Genova, il crollo di un mondo



Roberto Di Giovan Paolo    20 Agosto 2018       0

Guardando con coraggio dentro il buco del ponte Morandi, dove giace accanto alle vittime l’Italia dei nostri padri e quella abulica di oggi, c’è il bisogno di rifondare una comunità nazionale e il suo “discorso pubblico”.

C’è un ruolo per la politica in una tragedia immane come quella avvenuta a Genova?

No, se si percorrono le sole strade delle dichiarazioni per i social; sì, se si prova a far tesoro di un dramma civile per rimettere in sesto il dibattito pubblico su fatti che sconvolgono le coscienze di tutti.

La politica in un caso come quello di Genova dovrebbe rispondere a necessità immediate; rafforzare e ripensare la comunità; avere la capacità di ripensarsi e soprattutto ripensare le politiche seguite in questi anni, se le ritiene errate.

          Rispondere alle necessità immediate

È alla politica, allo Stato, che ovviamente spetta di mettere in sicurezza non solo le cose ma la vita delle persone e a cui in questi giorni, massime, sono affidate la vita di coloro che dovranno sopravvivere la tragedia dei loro cari ma anche di chi una vita dovrà ricostruirsela perché abitavano nella zona dove il ponte è crollato come le vite di coloro che lavorano sui e con i trasporti, che tanto peso hanno sull’economia e lo sviluppo di Genova. Un settore talmente importante da coinvolgere fino a quasi dieci miliardi di euro di attività legate soprattutto, ma non solo, alle attività del porto più importante d’Italia e che solo da pochi anni ha ripreso a pieno titolo la sua  forza, considerando anche la forte concorrenza che viene dei vicini porti francesi.

Da questo punto di vista la decisione del governo – di rescissione della concessione per colpa – espressa talvolta in maniera opaca (dichiarazioni a parte) dai comunicati stampa del consiglio dei ministri e con diversa forza e consistenza in dichiarazioni differenti per misura e accenti dai due vicepresidenti del consiglio nonché mandatari dell’attuale presidente Conte, non sembrano cogliere la portata delle questioni sollevate, almeno dal punto di vista delle possibili conseguenze.

Stiamo al tema senza parlare del contenuto: il presidente del consiglio Conte, che in questo caso dovrà ricordare, soprattutto a se stesso, di essere un professore di diritto, ritiene possibile la messa in mora della concessione dello Stato ad Autostrade che, come ricordiamo, vale per tutte le autostrade d’Italia e non solamente per il tratto nel quale comunque bisognerà attendere ciò che la magistratura alla fine statuirà con sentenze che saranno di primo secondo e terzo grado, civili e penali, e avrà quindi contezza di cosa questo significhi – al di là del rischio di confusione tra potere esecutivo e giudiziario già palesatosi in alcune dichiarazioni – dal punto di vista dei tempi e delle certezze di diritto e amministrative.

Se immagina con questa mossa di riuscire a far smuovere il concessionario e a fargli mettere dei soldi che attualmente lo Stato non possiede e anche considerando le penali possibili da pagare, i costi legali e i costi della tenuta in servizio delle autostrade nel frattempo, e nel subentro eventuale al concessionario, e che molti hanno quantificato in quasi venti miliardi, cioè praticamente una legge finanziaria e non di piccolo conto… se si riuscirà con ciò – ipotizzo – ad avere questi denari e quelli delle perdite economiche e dei risarcimenti e questo sarà frutto della pressione esercitata anche attraverso la possibile revoca della concessione, allora Conte avrà realizzato un risultato concreto ed effettivo e forse anche efficace nel breve tempo.

Se al contrario le spese di attivazione per le attività di copertura del rischio economico per la città di Genova e per tutto il suo indotto economico sarà completamente a carico dello Stato e, sia in caso positivo che negativo, comunque una diatriba legale durerà anni e con spese legali che nel migliore dei casi saranno rimborsate nel corso di dieci-quindici anni, qual è la lunghezza media di una causa civile/penale nel nostro Paese – è evidente che il saldo sarà negativo e che questi costi ricadranno su future amministrazioni quale che ne sia il colore, quale che sia la forza della coalizione o delle coalizioni future, considerando che a regime ci saranno almeno tre legislature prima della conclusione possibile della vicenda giudiziaria. Tutto questo lo diciamo senza entrare minimamente nel merito della questione poiché certamente il governo gode dei pieni poteri per poter fare queste scelte ma di esse è anche l’unico responsabile.

          Rafforzare il senso di comunità del Paese

Un altro dei compiti di un governo durante una tragedia quale quella che ha colpito Genova, ma in realtà tutto il Paese, sarebbe quello di aiutare a rafforzare il senso di comunità per una ripresa della vita che certamente sarà molto difficile per le famiglie di coloro che hanno perso i propri cari e per tutta Genova ma anche per quel senso di tristezza che ha ammantato il Paese intero. Quel senso di tristezza che è legato anche all’idea che molte delle cose che sono state da noi realizzate, spesso anche troppo esaltate, negli anni del “miracolo economico” e che insomma tutti noi leghiamo agli sforzi dei nostri padri per far crescere il Paese dopo la guerra e portarlo tra i primi Paesi al mondo per sviluppo economico, siano vanificati, che crollino assieme ai ponti anche alcune nostre certezze sullo “stellone italico”.

Questo senso generale di crisi vaga nel nostro Paese e s’aggiunge alle eterne lagnanze sui costi inutili della politica, e alla mancanza di fiducia in generale nelle istituzioni che, negli ultimi anni, è venuto a mancare anche in termini di sondaggi popolari perfino nei confronti della magistratura, dei carabinieri o del presidente della Repubblica (ognuno ha i suoi punti di riferimento ma non può ignorare la statistica e questi parametri).

A questo s’aggiunga, e non è cosa da poco, il rifiuto per motivi personali o anche per motivi non rilevabili dal punto di vista sociale sociologico, dei funerali di Stato. Non credo ci sia un obbligo nemmeno morale di accettare dei funerali di Stato e credo tutto sommato che il dolore sia una cosa da gestire sobriamente e nel proprio intimo e tuttavia il fatto che metà delle famiglie delle vittime abbia ritenuto di non partecipare ai funerali di Stato segnala un venir meno di un senso di comunità civile, un venir meno dei legami, un venir meno del senso di appartenere ad una Nazione.

Questo avviene tra l’altro in uno dei momenti in cui più basso è il rapporto tra i cittadini e le forme politiche, cioè i partiti e le istituzioni, che la nostra costituzione sin dall’inizio aveva immaginato di porre come elemento di mediazione culturale e di crescita delle masse dopo l’assenza civica che era stato il fascismo e la rottura drammatica dei rapporti tra cittadini e Stato simboleggiata dal cataclisma dell’8 settembre del 1943.

La costituzione non voleva creare i partiti politici o le istituzioni come sostituto dello Stato ma come un elemento di mediazione, di acculturamento collettivo, di integrazione e di crescita di uno Stato che sin dall’unità aveva avuto difficoltà nel crescere al di là del sentimenti retorici, instillati da una certa lettura del Risorgimento, e dal fascismo poi in maniera ancora più esplicita. Questa crisi, questo iato tra i cittadini del rostro Paese e le istituzioni che dovrebbero in ogni caso rappresentarli ed essere un riferimento nei momenti difficili, apertasi negli anni della contestazione si è protratta senza soluzione in questi cinquant’anni con l’eccezione virtuosa degli anni di piombo. E ha portato a una società che si sente più sola e indifesa ed è nello stesso tempo più aggressiva ma non costruttiva nei confronti delle istituzioni. E su questo fanno leva molte rendite politiche del momento.

Le soluzioni non sono portata a di mano – c’è un lavoro di lunga lena, se si vuole farlo – ma quello che va constatato è che sempre di più si sente un’estraneità verso lo Stato e paradossalmente questo crea un cortocircuito nel momento in cui questa mancanza dello Stato, questa asserita assenza dello Stato dovrebbe conciliarsi con l’idea di uno Stato che revoca le concessioni con un ritorno di neo statalismo nel momento in cui proprio le basi comunitarie dello Stato vengono minate. È una contraddizione della quale i partiti attualmente al governo non riescono a liberarsi e la si vede anche nelle modalità con cui operano cinque stelle e lega: hanno cose che molto spesso sembrano in conflitto tra loro perché nate esattamente da due pulsioni antiStato contrapposte. Eppure chiedono uno Stato “forte”. Con chi? E in nome di quale comunità “di destino”?

          Ripensare le politiche dello Stato

Questa contraddizione per cui da un lato si sente più distanza dallo Stato e dall’altro lato si chiede che più Stato ci sia nel controllo del mercato e nelle nostre giornate quotidiane è ancora più evidente perché non vi è un pensiero generale attorno a questi fatti. La vicenda di Genova ha riproposto per esempio in maniera drastica le contraddizioni delle cosiddette “privatizzazioni”. Che cosa sono le privatizzazioni? Sono sbagliate?

Le risposte richiederebbero un dibattito su cosa spetta allo Stato e cosa spetta al mercato soprattutto all’interno di quello che è l’ambito costituzionale italiano in cui si predica una ragione sociale per l’economia.

Dagli anni Ottanta, da Thatcher e Reagan per intenderci, le privatizzazioni sono state da un punto di vista ideologico, fortemente ideologico, che mano a mano ha permeato tutta quanta la società senza avere sostanzialmente contraddittorio tranne che in una misura altrettanto ideologica del tutto distante da quello che è la vita reale di cittadini. Non sarebbe forse il caso di riprendere il dibattito per capire quali privatizzazioni e soprattutto per cosa e con quale obiettivo? È certamente vero che oggi, per esempio, non sia più necessario avere le centrali del latte di proprietà comunale per il semplice fatto che la produzione di latte dal punto di vista sanitario ed economico certamente è in grado di essere soddisfatta dai privati e tuttavia tutte le ragioni di carattere igienico sanitario e di controllo e di distribuzione che erano alla base della filosofia che aveva portato alla loro nascita con i sindaci tra gli anni Dieci agli anni Trenta dello scorso secolo non sono venute meno e rimangono comunque in capo alle istituzioni i controlli sanitari e i controlli sulla distribuzione.

Per paragone lo stesso varrebbe oggi anche per altri settori del mercato, pensiamo, che so?, alla posa di fibra e il suo ruolo nel combattere i vari digital divide, come sappiamo che è certamente vero che è possibile cercare maggiore efficienza attraverso la privatizzazione delle aziende di e nei trasporti ed esse non sono certo paragonabili alla produzione del panettone, sempre utilizzata per contestare l’abuso di “statalismo” ai tempi in cui l’Iri si faceva carico delle aziende che andavano in crisi. Ovvero dobbiamo chiederci che cosa spetta oggi allo Stato di fare in campo economico.

Quali sono le strategie economiche e sociali che lo Stato deve perseguire e quali sono i mezzi attraverso cui deve perseguirli; quali sono i mezzi attraverso cui viene costruito, cosa ancora più importante che la proprietà di una società, un mercato all’interno del quale le società possono competere e quindi offrire miglioramenti dal punto di vista sociale alla società civile, quindi a ognuno dei cittadini.

Se anche s’accetta l’idea che alcune delle grandi direttrici economico strategiche abbiano oggi una diffusione per la quale non vi è più bisogno di un impulso specifico da parte dello Stato tuttavia non vi è dubbio che da questo punto di vista lo Stato abbia la responsabilità e mantenga tutta questa responsabilità di controllare il mercato sia in essere che di controllare il modo in cui usano il mercato le società che hanno utilizzato la privatizzazione. E di controllare soprattutto attraverso degli organi di vigilanza e di controllo che abbiano i mezzi sia in termini di unità di personale sia economici, che di poter intervenire anche con urgenza con reali poteri sanzionatori.

Il che presuppone anche che queste autorità siano svincolate non tanto dalle modalità di nomina che nella loro responsabilità politica possono anche essere un punto di riferimento chiaro rispetto le responsabilità che poi vengono esercitate, ma soprattutto che siano svincolate nella loro attività da una mentalità soprattutto burocratiche che le ha rese in questi anni permeabili alle relazioni personali e ai conflitti di interesse economici.

Voglio dire che non proverei nessuno scandalo nel vedere che le autorità di vigilanza vengano formate sulla base di scelte anche politiche, anche partitiche, rispettose delle maggioranze o delle minoranze espresse da elezioni politiche alle quali partecipa tutto il popolo italiano; proverei scandalo invece nel fatto che le persone che fanno parte di queste autorità esercitino i loro poteri in maniera burocratica senza alcun impegno di carattere personale e senza accettare anche i rischi che comporta una decisione difficile e controversa. Lo stesso vale per gli organi di vigilanza messi a disposizione dai vari ministeri nei settori di loro competenza di carattere economico e sociale.

C’è un problema qui che riguarda la pubblica amministrazione italiana e la sua formazione: un altro capitolo di cui la politica non s’occupa più seriamente da anni pensando solo ai tagli e non alla corretta revisione della spesa (che vuol dire talvolta anche investire economicamente). Saper rispondere alle necessità immediate anche con il giusto grado di capacità di manovra politica; saper rafforzare la propria comunità nazionale tenendo conto del senso di estraneità che si è diffuso; saper ripensare le politiche costruendo un dibattito pubblico su ciò che deve essere pubblico e su ciò che può essere privato significa riflettere politicamente su ciò che sono i compiti sociali di un mercato di economia sociale. Come descritto dalla costituzione italiana. Compiti di una politica che avesse l’orgoglio di saper andare oltre le dichiarazioni del giorno e le frasi a effetto scaricate sui social network.

Compito della politica, non solo compito della maggioranza, compito anche delle opposizioni. Mentre scorrono le immagini di quel moncone di ponte a Genova, con tristezza quello che sembra mancare assieme alle vite spezzate di coloro che ne hanno subito immediatamente le conseguenze sembra essere proprio la politica, la sua capacità di redimerci dagli errori, di compattare una comunità di rimetterci al lavoro per un futuro migliore. Di tutti.

Osserviamo dolenti un mondo, quello dei nostri padri, che sembra dissolversi, con il terrore del vuoto. Di quel taglio, di quel buco osceno di morte e sofferenza. Ma anche noi, come Genova dobbiamo tentare di riconnetterci, e di riprendere un cammino.

 

(Tratto da www.ytali.com)


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