Perché ci hanno imposto la “magiarofobia”



Giuseppe Davicino    10 Luglio 2018       5

La “disintossicazione” dalla narrazione globalista, dalla visione del mondo e dall'agenda politica delle élite è condizione irrinunciabile per riconciliare le culture riformatrici e popolari, come quella cattolico-democratica, con il popolo, con gli interessi della classe media.

Quando i media, l'intellighentia, gli esponenti politici pro establishment prendono ossessivamente di mira qualcosa, c'è una forte probabilità che questo qualcosa o qualcuno contrasti gli interessi della supercasta globale in nome dell'affermazione della giustizia sociale, del lavoro e dello sviluppo dei popoli. Ecco perché appare prudente non prendere per oro colato tutto ciò che ci propina una informazione in pesante e continuo conflitto di interessi con i santuari del potere economico-finanziario transnazionale.

È il caso della campagna di odio e di discredito nei confronti dell'Ungheria, scatenata da quando gli elettori magiari nel 2010 scelsero per il loro Paese una via diversa per affrontare la crisi economica, da quella che volevano loro imporre gli organismi economici internazionali. Il Fondo monetario internazionale e l’Unione europea avevano disegnato per l'Ungheria un futuro basato essenzialmente su due punti: politiche austeritarie e deflattive, compensazione della conseguente svalutazione del lavoro con ondate di manodopera-schiava di migranti provenienti dalla rotta balcanica.

Dal momento del “gran rifiuto”, avvenuto nel 2010 con l'elezione di Viktor Orbán sono iniziati gli attacchi a questa piccola democrazia danubiana in modo non meno pesante di quelli dei carri armati sovietici del 1956, tanto cari al venerabile Giorgio Napolitano. Nei salotti e sui media radical-chic cominciò la messa alla gogna di Viktor Orbán. Con grande disonestà intellettuale questi viene spesso paragonato al presidente turco Erdoğan, lui sì un pericoloso autocrate, sfiorando il ridicolo, perché tutti sanno che l'Ungheria al pari della Grecia, è la nazione europea meno tenera nei confronti del “sultano” di Ankara, che ha invece nella Merkel la sua principale alleata europea.

Il castello di menzogne costruito attorno a Orbán è tale che recentemente persino l'ambasciatore francese a Budapest Eric Fournier, epurato all'istante per queste sue dichiarazioni, non ha potuto far a meno di definire l'Ungheria attuale “un modello” e di denunciare il virus della magiarofobia che sta contagiando le opinioni pubbliche dell'Europa occidentale.

False e fantasiose sono poi le accuse di antisemitismo: l'Ungheria di Orbán è alleata di ferro di Israele. Entrambi gli Stati sono uniti nel contrastare il pericoloso speculatore americano-ungherese di origini ebraiche George Soros, perseguito in mezzo mondo, autore di una storica razzia ai danni dei contribuenti italiani nel 1992, e che meriterebbe di esser fermato all'istante appena mette piede sul suolo italiano anziché esser stato ricevuto a Palazzo Chigi lo scorso anno dall'allora premier Gentiloni, in maniera davvero sconcertante e irrispettosa verso il popolo italiano vittima dello spregiudicato finanziere.

Orbán è tutt'altro che un politico di estrema destra. Il suo partito, Fidesz che ha rivinto le elezioni dello scorso 8 aprile con ben il 49,5 %, è cristiano-social-conservatore e appartiene al PPE, mentre il partito di estrema destra ungherese si chiama Jobbik, ha preso il 23% e sta all'opposizione: eppure tutti sono convinti che sia Orbán l'estremista: prodigi della disinformatia!

Ma vediamole queste “colpe” del premier che guida l'Ungheria dal 2010.

Orbán ha, come Putin in Russia, per prima cosa estinto il debito con il Fondo nel 2013, sotto condizione della chiusura della sede FMI a Budapest. Nel contempo ha escluso ogni interesse del proprio Paese ad avvicinarsi all'area Euro.

La crisi economica, scoppiata nel 2008 con i subprime americani, aveva colpito l'Ungheria soprattutto sul versante dei mutui sulla casa, erogati da banche estere e spesso in valuta straniera. L'accettazione di ulteriori prestiti del FMI, come pure l'ancoraggio alla Zona euro, avrebbe consegnato il patrimonio immobiliare (il 90%delle famiglie ungheresi detiene la proprietà della casa in cui vive), gli assets strategici del Paese alle banche straniere. Orbán ha evitato la bancarotta dello Stato e di moltissime famiglie, il pignoramento del Paese come invece è accaduto alla povera Grecia.

Insomma, se non ci fosse stato Orbán oggi si avrebbe un Paese malandato in più a far compagnia al depredato Paese ellenico. Non è un caso che, nel contempo, anche la piccolissima Islanda colpita dalla crisi, dopo aver valutato la cura da cavallo proposta da Bruxelles vincolata a una futura adesione all'UE, abbia rifuggito come la peste tale ipotesi e sia oggi in piena ripresa.

Ripresa promettente (quella ungherese è il doppio della media europea, anche grazie ai fondi europei di cui beneficia più di altri Paesi, circa 30 miliardi di euro negli ultimi 6 anni), pur fra immancabili luci e ombre, di cui gode anche l'Ungheria dopo 8 anni di governo Orbán che ha rifiutato di cadere nella trappola del debito, scegliendo invece di potenziare la propria domanda interna, con politiche espansive che hanno aumentato il lavoro e migliorato le condizioni di vita della classe media: meno ai banchieri per dare di più ai ceti popolari, peccato capitale nel regno eurocratico, che fa rivoltare nella tomba i Padri dell'Europa, del denaro che comanda anziché servire.

La bussola di Orbán è andata in direzione contraria a quella seguita dall'Italia: ha riportato il controllo dello Stato ungherese come maggior azionista nel campo dell'energia, delle banche e delle telecomunicazioni, investendo 1000 miliardi di fiorini (circa 3 mld di euro) per riacquistare la proprietà pubblica nei settori strategici prima privatizzati.

Ha attuato la gestione non profit della tariffazione pubblica, agevolando le fasce sociali più deboli (idea lanciata anche in Italia dal terzo settore ma sdegnosamente contrastata dalla sinistra di governo).

Fin qui i gravi “crimini” del “Victator” di Budapest (cosi apostrofato dalle piazze amiche di Soros, e che una copertina de “Il Manifesto” del 6 luglio scorso ha definito “demone”, dando ulteriore prova dell'utilità di certa sinistra agli interessi della finanza internazionale) in campo economico.

Accenno solo, per concludere (ma meriterebbe un discorso a parte), all'altro caposaldo della politica di Orbán: la difesa della famiglia e dell'identità nazionale cristiana della sua patria e dell'Europa e il conseguente rifiuto dell'ideologia immigrazionista.

Ha imposto una tassa straordinaria alle multinazionali per finanziare con 500 miliardi di fiorini un vasto programma di politiche a sostegno della natalità e della famiglia. Ha contribuito al controllo delle frontiere dell'UE verso i Balcani investendo quasi 300 miliardi di Fiorini. Ed è per questo che non vuole, insieme al Gruppo di Visegrád, concorrere alla suddivisione delle quote di migranti, ritenendo che l'Ungheria abbia già ampiamente fatto la propria parte in materia di immigrazione.

Ma, mentre sul piano economico, le politiche di Orbán costituiscono un interessante e valido esempio di politiche socialdemocratiche, neo-keynesiane, simili a quelle praticate in Italia nelle stagioni migliori della Democrazia cristiana e che sono ridiventate oggi quanto mai attuali, le politiche di Orbán riguardo all'immigrazione, al di là della contingenza, pongono questioni enormi. Esse vanno ben oltre la sua piccola Nazione, riguardano tutti gli europei e fanno tremare i polsi: fra una generazione si potrà ancora parlare di Europa, intesa come continente in cui esiste qualcosa di significativo – la classe media – fra le élite e le plebi diseredate? Vi sarà qualcosa che la distingua dall'Asia o dall'Africa? Vi sarà ancora il cristianesimo in Europa? I conflitti etnici e religiosi, già oggi frequenti in vasti territori della Francia e non solo, la renderanno simile alla Bosnia, al Libano, alla regione caucasica, in quanto a stabilità?

Sono domande gigantesche che richiedono di abbandonare ogni furore ideologico in un senso o nell'altro, e che paiono richiedere una storica assunzione di responsabilità da parte delle classi dirigenti nella direzione di un'etica della responsabilità, che comporta la messa in conto di perseguire il bene comune, di tutti e di ciascuno, storicamente possibile anche dovendo sopportare la contraddizione di mai facili scelte sui mali minori.

Il conflitto tra l'essere un buon cristiano e un politico responsabile non è mai stato così alto e lacerante come sul tema dell'immigrazione. D'altra parte anche i nostri Pastori, che sono maestri anche nel discernimento, sanno la fine che fanno le crociate dei bambini e il carattere illusorio di ogni posizione e scelta storica che si creda come unica e non mediata traduzione possibile del Vangelo nella dimensione storica.

Forse la colpa più grave di Orbán è quella di aver richiamato tutti i popoli e i cittadini europei a tu per tu con il proprio futuro. Un futuro che si può ancora cambiare prima che si trasformi in destino.

Per questo i cani da guardia del progetto globalista, del potere assoluto del dio-denaro sul mondo e sulle persone, ci impongono di odiare e aborrire il “modello ungherese”.


5 Commenti

  1. Anch’io sono convinto che la verità sia dodecaedrica e soprattutto che oggi rette interpretazioni dei fatti storici e politici siano sempre più difficilmente afferrabili con le categorie tradizionali della filosofia della politica e della storia affermatesi negli ultimi 200 anni. E tanto più con la cultura strumentale al potere dominante della finanza internazionale (dottrina anarcocapitalista).

  2. Bravo! Bravo per davvero, ed anche coraggioso. Inoltre è una analisi mica da poco, sembra il bel lavoro di un “pensatoio universitario” di primo livello.
    UN APPELLO: è un po’ lungo, ma ne vale veramente il merito. Amici popolari, per favore leggetelo tutto, apprenderete cose che non si leggono da altre parti. Ah, ovviamente da tempo la penso allo stesso modo.

  3. Come volevasi dimostrare. Un articolo fazioso, che sembra dettato dal tycoon ungro-americano e che ignora e ridicolizza il punto di vista del governo. Senza alcun spazio al contraddittorio, l’abc della deontologia giornalistica.
    L’Ungheria è la prima della lista dei nuovi regime change che George Soros ha intenzione di innescare. Il piano “Stop Soros” del governo ungherese dà fastidio all’establishment perché intende imporre una tassa del 25% alle donazioni straniere ( e quindi colpisce la famigerata Open Society di Soros) che finanziano l’immigrazione irregolare al fine di destabilizzare lo stato e di creare dumping salariale. Inoltre, alle frontiere dell’Ungheria c’è una pressione migratoria prevalentemente islamica. É quello che preoccupa il governo di Budapest, più che le quote Ue di profughi, verso cui il no è per questioni di principio e di coerenza con una linea molto condivisa dal popolo magiaro e dagli altri Paesi Visegrád come la Polonia, che hanno subito quasi mezzo secolo di comunismo e ora non vogliono ridursi a colonie di Berlino e Parigi.
    Il Corriere non strillava così quando l’Ue ci impose misure liberticide come il pareggio di bilancio in Costituzione o il fiscal compact. Invece si indigna quando qualcuno comincia ad accorciare un po’ gli artigli della finanza speculativa transnazionale.

  4. Apprezzo quanto scrive Giuseppe Davicino, in primo luogo, perché è ora di finirla con le demonizzazioni messe in campo dai media e dai politici fautori dell’establishment globalista nei confronti di tutto ciò che non va nella direzione da loro desiderata. Inoltre, confesso di sapere poco della recente vita politica ungherese e quindi trovo utile ed interessante tutto quanto ci consente di capire in che cosa consista la via inaugurata da Orban. In proposito, Agnes Heller, ebrea ungherese sopravvissuta all’olocausto, ha recentemente dichiarato che è sbagliato attribuire ad Orban, e più in generale agli esponenti dei paesi di Visegrad, propositi totalitari, perché si tratta di democratici ancorché la loro idea di democrazia non sia quella liberale. Aggiunge che ogni paese ha una storia alle spalle, e quella dei paesi in questione non contiene il liberalismo. Anche Emanuele Macaluso, intervista su La Stampa del 26 giugno, ha dichiarato di vedere la destra di casa nostra andare verso un sistema che somiglia a quello di Orban, ma sottolinea che questo non ha nulla a che fare con Mussolini ed il fascismo, perché si tratta di una “democrazia illiberale”. Qui il discorso si farebbe lungo e forse sarebbe il caso di affrontarlo, ma non in un semplice commento ad un articolo. Mi limito a dire che democrazia e liberalismo non sono la stessa cosa (come invece ci propinano i più dei media). Sono infatti cose assai diverse: già Alexis de Tocqueville ne aveva sottolineato la diversità; per Benedetto Croce, addirittura sarebbero poco compatibili; inoltre, ricordo che il progetto di democrazia di uno dei nostri Padri della Patria, Giuseppe Mazzini, era agli antipodi di quello liberale.
    Sul tema dell’immigrazione, Davicino pone dei quesiti ai quali è doveroso dare risposte. L’ancora cardinal Ratzinger, parlando della denatalità che affligge il nostro continente, affermò di intravedere il tramonto dell’Europa ove la sua vita venisse affidata ai soli “trapianti”, che poi, però, non possono non eliminare la sua identità. Chiediamoci a chi oggi interessi ancora la millenaria civiltà europea. Certo non a chi si preoccupa solo di Pil, crescita economica e contributi pensionistici. Ovviamente è lecita la posizione di quanti ritengono che ci siano cose più importanti della salvaguardia dell’Europa e della sua cultura e civiltà, tuttavia costoro dovrebbero dirlo esplicitamente. Non è infatti corretto fare finta che il pericolo della scomparsa del nostro mondo non esista o peggio negarlo.

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