Negli ultimi decenni si sono imposti nello spazio pubblico i valori esaltati dal politicamente corretto: diritti individuali, cosmopolitismo e multiculturalismo. Questi valori hanno condizionato in qualche misura anche le cosiddette destre tradizionali, ma sono state le sinistre, ormai convertite al pensiero “liberal”, ad averne fatto una ragione di esistenza avendo accantonato la ricerca di realizzare una società più giusta.
Tra questi riferimenti, mi soffermo sul multiculturalismo perché questo termine richiede di essere precisato in quanto non ha una solida consistenza nelle declinazioni fatte dai suoi sostenitori. In proposito, scrive Federico Rampini : “Si è reso omaggio sempre e ovunque alla società multietnica, senza voler ammettere che questo termine in sé non vuol dire niente" (Il tradimento: globalizzazione e immigrazione, le menzogne dell'élite). Multietnico non è sinonimo di multiculturale, ma l'etnia è, in larga misura, il supporto di una cultura, pertanto le due parole, nell'uso oggi corrente, sono interscambiabili. Vediamo allora di cercar di capire che cosa il multiculturalismo possa voler essere.
Qui occorre fare un passo indietro e soffermarci sulla parola “cultura”, un termine complesso. Se consultiamo i dizionari, troviamo più significati, ma quello pertinente al nostro discorso riguarda “l'insieme delle istituzioni sociali, politiche ed economiche, dei procedimenti tecnici, delle attività scientifiche ed artistiche, delle tradizioni, delle manifestazioni spirituali e religiose che caratterizzano la vita di una determinata società in un dato momento storico”. È di fatto un sinonimo di civiltà.
In materia, si impongono delle precisazioni. La cultura non è un fenomeno di carattere individuale, ma collettivo: per ogni elemento culturale, vale quanto è necessario a una lingua per esistere e sopravvivere: essere quotidianamente praticata da un consistente numero di persone ancorate a un territorio. Le culture, inoltre, non riguardano il solo presente, ma attraversano i secoli. Ha scritto qualche tempo fa Ernesto Galli della Loggia, sul “Corriere della sera”: “Una cultura si forma attraverso la confluenza nel proprio alveo di influssi e ibridazioni. Ma l'alveo è decisivo, e ogni alveo è diverso da un altro (...) La cultura italiana di oggi non è profondamente diversa da quella dei nostri nonni. Non cambia ogni settanta-ottanta anni. La cultura vera, profonda, di un Paese è frutto di innumerevoli stratificazioni a cominciare da quella religiosa. Cambia il costume non la cultura, non i tratti dell'identità e dei suoi valori di fondo”. “Il multiculturalismo – aggiunge Galli della Loggia – consiste nell'idea che in una società possano o debbano convivere senza problemi culture diverse. Ma la cultura non è un cappotto, che può infilarsi o sfilarsi a piacere. Quando se ne possiede una, e si ha intenzione di mantenerla, è molto difficile adottarne insieme un'altra”.
È evidente che i fautori del multiculturalismo considerano la cultura un fatto individuale: più persone di varia provenienza confluite in un luogo convivono conservando ciascuna la propria lingua e i propri riferimenti culturali. Ma questa è una condizione transitoria, dettata da necessità, che non può durare nel tempo. Scrive infatti Federico Rampini che una tale “società multietnica non ci dice qual è il risultato finale, il segno dominante, il mix di valori che regolano una società capace di assorbire flussi d'immigrazione crescenti”. Al termine del processo, sarà la cultura più forte, più consapevole di sé, più aggressiva, ad imporsi sulle altre. Chi non si rende conto di ciò, rischia di fare la parte dell'apprendista stregone.
Al momento, dice ancora Galli della Loggia, possiamo constatare che “una società realmente multiculturale, caratterizzata da una molteplicità paritaria di culture, non esiste in alcun luogo del pianeta. In ogni società, c'è una cultura dominate che determina il quadro delle regole generali, regole mai neutre, quindi condivisibili da tutti senza problemi. Esse rappresentano e tutelano determinati modelli di vita, determinati valori, frutto di una determinata storia, specialmente religiosa”.
Il pluralismo culturale è un grande valore, e fortunatamente il pianeta Terra è multiculturale, perché lo abitano numerosi popoli con la loro cultura che praticano nel proprio territorio. Ma ci sono Stati multiculturali? Sì, lo erano i grandi imperi del passato; lo sono oggi l'India, la Russia e la piccola Svizzera, federazioni di entità territoriali abitate da nazionalità differenti. Ma gli Stati multinazionali non sono quanto i fautori del multiculturalismo intendono con detto termine: questo si realizzerebbe entro un medesimo territorio nella convivenza quotidiana di persone di diversa cultura (che intendono mantenere). Il loro modello sono gli Stati Uniti e in particolare New York. Vorrei ricordare che ci sono sempre state nel mondo città – capitali o centri economici e commerciali – in cui confluiscono persone di nazionalità e culture differenti. Però sono solo casi particolari non generalizzabili, possibili in quanto ci sono gli altri luoghi (dai quali provengono molti dei residenti in tali città) in cui le culture possono continuare a esistere perché vivono nelle comunità che le praticano.
Molto diverso è il caso di quanto accade in America, ed oggi in Europa, a seguito di rilevanti flussi migratori quando si vengono a creare, in quartieri o in parti di territorio, piccole isole culturalmente differenziate in cui gruppi di immigrati conducono larga parte dell'esistenza mantenendo i loro originali codici comportamentali. Si tratta di una forma di apartheid, di segregazione culturale dei nuovi arrivati con la formazione di veri e propri ghetti. Tutto ciò non favorisce l'integrazione, al contrario alimenta la conflittualità etnica che contrassegna queste aree “multiculturali”. Ce ne parla Robert Putnam, docente di sociologia di Harvard, (come riportato da Maurizio Viroli su un numero di “Specchio” del 2016) per il quale, negli Stati Uniti, la disomogeneità etnica e culturale, dovuta ai flussi migratori, contribuisce al venir meno del capitale sociale. Le comunità più omogenee sul piano etnico e culturale sono quelle ancora capaci di comportamenti responsabili improntati a civismo. Nelle aree più disomogenee, in cui vivono cittadini diversi per etnia e religione, viene meno la reciproca fiducia e la partecipazione alla vita sociale. Putnam si chiede come operare per ritrovare nelle democrazie un minimo senso di comunità e di fiducia negli altri senza chiudere le porte agli immigrati, ma, al momento, non trova risposta.
Forse la risposta sta nelle politiche di assimilazione dei nuovi venuti, perché solo con esse può riuscire l'integrazione. Certamente, come già detto in altro scritto, bisogna tener conto che l'esito di tali politiche dipende dalla dimensione degli arrivi e dalla distanza culturale degli immigrati rispetto a quella del Paese raggiunto: se gli arrivi sono assai consistenti e la distanza è molta, l'assimilazione diventa lenta, difficoltosa e può fallire. Tuttavia vale la pena di tentare l'impresa.
Comunque i fautori del multiculturalismo si oppongono all'assimilazione in nome della pari dignità delle culture dei migranti rispetto a quella del Paese ospitante. Posizione fuori della realtà, perché non tiene in alcun conto la stretta relazione e interdipendenza che si è stabilita nei secoli tra il territorio e la popolazione che su di esso è insediata. Jurgend Habermas addirittura sostiene che la sola cosa che si può pretendere dagli immigrati è apprendere la lingua del Paese ospitante, ma non altro, né cultura, né stili di vita, né scala di valori. Meraviglia che un intellettuale, quale egli è, non si renda conto che la lingua non è solo un mezzo di comunicazione, ma una struttura mentale che riflette e incorpora fondamentali aspetti della cultura di un popolo. L'integrazione vera, ha scritto Galli della Loggia, è integrazione in una cultura, l'adozione dei suoi tratti caratteristici di fondo, della sua visione del mondo: è quindi assimilazione. Ogni vera integrazione è radicalmente contraddittoria con l'idea di multiculturalismo.
Concludendo, da quanto detto, la nozione stessa di multiculturalismo si rivela debole, di scarsa consistenza, o quanto meno contraddittoria. Farne un elemento centrale di un'identità o di un progetto politico connota una vocazione verso l'irrealtà che non può non ricadere negativamente su ogni altro aspetto od obiettivo ad esso associato, e che quindi inficia un intero programma elettorale privandolo di credibilità.
Tra questi riferimenti, mi soffermo sul multiculturalismo perché questo termine richiede di essere precisato in quanto non ha una solida consistenza nelle declinazioni fatte dai suoi sostenitori. In proposito, scrive Federico Rampini : “Si è reso omaggio sempre e ovunque alla società multietnica, senza voler ammettere che questo termine in sé non vuol dire niente" (Il tradimento: globalizzazione e immigrazione, le menzogne dell'élite). Multietnico non è sinonimo di multiculturale, ma l'etnia è, in larga misura, il supporto di una cultura, pertanto le due parole, nell'uso oggi corrente, sono interscambiabili. Vediamo allora di cercar di capire che cosa il multiculturalismo possa voler essere.
Qui occorre fare un passo indietro e soffermarci sulla parola “cultura”, un termine complesso. Se consultiamo i dizionari, troviamo più significati, ma quello pertinente al nostro discorso riguarda “l'insieme delle istituzioni sociali, politiche ed economiche, dei procedimenti tecnici, delle attività scientifiche ed artistiche, delle tradizioni, delle manifestazioni spirituali e religiose che caratterizzano la vita di una determinata società in un dato momento storico”. È di fatto un sinonimo di civiltà.
In materia, si impongono delle precisazioni. La cultura non è un fenomeno di carattere individuale, ma collettivo: per ogni elemento culturale, vale quanto è necessario a una lingua per esistere e sopravvivere: essere quotidianamente praticata da un consistente numero di persone ancorate a un territorio. Le culture, inoltre, non riguardano il solo presente, ma attraversano i secoli. Ha scritto qualche tempo fa Ernesto Galli della Loggia, sul “Corriere della sera”: “Una cultura si forma attraverso la confluenza nel proprio alveo di influssi e ibridazioni. Ma l'alveo è decisivo, e ogni alveo è diverso da un altro (...) La cultura italiana di oggi non è profondamente diversa da quella dei nostri nonni. Non cambia ogni settanta-ottanta anni. La cultura vera, profonda, di un Paese è frutto di innumerevoli stratificazioni a cominciare da quella religiosa. Cambia il costume non la cultura, non i tratti dell'identità e dei suoi valori di fondo”. “Il multiculturalismo – aggiunge Galli della Loggia – consiste nell'idea che in una società possano o debbano convivere senza problemi culture diverse. Ma la cultura non è un cappotto, che può infilarsi o sfilarsi a piacere. Quando se ne possiede una, e si ha intenzione di mantenerla, è molto difficile adottarne insieme un'altra”.
È evidente che i fautori del multiculturalismo considerano la cultura un fatto individuale: più persone di varia provenienza confluite in un luogo convivono conservando ciascuna la propria lingua e i propri riferimenti culturali. Ma questa è una condizione transitoria, dettata da necessità, che non può durare nel tempo. Scrive infatti Federico Rampini che una tale “società multietnica non ci dice qual è il risultato finale, il segno dominante, il mix di valori che regolano una società capace di assorbire flussi d'immigrazione crescenti”. Al termine del processo, sarà la cultura più forte, più consapevole di sé, più aggressiva, ad imporsi sulle altre. Chi non si rende conto di ciò, rischia di fare la parte dell'apprendista stregone.
Al momento, dice ancora Galli della Loggia, possiamo constatare che “una società realmente multiculturale, caratterizzata da una molteplicità paritaria di culture, non esiste in alcun luogo del pianeta. In ogni società, c'è una cultura dominate che determina il quadro delle regole generali, regole mai neutre, quindi condivisibili da tutti senza problemi. Esse rappresentano e tutelano determinati modelli di vita, determinati valori, frutto di una determinata storia, specialmente religiosa”.
Il pluralismo culturale è un grande valore, e fortunatamente il pianeta Terra è multiculturale, perché lo abitano numerosi popoli con la loro cultura che praticano nel proprio territorio. Ma ci sono Stati multiculturali? Sì, lo erano i grandi imperi del passato; lo sono oggi l'India, la Russia e la piccola Svizzera, federazioni di entità territoriali abitate da nazionalità differenti. Ma gli Stati multinazionali non sono quanto i fautori del multiculturalismo intendono con detto termine: questo si realizzerebbe entro un medesimo territorio nella convivenza quotidiana di persone di diversa cultura (che intendono mantenere). Il loro modello sono gli Stati Uniti e in particolare New York. Vorrei ricordare che ci sono sempre state nel mondo città – capitali o centri economici e commerciali – in cui confluiscono persone di nazionalità e culture differenti. Però sono solo casi particolari non generalizzabili, possibili in quanto ci sono gli altri luoghi (dai quali provengono molti dei residenti in tali città) in cui le culture possono continuare a esistere perché vivono nelle comunità che le praticano.
Molto diverso è il caso di quanto accade in America, ed oggi in Europa, a seguito di rilevanti flussi migratori quando si vengono a creare, in quartieri o in parti di territorio, piccole isole culturalmente differenziate in cui gruppi di immigrati conducono larga parte dell'esistenza mantenendo i loro originali codici comportamentali. Si tratta di una forma di apartheid, di segregazione culturale dei nuovi arrivati con la formazione di veri e propri ghetti. Tutto ciò non favorisce l'integrazione, al contrario alimenta la conflittualità etnica che contrassegna queste aree “multiculturali”. Ce ne parla Robert Putnam, docente di sociologia di Harvard, (come riportato da Maurizio Viroli su un numero di “Specchio” del 2016) per il quale, negli Stati Uniti, la disomogeneità etnica e culturale, dovuta ai flussi migratori, contribuisce al venir meno del capitale sociale. Le comunità più omogenee sul piano etnico e culturale sono quelle ancora capaci di comportamenti responsabili improntati a civismo. Nelle aree più disomogenee, in cui vivono cittadini diversi per etnia e religione, viene meno la reciproca fiducia e la partecipazione alla vita sociale. Putnam si chiede come operare per ritrovare nelle democrazie un minimo senso di comunità e di fiducia negli altri senza chiudere le porte agli immigrati, ma, al momento, non trova risposta.
Forse la risposta sta nelle politiche di assimilazione dei nuovi venuti, perché solo con esse può riuscire l'integrazione. Certamente, come già detto in altro scritto, bisogna tener conto che l'esito di tali politiche dipende dalla dimensione degli arrivi e dalla distanza culturale degli immigrati rispetto a quella del Paese raggiunto: se gli arrivi sono assai consistenti e la distanza è molta, l'assimilazione diventa lenta, difficoltosa e può fallire. Tuttavia vale la pena di tentare l'impresa.
Comunque i fautori del multiculturalismo si oppongono all'assimilazione in nome della pari dignità delle culture dei migranti rispetto a quella del Paese ospitante. Posizione fuori della realtà, perché non tiene in alcun conto la stretta relazione e interdipendenza che si è stabilita nei secoli tra il territorio e la popolazione che su di esso è insediata. Jurgend Habermas addirittura sostiene che la sola cosa che si può pretendere dagli immigrati è apprendere la lingua del Paese ospitante, ma non altro, né cultura, né stili di vita, né scala di valori. Meraviglia che un intellettuale, quale egli è, non si renda conto che la lingua non è solo un mezzo di comunicazione, ma una struttura mentale che riflette e incorpora fondamentali aspetti della cultura di un popolo. L'integrazione vera, ha scritto Galli della Loggia, è integrazione in una cultura, l'adozione dei suoi tratti caratteristici di fondo, della sua visione del mondo: è quindi assimilazione. Ogni vera integrazione è radicalmente contraddittoria con l'idea di multiculturalismo.
Concludendo, da quanto detto, la nozione stessa di multiculturalismo si rivela debole, di scarsa consistenza, o quanto meno contraddittoria. Farne un elemento centrale di un'identità o di un progetto politico connota una vocazione verso l'irrealtà che non può non ricadere negativamente su ogni altro aspetto od obiettivo ad esso associato, e che quindi inficia un intero programma elettorale privandolo di credibilità.
Mi permetto di segnalare queste affermazioni di don Sturzo; sono del 1937 e si riferiscono ad una situazione diversa dall’attuale. Però credo che aiutino anche le scelte e i comportamenti da assumere oggi:
“La storia è inesorabile: l’omogeneità nazionale in uno Stato unico non riesce a sopprimere i nuclei che hanno o si conquistano una vita propria”.
“Le minoranze, possedendo fin da principio una coscienza collettiva, una tradizione familiare religiosa e culturale, non si lasciano assimilare. E’ più facile sterminare una popolazione che assorbirla. Il ricorrere alla costrizione e alla violenza non fa che accentuare la resistenza”. Anche per questo ritengo che la questione migratoria debba essere affrontata a livello continentale e non solo singolarmente da ogni Paese. Inoltre ciò che va chiesto a tutti è il rispetto della Costituzione (quella Europea e quella dello Stato di residenza) evitando regole valide solo per una etnia o una religione. L’integrazione è un processo lungo e non lo si può imporre.
Anche su questo tema, il multiculturalismo, Beppe Ladetto compie l’encomiabile sforzo di definire i termini nel loro significato, e ci propone validi spunti di riflessione. Premesso che il rapporto tra culture e la loro convivenza all’interno di uno stesso Stato è un tema da sempre complesso e storicamente affrontato in modalità diverse, voglio solo aggiungere due spunti, semplici e frivoli nel punto di partenza, che credo utili per ampliare il dibattito.
Primo: la Francia multiculturale ha battuto la Croazia monoculturale agli ultimi Mondiali di calcio. Nello sport in genere, e gli esempi sono molteplici, le società multietniche ottengono migliori risultati.
Secondo: la bagna cauda. Sì, proprio il piatto più tipico per noi piemontesi. Va bene l’aglio, ma cosa c’entrano olio e acciughe con il nostro territorio? Da sempre l’incontro tra culture diverse, e il cibo ne è una parte, provoca contaminazioni e “progresso”. Sempre che si sappia accogliere ciò che di positivo c’è nell’altro.
Aderisco appieno all’esame che del fenomeno “multiculturalismo” fa Ladetto.
Esso ha il pregio, dopo aver individuato che l’assimilazione è l’unica ricetta che raggiunge l’equilibrio (che non è escluso che in varie epoche della stroria di un popolo sia stato rotto da “invasioni”, cioè dal riversarsi in una qualche regione di una massa umana così grande e “culturalmente diversa” da creare problemi di non assimilabilità, come ben chiarito da Ladetto, e, al limite, di scontri etnici placati solo dal verificarsi, ad un certo punto, di un nuovo equilibrio che crea, per dirla con Galli Della Loggia, un nuovo “alveo” unico, un nuovo punto di equilibrio culturale più o meno diverso da quello precedente all’invasione stessa), di farci capire che ci sono dei limiti alle possibilità di mantenere il precedente alveo o meno, con la conseguenza, in questo secondo caso, che spariscano precedenti civiltà e se ne creino delle nuove.
Ciò ci consente di capire quanto sia alquanto riduttivo un discorso incentrato unicamente sul “dualismo accoglienza sì accoglienza no” in un clima di grandi pressioni demografiche come quelle attuali (quanto contenibili? ma non sono già fuori controllo i cambiamenti climatici e la “bomba demografica” mondiale?), in un contesto numerico (riferito non tanto agli spostamenti che avvengono al presente quanto al presente quadro demografico mondiale e, soprattutto, alle prospettive della sua crescita nei prossimi decenni) mai visto prima nella storia. Neppure nelle grandi “invasioni barbariche” dei “secoli bui” in seguito alle quali cadde l’Impero Romano d’occidente, dovute ad una miniglaciazione che fece muovere verso il sud dell’Europa interi popoli dal nord Europa e verso ovest interi popoli dell’Asia Centrale.
Ringrazio degli interessanti commenti, e devo una risposta alle considerazioni di Carlo Baviera e di Alessandro Risso.
Primo. Gli stati nazionali, nel corso della loro storia, talora fin dalle origini, hanno incluso nei propri confini territori abitati da popoli di altra nazionalità o cultura e, tranne poche eccezioni, hanno cercato di cancellarne con la forza (talora espellendone gli abitanti) la diversità. Inoltre, hanno tentato anche di eliminare le differenze regionali con i loro dialetti, le loro tradizioni e consuetudini. Credo che a questa deprecabile politica facesse riferimento don Sturzo nel 1937, di cui condivido le considerazioni in materia: sono infatti un fautore del federalismo e della sussidiarietà. Diverso è quanto accade oggi, quando persone di differente nazionalità e cultura vengono ad inserirsi in un territorio a loro estraneo, in mezzo alle popolazioni autoctone. In questo caso, non possono pretendere di vivere ignorando o respingendo le regole, le consuetudini e i valori di chi li ospita.
Secondo. Attenzione, può essere pericoloso fare graduatorie in base alla fisionomia etnica dei paesi: si comincia dai successi nello sport, poi si finisce ad altri parametri (intraprendenza, capacità tecnologiche, economiche ecc.). Su questa base, Theodore Roosevelt giustificava lo sterminio degli indiani dicendo che erano di ostacolo allo sviluppo dei territori in cui erano insediati, territori che venivano meglio valorizzati dai colonizzatori.
Su un quotidiano di qualche tempo fa, sotto la fotografia di quattro atlete di colore vincitrici di gare con la maglia italiana, c’era scritto: “Questa è l’Italia di domani”. Io ho una nipotina (alla quale sono molto affezionato) venuta dal Congo, e sono aperto alle adozioni e, entro limiti ben precisi, all’accoglienza, ma ritengo che la sostituzione più o meno completa (come indica la fotografia in questione) della popolazione storicamente abitante il paese significhi la morte della Nazione. Ora voglio ricordare che, non Salvini, ma il cardinale Ratzinger, ad inizio Duemila, denunciando la denatalità che affligge il nostro continente, ha affermato di intravedere il tramonto dell’Europa ove la sua vita venisse affidata ai soli “trapianti”, che però non possono non eliminarne l’identità con la sua civiltà millenaria.