Solo italiani i “porti sicuri”



Riccardo Rigillo    28 Giugno 2018       0

“Conoscere per deliberare” raccomandava Giulio Einaudi. Ci accontenteremo di un “conoscere per giudicare”. Tanti, troppi, parlano su ogni argomento senza conoscere la realtà delle cose. Ne è un esempio la notizia principale di queste settimane, il braccio di ferro tra i governi di Italia e Malta e le navi che hanno raccolto migranti nel Mediterraneo, alle quali viene negato l’approdo. Si dovrebbero almeno conoscere i paletti del diritto internazionale: area SAR, porto sicuro più vicino, bandiera della nave di primo soccorso. E poi vedere come la prassi, che penalizza l’Italia, abbia soppiantato il diritto. Un articolo di Riccardo Rigillo su “Limes” ci aiuta a capire.

 

Il caso della nave Aquarius ha avuto se non altro il merito di riportare l’attenzione dell’opinione pubblica italiana su questioni giuridiche e politiche relative al soccorso in mare. L’imbarcazione battente bandiera gibilterrina operava in zona SAR libica o maltese in acque internazionali.

Il soccorso in mare è regolato, in maniera operativa, da una convenzione firmata ad Amburgo nel 1979. Questa convenzione stabilisce delle zone di ricerca e soccorso, cosiddette SAR (dall’acronimo inglese Search and Rescue), fissate di comune accordo.

Altri elementi importanti desumibili dal diritto internazionale – la convenzione di Amburgo, la convenzione SOLAS sulla salvaguardia della vita in mare, altri strumenti convenzionali, nonché principi generali e consuetudini – sono quelli del porto sicuro più vicino e della bandiera della nave di primo soccorso.

L’area SAR italiana si estende poco a sud della nostra penisola, sovrapponendosi in parte a quella maltese. L’area SAR non influenza la sovranità o la giurisdizione degli Stati. Malta, nostro vicino, ne ha fatto però in passato una questione di prestigio, dichiarandosi responsabile per una zona estesa 750 volte il suo territorio.

Tuttavia, nei fatti, La Valletta non si è mai realmente fatta carico dell’attività da svolgere nella sua area di competenza. È così accaduto che le autorità italiane siano intervenute per sopperire alle mancanze del vicino. Facendosi carico di un’area di ricerca e soccorso ben più ampia della propria.

La situazione si è cristallizzata senza esplicitare considerazioni sulla bandiera della nave di primo soccorso, sulla definizione di porto sicuro e su quella della precisa responsabilità SAR. Temi forse complessi, ma sicuramente mai affrontati in modo sistematico.

Le navi italiane hanno quindi iniziato a operare pressoché in tutte le SAR dei vicini, non solo in quelle di propria competenza. Le SAR maltese, libica e tunisina dovrebbero essere responsabilità di ciascuno di questi paesi.

Ma i maltesi, con una SAR di più di settecento volte il nostro territorio nazionale, dichiarano di non avere i mezzi per operare i soccorsi, al pari degli altri paesi vicini. L’Italia, senza interrogarsi sui mezzi, finisce quindi per operare in tutte le aree SAR limitrofe – e non solo – di responsabilità altrui.

La reazione italiana al fenomeno si è evoluta adattandosi alle circostanze, senza avere alle spalle un vero e proprio indirizzo politico. Questa situazione si è generata – in assenza di una strategia, sia per il destino dei migranti una volta sbarcati sia per il loro recupero – anche a seguito del vuoto di autorità creatosi il Libia. Con il venir meno di ogni autorità effettiva di Tripoli sul suo territorio abbiamo esteso la nostra competenza anche all’area SAR libica.

Secondo alcuni l’estensione non era poi così automatica. Ciò che però mostra contraddittorietà e svela una debolezza dovuta all’assenza di strategia sono le piccole differenze di gestione nelle SAR maltese e libica, incluse le destinazioni di sbarco dei profughi tratti in salvo, i cosiddetti “porti sicuri”.

Anche per l’altro principio cardine, quello del porto sicuro più vicino, si è infatti verificata una situazione simile, nella quale sono i porti italiani ad accogliere quasi sempre i migranti soccorsi.

Le questioni in zona SAR maltese sono di vecchia data, malgrado le buone relazioni fra Italia e Malta. La zona SAR di quest’ultima è eccessivamente estesa per la piccola isola, che però continua a dichiararsene responsabile. Anche il “porto sicuro” per chi viene tratto in salvo nella SAR maltese, però, non coincide con il porto della Valletta né altri in territorio maltese, come invece sancisce il diritto convenzionale (Malta però non ha ratificato gli emendamenti del 2004 alle convenzioni SAR e SOLAS).

Nella zona SAR libica accade qualcosa di ancora diverso. Il porto sicuro verso cui vengono portati i rifugiati non è né un porto del paese SAR, né il porto più vicino. Ma immancabilmente un porto italiano. E ciò anche nel caso in cui a trarre in salvo i migranti sia una nave battente bandiera straniera.

Dovunque si operi, il porto sicuro più vicino è sempre un porto italiano, anche a una decina di miglia dalle coste africane. Sorprendentemente, anche quando a operare i soccorsi è una nave battente bandiera tedesca, olandese o di Gibilterra – come nel caso dell’Aquarius – si dà per scontato che il porto di destinazione sarà immancabilmente italiano.

I porti nostrani hanno finito per accogliere migranti, non importa da quale nave, in quale SAR o vicino a quale porto siano soccorsi. Il punto è che il sistema è ormai rodato ma ha perso di vista i fini originari, incentivando il flusso migratorio. Organizzato anche attraverso l’impiego di navi mercantili incrocianti in prossimità, così come è previsto dalle convenzioni sulla sicurezza in mare (SOLAS) e dalla convenzione SAR.

Ma alle operazioni partecipano ormai anche volontari, in genere organizzazioni non governative non italiane che affidano ai nostri porti i migranti tratti in salvo. Una grande efficienza da parte di piccole organizzazioni che ha originato qualche sospetto da parte di polizie straniere e di qualche magistrato italiano.

Sta di fatto che si è venuta a creare una situazione contraddittoria fra il diritto internazionale stricto sensu e una situazione di fatto che ha costituito in realtà una lunga serie di precedenti operativi.

È ormai scontato che le operazioni non solo vengano dirette dall’Italia – non scontato invece in termini di diritto – ma anche che il nostro paese divenga destinazione unica e naturale del flusso migratorio.

I precedenti hanno reso quindi difficile disinnescare la situazione semplicemente in “punta di diritto” – diritto che peraltro, ai sensi della Convenzione di Amburgo spesso citata, prevedrebbe l’intervento soltanto in caso di “casualties” permettendo ad alcuni commentatori di distinguere tra naufragio accidentale e situazione di rischio volutamente creata.

Tanto più che emergono sempre in questi casi questioni umanitarie, per le quali ad esempio la convenzione SOLAS reca numerose prescrizioni. E diventa sempre più difficile definire chi sarebbe tenuto a intervenire secondo diritto, a partire da quello convenzionale.

Gli obiettivi recentemente dichiarati dal governo italiano pongono la situazione sotto una diversa e nuova prospettiva. Si tratterà di capire se continueremo semplicemente a reagire alle circostanze oppure se tali obiettivi troveranno una declinazione strategica in grado di sostenere un nuovo corso.

 

(Tratto da “Limes” del 12 giugno 2018)


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