
Due più due fa sempre quattro. Poi si può ritenere che quattro sia poco o molto, dipende dalle situazioni e dai punti di vista. Ma non è opinabile che 4 sia meno di 5 e più di 3. I numeri non si possono smentire. Si possono falsare oppure tacere. Ma quando emergono nella loro semplice nudità sono lì, ineludibili. E “i dati non si possono intimidire”, ha risposto Tito Boeri a Matteo Salvini che lo accusa di “fare politica” e di “vivere su Marte”.
I numeri che il presidente dell’INPS ha illustrato nella relazione annuale dell’Istituto di previdenza riguardano invece il pianeta Terra e una penisola del piccolo continente europeo, l’Italia. I suoi abitanti “sottostimano la quota di popolazione sopra i 65 anni e sovrastimano quella di immigrati e di persone con meno di 14 anni (...). La deviazione fra percezione e realtà è molto più accentuata che altrove. Non sono solo pregiudizi. Si tratta di vera e propria disinformazione”.
È perciò utile ribadire qualche dato, tratto da relazioni Istat che ciascuno può facilmente verificare. Il nostro Paese, al pari del Giappone, ha la più alta età media, cioè è il più vecchio del mondo. Dal 2008 in poi il numero dei decessi supera regolarmente quello delle nascite, e negli ultimi anni il saldo negativo è arrivato a una media di 150.000 persone. Se poi aggiungiamo gli altrettanti giovani che lasciano il Belpaese per trovare altrove opportunità di lavoro, capiamo che è in corso un radicale cambiamento nella nostra struttura demografica. Con questo trend ormai consolidato, solo in parte compensato dall’immigrazione, tra poco più di quarant’anni l’Italia avrà un terzo della popolazione di ultra sessantacinquenni, superiore a quella degli under 35.
Il crescente invecchiamento è destinato a rimettere in discussione importanti equilibri e faticose conquiste sul fronte del welfare, ma soprattutto a mettere in crisi il sistema pensionistico: “Secondo le stime più recenti del FMI, attualmente abbiamo due pensionati per ogni tre lavoratori; nel giro di venti anni avremo un lavoratore per ogni pensionato” ha ricordato Boeri. Questa è una osservazione ovvia, che possiamo confermare solo pensando che da quest’anno entrano a far parte della schiera over 60 i nati del 1958, la prima leva del baby-boom che caratterizzò l’Italia nel decennio che allora iniziava, con il picco nel 1964, quando si ebbe il record di un milione e 30 mila nati. Se pensiamo che dal 1974 è iniziato un crollo che ha portato a stabilizzarci poco sotto le 600 mila nascite, diminuite a meno di 500 mila negli ultimi anni, abbiamo chiara la percezione che mezzo milione di nuovi futuri lavoratori non potrà pagare la pensione a un numero doppio di nuovi anziani che si ritirano dal lavoro.
“Il nostro sistema pensionistico è in grado di reggere alla sfida della longevità, almeno sin quando si manterrà l'adeguamento automatico dell'età pensionabile alla speranza di vita e la revisione dei coefficienti di trasformazione. Ma non ha al suo interno meccanismi correttivi che gli permettano di compensare un calo delle coorti in ingresso nel nostro mercato del lavoro” sottolinea Boeri, facendo riferimento al declino demografico eventualmente connesso alla riduzione dei flussi migratori. Infatti “il nostro Paese ha bisogno di aumentare l'immigrazione regolare”, perché sono “tanti i lavori che gli italiani non vogliono più svolgere". Anche questo dicono i numeri, dato che il lavoro manuale non qualificato impegna il 36% dei lavoratori stranieri in Italia e solo l'8% degli italiani.
Boeri ha insistito sulla necessità di flussi regolari di immigrati: “La storia ci insegna che quando si pongono forti restrizioni all'immigrazione regolare, aumenta l'immigrazione clandestina e viceversa: in genere, a fronte di una riduzione del 10% dell'immigrazione regolare, quella illegale aumenta dal 3 al 5%. (...) In presenza di decreti flussi del tutto irrealistici” la domanda di lavoro immigrato “si riversa sull'immigrazione irregolare di chi arriva in aereo o in macchina, non con i barconi ma con i visti turistici, e rimane in Italia a visto scaduto”.
Va poi sottolineata un’altra amara verità che Boeri ha avuto il merito di esprimere: “La storia recente dei giovani nel nostro Paese è una storia di inesorabili revisioni al ribasso delle loro aspettative. Fra queste delusioni anche quella di ritrovarsi sempre, quale che sia l'esito del voto, con governi che propongono interventi a favore dei pensionati”. Non fa eccezione il connubio Salvini-Di Maio, (soprattutto il primo) che ha sbandierato l’abolizione della legge Fornero, sostituita dall’introduzione della cosiddetta “quota 100”: per andare in pensione la somma di età anagrafica e di anni contributivi deve appunto fare cento. Questa sarebbe stata una buona cosa se realizzata negli anni Novanta, quando sindacati e lavoratori alzarono le barricate e fecero fallire la ben più modesta e inefficace proposta di una “quota 96”. E oggi, anno Domini 2018, cosa comporterebbe arretrare dalla Fornero a quota 100? “Quota 100 pura costa fino a 20 miliardi all'anno”, spiega Boeri, “quota 100 con 64 anni minimi di età costa fino a 18 che si riducono a 16 alzando il requisito anagrafico a 65 anni; quota 100 con 64 anni minimi di età e il mantenimento della legislazione vigente per quanto riguarda i requisiti di anzianità contributiva indipendenti dall'età costa fino a 8 miliardi. Ripristinando le pensioni di anzianità con quota 100 (o 41 anni di contributi) si avrebbero subito circa 750.000 pensionati in più”. E questo in attesa dell’ondata dei baby-boomers...
Con i suoi numeri Boeri non si è guadagnato le simpatie di Salvini. Di Maio invece è stato più dialogante: “Non so se andremo d'accordo su tutto, ma sul tema delle pensioni d'oro e dei vitalizi lavoreremo bene”. Il presidente dell’INPS ha comunque mantenuto il solito equilibrio: “Non si vedono ragioni per tagliare le pensioni per il solo fatto di avere un importo elevato. Non esistono pensioni d'oro, d'argento o di bronzo. La filosofia degli interventi – ha spiegato Boeri – dovrebbe essere sempre quella di ridurre le differenze di trattamento tra lavoratori di una stessa generazione oltre che tra generazioni diverse". Un principio di equità che non possiamo non sottoscrivere.
Per Boeri esiste una componente delle pensioni che si fa “privilegio”, quando è “stabilita in modo arbitrario” ed è slegata dai contributi versati. Merita ricordare altri numeri: oggi poco più del 3% delle pensioni è calcolato con il contributivo, circa il 14% con il sistema misto, e quindi l’83% si basa sul retributivo. Sappiamo tutti che intere categorie di lavoratori hanno pagato contributi modesti, a volte “figurativi”, che coprono in minima parte la pensione percepita. Sappiamo tutti che, nel pubblico come nel privato, il pensionando veniva generalmente gratificato di un aumento di grado nell’ultimo mese di lavoro, per poter ottenere un assegno superiore, calcolato sull’ultimo stipendio. Lasciando da parte la follia delle baby-pensioni (ottenibili anche con 15 anni, 6 mesi e un giorno di lavoro...), sappiamo tutti che sono milioni i lavoratori passati in quiescenza da cinquantenni, dopo 35 anni di contributi, o anche solo 32 o 28, con generosi accompagnamenti pagati dalla fiscalità generale. La legge Fornero ha posto fine a un’epoca, ancorandoci alla dura realtà. E ancora esistono sacche di privilegio, nelle articolazioni dello Stato e nel sindacato, ad esempio.
Ma soprattutto esiste una disuguaglianza tra generazioni che non può essere taciuta. Già oggi metà dei poveri in Italia appartengono alla fascia di età under 35. E la probabilità dei giovani di diventare poveri è “5 volte più alta di quella dei loro nonni”. Possiamo ringraziare il massimo ammortizzatore sociale esistente, la famiglia, se questa disuguaglianza tra generazioni non è finora sfociata in forme violente. Ma quando le pensioni retributive dei vecchi verranno a mancare, sostituite dalle magrissime pensioni contributive dei giovani precari diventati anziani, cosa accadrà? E un Welfare sbilanciato sulle pensioni e non sul sostegno alle nuove famiglie, che prospettive di futuro può garantire?
Su questi temi dovrebbe incentrarsi il dibattito politico. Ma i giovani sono pochi, vanno all’estero, e la miope politica italica continua a ricercare il facile consenso dei pensionati e degli aspiranti tali (alle vecchie condizioni, s’intende). Sarebbe invece utile rischiare l’impopolarità, e dire le cose come stanno. “Oggi presentiamo quella che è la verità che bisogna dire in Italia”, ha esordito Boeri.
Prendiamolo ad esempio.
I numeri che il presidente dell’INPS ha illustrato nella relazione annuale dell’Istituto di previdenza riguardano invece il pianeta Terra e una penisola del piccolo continente europeo, l’Italia. I suoi abitanti “sottostimano la quota di popolazione sopra i 65 anni e sovrastimano quella di immigrati e di persone con meno di 14 anni (...). La deviazione fra percezione e realtà è molto più accentuata che altrove. Non sono solo pregiudizi. Si tratta di vera e propria disinformazione”.
È perciò utile ribadire qualche dato, tratto da relazioni Istat che ciascuno può facilmente verificare. Il nostro Paese, al pari del Giappone, ha la più alta età media, cioè è il più vecchio del mondo. Dal 2008 in poi il numero dei decessi supera regolarmente quello delle nascite, e negli ultimi anni il saldo negativo è arrivato a una media di 150.000 persone. Se poi aggiungiamo gli altrettanti giovani che lasciano il Belpaese per trovare altrove opportunità di lavoro, capiamo che è in corso un radicale cambiamento nella nostra struttura demografica. Con questo trend ormai consolidato, solo in parte compensato dall’immigrazione, tra poco più di quarant’anni l’Italia avrà un terzo della popolazione di ultra sessantacinquenni, superiore a quella degli under 35.
Il crescente invecchiamento è destinato a rimettere in discussione importanti equilibri e faticose conquiste sul fronte del welfare, ma soprattutto a mettere in crisi il sistema pensionistico: “Secondo le stime più recenti del FMI, attualmente abbiamo due pensionati per ogni tre lavoratori; nel giro di venti anni avremo un lavoratore per ogni pensionato” ha ricordato Boeri. Questa è una osservazione ovvia, che possiamo confermare solo pensando che da quest’anno entrano a far parte della schiera over 60 i nati del 1958, la prima leva del baby-boom che caratterizzò l’Italia nel decennio che allora iniziava, con il picco nel 1964, quando si ebbe il record di un milione e 30 mila nati. Se pensiamo che dal 1974 è iniziato un crollo che ha portato a stabilizzarci poco sotto le 600 mila nascite, diminuite a meno di 500 mila negli ultimi anni, abbiamo chiara la percezione che mezzo milione di nuovi futuri lavoratori non potrà pagare la pensione a un numero doppio di nuovi anziani che si ritirano dal lavoro.
“Il nostro sistema pensionistico è in grado di reggere alla sfida della longevità, almeno sin quando si manterrà l'adeguamento automatico dell'età pensionabile alla speranza di vita e la revisione dei coefficienti di trasformazione. Ma non ha al suo interno meccanismi correttivi che gli permettano di compensare un calo delle coorti in ingresso nel nostro mercato del lavoro” sottolinea Boeri, facendo riferimento al declino demografico eventualmente connesso alla riduzione dei flussi migratori. Infatti “il nostro Paese ha bisogno di aumentare l'immigrazione regolare”, perché sono “tanti i lavori che gli italiani non vogliono più svolgere". Anche questo dicono i numeri, dato che il lavoro manuale non qualificato impegna il 36% dei lavoratori stranieri in Italia e solo l'8% degli italiani.
Boeri ha insistito sulla necessità di flussi regolari di immigrati: “La storia ci insegna che quando si pongono forti restrizioni all'immigrazione regolare, aumenta l'immigrazione clandestina e viceversa: in genere, a fronte di una riduzione del 10% dell'immigrazione regolare, quella illegale aumenta dal 3 al 5%. (...) In presenza di decreti flussi del tutto irrealistici” la domanda di lavoro immigrato “si riversa sull'immigrazione irregolare di chi arriva in aereo o in macchina, non con i barconi ma con i visti turistici, e rimane in Italia a visto scaduto”.
Va poi sottolineata un’altra amara verità che Boeri ha avuto il merito di esprimere: “La storia recente dei giovani nel nostro Paese è una storia di inesorabili revisioni al ribasso delle loro aspettative. Fra queste delusioni anche quella di ritrovarsi sempre, quale che sia l'esito del voto, con governi che propongono interventi a favore dei pensionati”. Non fa eccezione il connubio Salvini-Di Maio, (soprattutto il primo) che ha sbandierato l’abolizione della legge Fornero, sostituita dall’introduzione della cosiddetta “quota 100”: per andare in pensione la somma di età anagrafica e di anni contributivi deve appunto fare cento. Questa sarebbe stata una buona cosa se realizzata negli anni Novanta, quando sindacati e lavoratori alzarono le barricate e fecero fallire la ben più modesta e inefficace proposta di una “quota 96”. E oggi, anno Domini 2018, cosa comporterebbe arretrare dalla Fornero a quota 100? “Quota 100 pura costa fino a 20 miliardi all'anno”, spiega Boeri, “quota 100 con 64 anni minimi di età costa fino a 18 che si riducono a 16 alzando il requisito anagrafico a 65 anni; quota 100 con 64 anni minimi di età e il mantenimento della legislazione vigente per quanto riguarda i requisiti di anzianità contributiva indipendenti dall'età costa fino a 8 miliardi. Ripristinando le pensioni di anzianità con quota 100 (o 41 anni di contributi) si avrebbero subito circa 750.000 pensionati in più”. E questo in attesa dell’ondata dei baby-boomers...
Con i suoi numeri Boeri non si è guadagnato le simpatie di Salvini. Di Maio invece è stato più dialogante: “Non so se andremo d'accordo su tutto, ma sul tema delle pensioni d'oro e dei vitalizi lavoreremo bene”. Il presidente dell’INPS ha comunque mantenuto il solito equilibrio: “Non si vedono ragioni per tagliare le pensioni per il solo fatto di avere un importo elevato. Non esistono pensioni d'oro, d'argento o di bronzo. La filosofia degli interventi – ha spiegato Boeri – dovrebbe essere sempre quella di ridurre le differenze di trattamento tra lavoratori di una stessa generazione oltre che tra generazioni diverse". Un principio di equità che non possiamo non sottoscrivere.
Per Boeri esiste una componente delle pensioni che si fa “privilegio”, quando è “stabilita in modo arbitrario” ed è slegata dai contributi versati. Merita ricordare altri numeri: oggi poco più del 3% delle pensioni è calcolato con il contributivo, circa il 14% con il sistema misto, e quindi l’83% si basa sul retributivo. Sappiamo tutti che intere categorie di lavoratori hanno pagato contributi modesti, a volte “figurativi”, che coprono in minima parte la pensione percepita. Sappiamo tutti che, nel pubblico come nel privato, il pensionando veniva generalmente gratificato di un aumento di grado nell’ultimo mese di lavoro, per poter ottenere un assegno superiore, calcolato sull’ultimo stipendio. Lasciando da parte la follia delle baby-pensioni (ottenibili anche con 15 anni, 6 mesi e un giorno di lavoro...), sappiamo tutti che sono milioni i lavoratori passati in quiescenza da cinquantenni, dopo 35 anni di contributi, o anche solo 32 o 28, con generosi accompagnamenti pagati dalla fiscalità generale. La legge Fornero ha posto fine a un’epoca, ancorandoci alla dura realtà. E ancora esistono sacche di privilegio, nelle articolazioni dello Stato e nel sindacato, ad esempio.
Ma soprattutto esiste una disuguaglianza tra generazioni che non può essere taciuta. Già oggi metà dei poveri in Italia appartengono alla fascia di età under 35. E la probabilità dei giovani di diventare poveri è “5 volte più alta di quella dei loro nonni”. Possiamo ringraziare il massimo ammortizzatore sociale esistente, la famiglia, se questa disuguaglianza tra generazioni non è finora sfociata in forme violente. Ma quando le pensioni retributive dei vecchi verranno a mancare, sostituite dalle magrissime pensioni contributive dei giovani precari diventati anziani, cosa accadrà? E un Welfare sbilanciato sulle pensioni e non sul sostegno alle nuove famiglie, che prospettive di futuro può garantire?
Su questi temi dovrebbe incentrarsi il dibattito politico. Ma i giovani sono pochi, vanno all’estero, e la miope politica italica continua a ricercare il facile consenso dei pensionati e degli aspiranti tali (alle vecchie condizioni, s’intende). Sarebbe invece utile rischiare l’impopolarità, e dire le cose come stanno. “Oggi presentiamo quella che è la verità che bisogna dire in Italia”, ha esordito Boeri.
Prendiamolo ad esempio.
Tito Boeri ha detto quel che avrebbe dovuto dire il leader della sinistra, qualora esistesse.
“Jena” su La Stampa di oggi.
Ma di che cosa sta parlando Boeri? ormai le pensioni sono calcolate con il sistema contributivo. Quella basate sul retributivo andranno ad esaurirsi nel tempo: ed è col sistema retributivo che è necessario avere tanti giovani che lavorano per pagare con i loro contributi le pensioni di chi si è ritirato dal lavoro. Questa è la prima verità che il dr. Boeri tace. La seconda è evidente: occorre lasciare i posti di lavoro ai giovani: questa è la vera e unica solidarietà fra generazioni di cui molti si riempiono la bocca. Gli anziani, che nel privato e nel pubblico hanno esperienza ma meno energie e meno entusiasmo dei giovani, potranno essere indotti a lasciare il lavoro in due modi: mandandoli in pensione o licenziandoliI in virtù di un job act 2.0 che elimina ogni tutela: in questo caso scoppierebbero si presume violente rivolte per domare le quali le forze dell’ordine sarebbero chiamate a reprimere e uccidere gli anziani invasati; il dr. Boeri capisce che l’alternativa si pone fra il concedere una pensione decente agli anziani e l’eccidio di massa? Qualora si scegliesse (e forse nel retrocranio elitario la tentazione fa capolino) la seconda soluzione nel nome dei giovani credo che gli stessi giovani avrebbero qualcosa a ridire: occupare il posto di lavoro del padre o dello zio o del cugino assassinato dalla pietosa mano che opera in favore dei giovani medesimi potrebbe essere causa di disagio. Fine dell’ironia…: il dr. Boeri sa che le trasformazioni digitali e l’e-commerce stanno distruggendo il lavoro? Ha mai letto Stiglitz?