Da quando Donald Trump ha assunto la presidenza degli Stati Uniti, i media di casa nostra (in sintonia con la parte politica americana vicina all'establishment), invece di cercare di capire che cosa stia succedendo nel Paese leader dell'occidente, si intrattengono su questioni marginali, sulle gaffe e sulle contraddizioni che contraddistinguono un personaggio certamente anomalo come Trump. Questi, in vero, ci mette molto del suo per trasformare il dibattito politico in una pantomima, e altrettanto molte delle sue idee sono sbagliate (come il negare le modificazioni climatiche di origine antropica, o il non tenere in alcun conto le problematiche ambientali), ma alla base dei suoi gesti e dello scontro con gli avversari, ci sono motivazioni serie perché si tratta di definire il ruolo internazionale del grande Paese.
Abbiamo visto (L'Europa tedesca temuta dagli USA – “Rinascita popolare” 22/6/2018) che, da cento anni, l'obiettivo primario americano è mantenere la leadership planetaria. A tal fine, gli USA contrastano ogni potenza regionale che aspiri a creare o a consolidare un suo spazio di influenza. Di qui, viene la rinata guerra fredda nei confronti della Russia, messa in atto con il duplice obiettivo di ridimensionarne il peso politico e militare, e nel contempo, approfittando del clima di tensione, riaffermare la presenza militare americana in Europa per controllare la Germania.
Tuttavia, il mantenimento della leadership planetaria è un' impresa che si fa sempre più difficile e pesante in un mondo in cui nuovi attori sono comparsi, altri si sono rafforzati e dove l'attrattiva dell'american way of life è ancora forte, ma non più come in un passato ancora recente, prima delle tante fallimentari guerre per esportare la democrazia. Si riaffaccia quindi l'isolazionismo con cui vengono poste in primo piano le istanze interne del Paese, in parte motivate dalla stanchezza di molti cittadini americani per gli oneri che il ruolo imperiale pone loro.
Henry Kissinger (vedi World Order), da tempo ha avvertito questo nuovo clima e, preoccupato dei crescenti pericoli di guerra a cui conduce l'unipolarismo imperiale, si è fatto sostenitore di un mondo multicentrico nel quale, per una pacifica convivenza, siano rispettate le esigenze geopolitiche delle grandi potenze regionali, a partire dalla Russia e dalla Cina. Certamente le sue idee hanno avuto influenza su Donald Trump e il suo entourage, e non solo su di loro. Infatti, della necessità di una svolta in tale direzione, si è fatto portatore anche Bernie Sanders interpretando, sia pure con una diversa sensibilità rispetto a Trump, il disagio e le ansie dei giovani e dei ceti popolari.
Di questo argomento, ci parla su “Limes” (28/12/2017) Dario Fabbri, autorevole studioso di geopolitica.
Donald Trump è il prodotto della fatica imperiale vissuta dall'America. Egli pensa di sostituire l'impero con una nazione normale, inserita nel previsto ordine multipolare, spogliata dei panni del gendarme globale e dedita al profitto commerciale. Tale mutamento di ruolo è determinato dalla voglia di disimpegno da parte americana, che si accompagna all’ascesa del nazionalismo nel resto del mondo, ciò che indurrà alleati e antagonisti a perseguire la ricerca di una propria sfera di influenza. Abbandonato il ruolo planetario, gli USA intendono impegnarsi in battaglie di matrice economica e securitaria, per difendere l’industria nazionale e l’occupazione interna, per combattere il deficit commerciale e per contenere la minaccia terroristica.
Antitetica è la visione degli apparati. Le principali agenzie federali (Dipartimento di Stato, CIA, Pentagono, eccetera) sono certe che l’America resterà a lungo l'unica superpotenza. Gli USA, forti del vantaggio tecnologico, dello strapotere militare, della tenuta demografica e dell'insularità geografica, potranno continuare a imporre la propria volontà e a dominare il pianeta in perfetta solitudine. A tal fine, gli Stati Uniti non necessiteranno di scendere a patti con alcuno e si limiteranno a impedire l’ascesa di nuovi egemoni nei principali teatri regionali e, se del caso, a costringere alla capitolazione chi perseverasse in un tale disegno. La Russia, rappresentata come lo stato-teppista nei confronti dei vicini, sarà ancora la vittima predestinata da piegare mediante il contenimento militare e politico.
Lo scontro tra Trump e gli apparati riguarda pertanto la postura geopolitica degli Stati Uniti, ma nei media portavoci dell'establishment statunitense viene presentato, per mascherarlo, come una disputa di natura legalistica riguardante i rapporti tra l’entourage presidenziale e i russi. Il russiagate, ci dice Fabbri, altro non è che uno strumento messo in campo per legare le mani a Trump e, se ciò non bastasse, per delegittimarlo e tentarne l'estromissione. E, visti i rapporti di forza, probabilmente gli apparati conseguiranno il loro obiettivo imponendo, quanto meno a breve termine, la loro visione del mondo.
L'articolo di “Limes” mette bene in evidenza la natura dello scontro ai vertici degli USA. Tuttavia le prese di posizione del presidente americano sono in genere mal comprese da molti degli opinionisti europei: ad esempio,America first non vuol dire esaltare il ruolo egemonico del Paese, ma al contrario significa mettere in primo piano gli interessi materiali dei cittadini americani. Così, per un'America non più egemone planetario, né poliziotto del mondo, la Russia non rappresenta il nemico, di cui contrastare il ruolo regionale, e lo spauracchio da agitare per mantenere una salda presenza militare in Europa; ed altrettanto la NATO diventa un peso ingiustificato per il contribuente americano: se gli europei la vogliono, la paghino loro. Invece, nel nuovo ruolo assegnato alla nazione, che ha un deficit annuo nella bilancia commerciale di quasi 800 miliardi di dollari (dati del 2016), gli avversari sono la Cina e la Germania, Paesi con bilancia commerciale in attivo, rispettivamente di 500 e di 285 miliardi di dollari, ed esportazioni in larga misura dirette verso gli USA.
Ora, come ci si pone in Europa a fronte di questo braccio di ferro tra Trump e gli apparati?
La “Nuova Europa” (gli Stati est europei di recente ingresso nell'UE), in particolare Polonia e Paesi baltici, sono in prima linea quanto a russofobia e quindi, indipendentemente da ogni altra considerazione, sono schierati con l'America a vocazione imperiale. La Germania, in presenza di una situazione nuova che le offre l'opportunità di farsi avanti, appare incerta perché, malgrado la sua forza economica e tecnologica, non si sente ancora capace di farsi carico della guida del continente (anche per non superati sensi di colpa). La Francia, in perenne ricerca della grandeur e gelosa del ruolo tedesco, cerca uno spazio in cui posizionarsi. Il Regno Unito è tutto preso dalla questione della Brexit, ma, in ogni caso, privilegerà il suo legame con gli USA rispetto a quello con l'Europa. Per quanto riguarda l'Italia, ci sono le reazioni di quei politici e membri dell'establishment che da sempre si sono gloriati di essere i “fedeli alleati” della “grande democrazia americana” il cui atteggiamento di fronte alle iniziative di Trump mi ricorda quello dei dirigenti dei Paesi comunisti dell'est europeo totalmente disorientati a seguito della svolta di Gorbaciov. La nuova maggioranza, su questo tema, come su molti altri, manifesta incertezza e fa dichiarazioni contraddittorie. Tuttavia, specialmente in casa Lega, si guarda con favore ad un possibile calo del clima di tensione fra America e Russia che consentirebbe una ripresa del dialogo fra Europa e Russia.
Come sempre l'Europa si presenta disunita, più presa dalle diatribe interne che attenta ai grandi problemi di politica internazionale. L'abitudine alla condizione di subalternità nei confronti degli USA l’ha deresponsabilizzata. Appare esitante di fronte alle nuove opportunità che le si prospettano e direi spaventata dall'idea di farsi carico degli impegni e degli oneri che una scelta di autonomia e di sovranità le imporrebbe. Eppure questa è l'unica strada che ha per uscire dallo stallo attuale e ritrovare un ruolo da protagonista, anche se si tratta di un percorso molto difficile.
Abbiamo visto (L'Europa tedesca temuta dagli USA – “Rinascita popolare” 22/6/2018) che, da cento anni, l'obiettivo primario americano è mantenere la leadership planetaria. A tal fine, gli USA contrastano ogni potenza regionale che aspiri a creare o a consolidare un suo spazio di influenza. Di qui, viene la rinata guerra fredda nei confronti della Russia, messa in atto con il duplice obiettivo di ridimensionarne il peso politico e militare, e nel contempo, approfittando del clima di tensione, riaffermare la presenza militare americana in Europa per controllare la Germania.
Tuttavia, il mantenimento della leadership planetaria è un' impresa che si fa sempre più difficile e pesante in un mondo in cui nuovi attori sono comparsi, altri si sono rafforzati e dove l'attrattiva dell'american way of life è ancora forte, ma non più come in un passato ancora recente, prima delle tante fallimentari guerre per esportare la democrazia. Si riaffaccia quindi l'isolazionismo con cui vengono poste in primo piano le istanze interne del Paese, in parte motivate dalla stanchezza di molti cittadini americani per gli oneri che il ruolo imperiale pone loro.
Henry Kissinger (vedi World Order), da tempo ha avvertito questo nuovo clima e, preoccupato dei crescenti pericoli di guerra a cui conduce l'unipolarismo imperiale, si è fatto sostenitore di un mondo multicentrico nel quale, per una pacifica convivenza, siano rispettate le esigenze geopolitiche delle grandi potenze regionali, a partire dalla Russia e dalla Cina. Certamente le sue idee hanno avuto influenza su Donald Trump e il suo entourage, e non solo su di loro. Infatti, della necessità di una svolta in tale direzione, si è fatto portatore anche Bernie Sanders interpretando, sia pure con una diversa sensibilità rispetto a Trump, il disagio e le ansie dei giovani e dei ceti popolari.
Di questo argomento, ci parla su “Limes” (28/12/2017) Dario Fabbri, autorevole studioso di geopolitica.
Donald Trump è il prodotto della fatica imperiale vissuta dall'America. Egli pensa di sostituire l'impero con una nazione normale, inserita nel previsto ordine multipolare, spogliata dei panni del gendarme globale e dedita al profitto commerciale. Tale mutamento di ruolo è determinato dalla voglia di disimpegno da parte americana, che si accompagna all’ascesa del nazionalismo nel resto del mondo, ciò che indurrà alleati e antagonisti a perseguire la ricerca di una propria sfera di influenza. Abbandonato il ruolo planetario, gli USA intendono impegnarsi in battaglie di matrice economica e securitaria, per difendere l’industria nazionale e l’occupazione interna, per combattere il deficit commerciale e per contenere la minaccia terroristica.
Antitetica è la visione degli apparati. Le principali agenzie federali (Dipartimento di Stato, CIA, Pentagono, eccetera) sono certe che l’America resterà a lungo l'unica superpotenza. Gli USA, forti del vantaggio tecnologico, dello strapotere militare, della tenuta demografica e dell'insularità geografica, potranno continuare a imporre la propria volontà e a dominare il pianeta in perfetta solitudine. A tal fine, gli Stati Uniti non necessiteranno di scendere a patti con alcuno e si limiteranno a impedire l’ascesa di nuovi egemoni nei principali teatri regionali e, se del caso, a costringere alla capitolazione chi perseverasse in un tale disegno. La Russia, rappresentata come lo stato-teppista nei confronti dei vicini, sarà ancora la vittima predestinata da piegare mediante il contenimento militare e politico.
Lo scontro tra Trump e gli apparati riguarda pertanto la postura geopolitica degli Stati Uniti, ma nei media portavoci dell'establishment statunitense viene presentato, per mascherarlo, come una disputa di natura legalistica riguardante i rapporti tra l’entourage presidenziale e i russi. Il russiagate, ci dice Fabbri, altro non è che uno strumento messo in campo per legare le mani a Trump e, se ciò non bastasse, per delegittimarlo e tentarne l'estromissione. E, visti i rapporti di forza, probabilmente gli apparati conseguiranno il loro obiettivo imponendo, quanto meno a breve termine, la loro visione del mondo.
L'articolo di “Limes” mette bene in evidenza la natura dello scontro ai vertici degli USA. Tuttavia le prese di posizione del presidente americano sono in genere mal comprese da molti degli opinionisti europei: ad esempio,America first non vuol dire esaltare il ruolo egemonico del Paese, ma al contrario significa mettere in primo piano gli interessi materiali dei cittadini americani. Così, per un'America non più egemone planetario, né poliziotto del mondo, la Russia non rappresenta il nemico, di cui contrastare il ruolo regionale, e lo spauracchio da agitare per mantenere una salda presenza militare in Europa; ed altrettanto la NATO diventa un peso ingiustificato per il contribuente americano: se gli europei la vogliono, la paghino loro. Invece, nel nuovo ruolo assegnato alla nazione, che ha un deficit annuo nella bilancia commerciale di quasi 800 miliardi di dollari (dati del 2016), gli avversari sono la Cina e la Germania, Paesi con bilancia commerciale in attivo, rispettivamente di 500 e di 285 miliardi di dollari, ed esportazioni in larga misura dirette verso gli USA.
Ora, come ci si pone in Europa a fronte di questo braccio di ferro tra Trump e gli apparati?
La “Nuova Europa” (gli Stati est europei di recente ingresso nell'UE), in particolare Polonia e Paesi baltici, sono in prima linea quanto a russofobia e quindi, indipendentemente da ogni altra considerazione, sono schierati con l'America a vocazione imperiale. La Germania, in presenza di una situazione nuova che le offre l'opportunità di farsi avanti, appare incerta perché, malgrado la sua forza economica e tecnologica, non si sente ancora capace di farsi carico della guida del continente (anche per non superati sensi di colpa). La Francia, in perenne ricerca della grandeur e gelosa del ruolo tedesco, cerca uno spazio in cui posizionarsi. Il Regno Unito è tutto preso dalla questione della Brexit, ma, in ogni caso, privilegerà il suo legame con gli USA rispetto a quello con l'Europa. Per quanto riguarda l'Italia, ci sono le reazioni di quei politici e membri dell'establishment che da sempre si sono gloriati di essere i “fedeli alleati” della “grande democrazia americana” il cui atteggiamento di fronte alle iniziative di Trump mi ricorda quello dei dirigenti dei Paesi comunisti dell'est europeo totalmente disorientati a seguito della svolta di Gorbaciov. La nuova maggioranza, su questo tema, come su molti altri, manifesta incertezza e fa dichiarazioni contraddittorie. Tuttavia, specialmente in casa Lega, si guarda con favore ad un possibile calo del clima di tensione fra America e Russia che consentirebbe una ripresa del dialogo fra Europa e Russia.
Come sempre l'Europa si presenta disunita, più presa dalle diatribe interne che attenta ai grandi problemi di politica internazionale. L'abitudine alla condizione di subalternità nei confronti degli USA l’ha deresponsabilizzata. Appare esitante di fronte alle nuove opportunità che le si prospettano e direi spaventata dall'idea di farsi carico degli impegni e degli oneri che una scelta di autonomia e di sovranità le imporrebbe. Eppure questa è l'unica strada che ha per uscire dallo stallo attuale e ritrovare un ruolo da protagonista, anche se si tratta di un percorso molto difficile.
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