiche ma anche alle scelte politiche, quale quella del controllo delle frontiere e la regolamentazione dei flussi di migranti, dal momento che, anche se negata nella sua esistenza, l’azione politica nei fatti è gestita dai poteri istituzionali europei come se essi avessero i poteri di un vero e proprio stato federale, salvo poi non essere in grado di fare valere soluzioni giuste e accettate secondo quelli che sono i canoni (politici, di giusta mediazione) interni a qualsiasi stato, unitario o federale che sia.
Se questo è il quadro europeo e, direi, mondiale mi pare che una cosa si possa concludere, e cioè che “sovranismo” e “antisovranismo” sono parole che non hanno alcuna valenza univoca circa il loro positività o negatività valoriale in termini di utilità ma che, concretamente, di volta in volta ci pare che indichino fenomeni vincenti, come nel caso della Cina, e perdenti, come nel caso della UE e degli USA. Questi ultimi volutamente, a suo tempo, antisovranisti per vocazione storico-ideale e per l’interesse pratico di espandere la propria potenza imperial-economica nel mondo, sono ora costretti, sovranisticamente, e non si sa con che esito, a battere in ritirata per la fallimentarietà delle delocalizazioni industriali in paesi come la Cina, dotata di un forte senso di statalità imperiale e sovrana.
Quanto ai nanosovranismi europei (della non-sovranità del “non-stato federale europeo” abbiamo già parlato), sorta di ingenui campanilismi fuori tempo, riteniamo che essi non siano in grado di portare alcun beneficio (sono comunque un ottimo termometro per misurare la febbre del sistema, per chi lo vuol capire) in quanto siamo convinti che ad un certo punto, in un futuro forse non troppo lontano, al “libero mercato mondiale” probabilmente si sostituirà, per evitare il peggio, un piccolo concerto multipolare di grandi nazioni continentali sovrane (alle quali si uniranno gruppi di stati satelliti), al limite sotto l’egida dell’ONU, che gestiranno tra loro gli scambi commerciali concordati a livello politico. E la globalizzazione dei mercati “antipolitici” dell’anarco-capitalismo (è paradossale chiamare “antipolitici” i populisti-sovranisti) andrà in soffitta. L’Europa dovrebbe riflettere su ciò.