Nelle vicende che hanno accompagnato il tortuoso percorso di formazione del governo giallo-verde, ci sono stati in primo luogo i contrasti in tema di trattati e di collocazione internazionale del nostro Paese. Solitamente sono argomenti lasciati ai margini del dibattito politico e mai affrontati a fondo. Se oggi sono diventati centrali, allora è il caso di parlarne.
In un articolo del luglio 2015, dal titolo USA maior, minor Europa, avevo posto il quesito se siano compatibili fra loro i due riferimenti da sempre fatti propri dai responsabili delle istituzioni nazionali per definire la rotta della nostra politica estera: l’Europa in vista della sua unificazione e l’alleanza atlantica a garanzia di difesa e di stabilità internazionale. L'interrogativo nasceva da un dato difficilmente smentibile: da oltre un secolo, il fondamentale obiettivo della politica estera americana consiste nell'impedire che nel mondo si creino o si consolidino egemonie regionali in grado di indebolire il loro primato. Ora non c'è dubbio che un'Europa unificata e autonoma sul terreno politico e sul piano militare entrerebbe nel mirino americano quale potenza regionale da contrastare. Al momento, tuttavia, l'establishment nord americano non intravede questo pericolo in quanto concede ridotto credito alla UE, ritenendola poco più di una semplice area di libero scambio il cui vertice ha limitati poteri. Infatti ogni presidente americano, sulle questioni politiche e militari, si è sempre confrontato e si confronta con i singoli Stati europei e mai con i rappresentanti dell'Unione. Al contrario, in America ci si preoccupa della Germania e di una possibile Europa tedesca. Segnalo in argomento un interessante editoriale di Limes (2017 n.5) dal titolo L'Europa tedesca, incubo americano.
La primaria direttrice della politica estera statunitense, con ogni presidente, è stata, ed è, “impedire l'emergere in Eurasia di una concentrazione di potere capace di contendere agli USA il primato planetario, conquistato grazie al suicidio assistito (dagli USA) degli imperi europei nella prima metà del Novecento”. Infatti americani e tedeschi sono in conflitto da cento anni, dal 1917, quando gli americani liquidarono il Reich guglielmino. È una partita fra un impero marittimo a vocazione universale e la principale potenza continentale europea.
Alla Germania vinta, nel 1918 – malgrado i decantati principi wilsoniani – venne imposta una pace cartaginese che suscitò la denuncia di John Maynard Keynes, consulente della delegazione britannica a Versailles: l'economista previde infatti che le durissime condizioni imposte alla Germania avrebbero inevitabilmente portato ad un'altra guerra, come avvenne.
America e Germania hanno due opposte visioni del mondo. Quella americana è una concezione messianica che ottimisticamente ritiene il proprio modo di vita universale; mette al centro l'esaltazione della libertà e la responsabilità personale; pratica la religione del capitalismo, esalta il successo individuale (che legittima rilevanti ineguaglianze) e pone forti limiti al potere statale, sempre ritenuto oppressivo. In Germania, si guarda con un certo pessimismo a una libertà senza regole; c'è la volontà di addomesticare gli spiriti animali del mercato; si teme il disordine creato dalla concorrenza e si privilegiano la solidarietà e la ricerca della stabilità. Non a caso, il primo Stato sociale è stato creato in Germania da Bismarck.
La rivalità fra Stati Uniti e Germania ha quindi carattere strutturale. Nei laboratori strategici americani non ci si è mai lasciati convincere dalla mutazione genetica tedesca dopo la sconfitta del Reich hitleriano.
Vinta la Seconda guerra mondiale, l'America inventò un'Europa a sua misura per controllare la Germania e impedirne una possibile aggregazione all'impero sovietico: gli strumenti sono stati il Patto Atlantico, la NATO, una Comunità europea, poi Unione europea, sempre mantenuta politicamente debole. La guerra fredda è stata usata per enfatizzare la contrapposizione est-ovest e così giustificare il rilevante protagonismo politico e militare americano in Europa. I due Stati tedeschi, fino al 1990, erano dei sorvegliati speciali nei rispettivi blocchi. La stessa Repubblica di Bonn era un satellite, condizione assicurata anche dalla rilevante presenza di basi militari statunitensi sul suo territorio.
Poi è avvenuto inaspettato il crollo del sistema sovietico e, grazie alla tempestività e al coraggio del cancelliere Helmut Kohl, è stata rapidamente portata in porto la riunificazione tedesca, non senza molte recriminazioni negli USA e in vari Paesi europei.
Così gli Stati Uniti hanno ripreso a guardare con crescente preoccupazione alla Germania.
Si è pensato (non solo negli USA) di indebolire il Paese riunificato privandolo del marco e di controllarlo con la creazione dell'euro, ma la Germania ha saputo servirsi della nuova moneta a suo vantaggio, così come ha saputo vestire da europei i propri interessi.
In questa situazione, sono emersi vari e crescenti motivi di attrito: da parte tedesca, ci si è lamentati della messa sotto controllo, ad opera americana, delle comunicazioni fra i politici (Schroeder e Merkel compresi), dello spionaggio nei confronti delle industrie tedesche e delle frequenti iniziative legali statunitensi contro case tedesche (Volkswagen, Bayer); da parte americana, non sono state digerite le prese di distanza tedesche dalle guerre contro Saddam e Gheddafi, la mediazione della Merkel in Ucraina, i progetti industriali con la Russia per il gas.
In America si sospetta sempre più di un’Europa a guida tedesca. La scenario paventato dagli USA potrebbe materializzarsi sotto forma di un’Europa tedesca allineata con Mosca e forse con Pechino. Di conseguenza, Trump è sempre più intenzionato a intraprendere una guerra economica contro la Germania.
Oggi, la Germania si interroga sul suo posto nel mondo: si fa strada nell'opinione pubblica il desiderio di svezzarsi dalla tutela americana e di recuperare la propria sovranità che, in continuità con una secolare tradizione, la potrebbe condurre a guardare ad oriente.
Così, gli USA, per mantenere salda la loro presenza in Europa, ed esercitare il controllo sulla Germania, hanno fabbricato una seconda guerra fredda: a tale scopo, hanno spinto la NATO sempre più a oriente, hanno destabilizzato Ucraina e Georgia, Paesi storicamente legati alla Russia e per essa di interesse vitale (alle cui nazionalità appartenevano i più importanti leader sovietici), e cercano di resuscitare una russofobia ingiustificata e fuori tempo.
A fronte di questa rappresentazione, qualcuno potrebbe dire che la cosa non riguarda noi e gli altri Paesi europei perché la situazione tedesca è unica come nazione sconfitta nelle due guerre mondiali, ma ancora in possesso di grandi capacità economiche e politico-strategiche. Di qui la sua condizione di sorvegliato speciale.
In realtà, ad uscire politicamente in ginocchio dall'ultima guerra è stata l'intera Europa, e la condizione di subalternità agli USA riguarda tutti i Paesi europei. In un editoriale sul Corriere della sera del 18 maggio 2018, a proposito dell'Italia, Ernesto Galli della Loggia ha scritto che “abbiamo rimosso il fatto che la sconfitta (nella Seconda guerra mondiale) ha annichilito il nostro rango internazionale, ha cancellato per mille aspetti la nostra stessa sovranità lasciandoci organicamente subalterni a poteri stranieri”.
Sono passati più di settant’anni, ma il quadro non è mutato e la cosa non pare preoccupare. Anzi, oggi sembra che la parola “sovranità” sia diventata qualche cosa di sporco, mentre essa indica la condizione primaria di ogni possibile politica e quindi della democrazia stessa. Charles De Gaulle ritirò la Francia dalla struttura militare della NATO (1966) perché riteneva una tale appartenenza incompatibile con la sovranità dello Stato. Per questo passo, è stato accusato di nazionalismo, ma si dimentica che nel contempo De Gaulle proponeva come prospettiva ai Paesi europei la costruzione di un’Europa “dall'Atlantico agli Urali”.
Nel dibattito politico italiano emergono forti critiche, e talora una vera e propria ostilità, nei confronti della Germania per le politiche economiche da questa imposte a suo vantaggio e perché “veste da europei gli interessi tedeschi”. Tuttavia, tirare l'acqua al proprio mulino non è un comportamento della sola Germania, ma è quanto cercano di fare un po' tutti i Paesi dell'Unione, sia pure con capacità e risultati diversi.
Questa situazione è la conseguenza di un processo unitario incompiuto. Infatti, la costruzione europea non può rimanere bloccata a mezzo del cammino: o procede, o torna indietro e, in tal caso, si riafferma sempre più il protagonismo dei singoli Paesi. E non credo che per fare passi avanti verso una vera unità politica bastino gli appelli, le esortazioni o i richiami alla solidarietà. A tal fine, è indispensabile che l'Europa ritrovi la propria identità, abbia una propria visione del mondo e sappia definire il proprio ruolo nel contesto internazionale. Ma al momento non si vede chi sia in grado di dare corso al necessario cambio di mentalità.
Forse l'Europa tedesca, paventata dagli americani, potrebbe essere un più realistico punto di partenza. Molti grandi Paesi europei hanno raggiunto l'unità nazionale per iniziativa di uno Stato più forte e più determinato degli altri presenti nel territorio da unificare (vedi regno di Castiglia, regno di Prussia, regno sabaudo, principato di Mosca, ecc.). In ogni caso, bisogna che l'Europa recuperi la propria autonomia e la propria sovranità oggi soffocate dall'ingombrante presenza della “grande democrazia americana”.
In un articolo del luglio 2015, dal titolo USA maior, minor Europa, avevo posto il quesito se siano compatibili fra loro i due riferimenti da sempre fatti propri dai responsabili delle istituzioni nazionali per definire la rotta della nostra politica estera: l’Europa in vista della sua unificazione e l’alleanza atlantica a garanzia di difesa e di stabilità internazionale. L'interrogativo nasceva da un dato difficilmente smentibile: da oltre un secolo, il fondamentale obiettivo della politica estera americana consiste nell'impedire che nel mondo si creino o si consolidino egemonie regionali in grado di indebolire il loro primato. Ora non c'è dubbio che un'Europa unificata e autonoma sul terreno politico e sul piano militare entrerebbe nel mirino americano quale potenza regionale da contrastare. Al momento, tuttavia, l'establishment nord americano non intravede questo pericolo in quanto concede ridotto credito alla UE, ritenendola poco più di una semplice area di libero scambio il cui vertice ha limitati poteri. Infatti ogni presidente americano, sulle questioni politiche e militari, si è sempre confrontato e si confronta con i singoli Stati europei e mai con i rappresentanti dell'Unione. Al contrario, in America ci si preoccupa della Germania e di una possibile Europa tedesca. Segnalo in argomento un interessante editoriale di Limes (2017 n.5) dal titolo L'Europa tedesca, incubo americano.
La primaria direttrice della politica estera statunitense, con ogni presidente, è stata, ed è, “impedire l'emergere in Eurasia di una concentrazione di potere capace di contendere agli USA il primato planetario, conquistato grazie al suicidio assistito (dagli USA) degli imperi europei nella prima metà del Novecento”. Infatti americani e tedeschi sono in conflitto da cento anni, dal 1917, quando gli americani liquidarono il Reich guglielmino. È una partita fra un impero marittimo a vocazione universale e la principale potenza continentale europea.
Alla Germania vinta, nel 1918 – malgrado i decantati principi wilsoniani – venne imposta una pace cartaginese che suscitò la denuncia di John Maynard Keynes, consulente della delegazione britannica a Versailles: l'economista previde infatti che le durissime condizioni imposte alla Germania avrebbero inevitabilmente portato ad un'altra guerra, come avvenne.
America e Germania hanno due opposte visioni del mondo. Quella americana è una concezione messianica che ottimisticamente ritiene il proprio modo di vita universale; mette al centro l'esaltazione della libertà e la responsabilità personale; pratica la religione del capitalismo, esalta il successo individuale (che legittima rilevanti ineguaglianze) e pone forti limiti al potere statale, sempre ritenuto oppressivo. In Germania, si guarda con un certo pessimismo a una libertà senza regole; c'è la volontà di addomesticare gli spiriti animali del mercato; si teme il disordine creato dalla concorrenza e si privilegiano la solidarietà e la ricerca della stabilità. Non a caso, il primo Stato sociale è stato creato in Germania da Bismarck.
La rivalità fra Stati Uniti e Germania ha quindi carattere strutturale. Nei laboratori strategici americani non ci si è mai lasciati convincere dalla mutazione genetica tedesca dopo la sconfitta del Reich hitleriano.
Vinta la Seconda guerra mondiale, l'America inventò un'Europa a sua misura per controllare la Germania e impedirne una possibile aggregazione all'impero sovietico: gli strumenti sono stati il Patto Atlantico, la NATO, una Comunità europea, poi Unione europea, sempre mantenuta politicamente debole. La guerra fredda è stata usata per enfatizzare la contrapposizione est-ovest e così giustificare il rilevante protagonismo politico e militare americano in Europa. I due Stati tedeschi, fino al 1990, erano dei sorvegliati speciali nei rispettivi blocchi. La stessa Repubblica di Bonn era un satellite, condizione assicurata anche dalla rilevante presenza di basi militari statunitensi sul suo territorio.
Poi è avvenuto inaspettato il crollo del sistema sovietico e, grazie alla tempestività e al coraggio del cancelliere Helmut Kohl, è stata rapidamente portata in porto la riunificazione tedesca, non senza molte recriminazioni negli USA e in vari Paesi europei.
Così gli Stati Uniti hanno ripreso a guardare con crescente preoccupazione alla Germania.
Si è pensato (non solo negli USA) di indebolire il Paese riunificato privandolo del marco e di controllarlo con la creazione dell'euro, ma la Germania ha saputo servirsi della nuova moneta a suo vantaggio, così come ha saputo vestire da europei i propri interessi.
In questa situazione, sono emersi vari e crescenti motivi di attrito: da parte tedesca, ci si è lamentati della messa sotto controllo, ad opera americana, delle comunicazioni fra i politici (Schroeder e Merkel compresi), dello spionaggio nei confronti delle industrie tedesche e delle frequenti iniziative legali statunitensi contro case tedesche (Volkswagen, Bayer); da parte americana, non sono state digerite le prese di distanza tedesche dalle guerre contro Saddam e Gheddafi, la mediazione della Merkel in Ucraina, i progetti industriali con la Russia per il gas.
In America si sospetta sempre più di un’Europa a guida tedesca. La scenario paventato dagli USA potrebbe materializzarsi sotto forma di un’Europa tedesca allineata con Mosca e forse con Pechino. Di conseguenza, Trump è sempre più intenzionato a intraprendere una guerra economica contro la Germania.
Oggi, la Germania si interroga sul suo posto nel mondo: si fa strada nell'opinione pubblica il desiderio di svezzarsi dalla tutela americana e di recuperare la propria sovranità che, in continuità con una secolare tradizione, la potrebbe condurre a guardare ad oriente.
Così, gli USA, per mantenere salda la loro presenza in Europa, ed esercitare il controllo sulla Germania, hanno fabbricato una seconda guerra fredda: a tale scopo, hanno spinto la NATO sempre più a oriente, hanno destabilizzato Ucraina e Georgia, Paesi storicamente legati alla Russia e per essa di interesse vitale (alle cui nazionalità appartenevano i più importanti leader sovietici), e cercano di resuscitare una russofobia ingiustificata e fuori tempo.
A fronte di questa rappresentazione, qualcuno potrebbe dire che la cosa non riguarda noi e gli altri Paesi europei perché la situazione tedesca è unica come nazione sconfitta nelle due guerre mondiali, ma ancora in possesso di grandi capacità economiche e politico-strategiche. Di qui la sua condizione di sorvegliato speciale.
In realtà, ad uscire politicamente in ginocchio dall'ultima guerra è stata l'intera Europa, e la condizione di subalternità agli USA riguarda tutti i Paesi europei. In un editoriale sul Corriere della sera del 18 maggio 2018, a proposito dell'Italia, Ernesto Galli della Loggia ha scritto che “abbiamo rimosso il fatto che la sconfitta (nella Seconda guerra mondiale) ha annichilito il nostro rango internazionale, ha cancellato per mille aspetti la nostra stessa sovranità lasciandoci organicamente subalterni a poteri stranieri”.
Sono passati più di settant’anni, ma il quadro non è mutato e la cosa non pare preoccupare. Anzi, oggi sembra che la parola “sovranità” sia diventata qualche cosa di sporco, mentre essa indica la condizione primaria di ogni possibile politica e quindi della democrazia stessa. Charles De Gaulle ritirò la Francia dalla struttura militare della NATO (1966) perché riteneva una tale appartenenza incompatibile con la sovranità dello Stato. Per questo passo, è stato accusato di nazionalismo, ma si dimentica che nel contempo De Gaulle proponeva come prospettiva ai Paesi europei la costruzione di un’Europa “dall'Atlantico agli Urali”.
Nel dibattito politico italiano emergono forti critiche, e talora una vera e propria ostilità, nei confronti della Germania per le politiche economiche da questa imposte a suo vantaggio e perché “veste da europei gli interessi tedeschi”. Tuttavia, tirare l'acqua al proprio mulino non è un comportamento della sola Germania, ma è quanto cercano di fare un po' tutti i Paesi dell'Unione, sia pure con capacità e risultati diversi.
Questa situazione è la conseguenza di un processo unitario incompiuto. Infatti, la costruzione europea non può rimanere bloccata a mezzo del cammino: o procede, o torna indietro e, in tal caso, si riafferma sempre più il protagonismo dei singoli Paesi. E non credo che per fare passi avanti verso una vera unità politica bastino gli appelli, le esortazioni o i richiami alla solidarietà. A tal fine, è indispensabile che l'Europa ritrovi la propria identità, abbia una propria visione del mondo e sappia definire il proprio ruolo nel contesto internazionale. Ma al momento non si vede chi sia in grado di dare corso al necessario cambio di mentalità.
Forse l'Europa tedesca, paventata dagli americani, potrebbe essere un più realistico punto di partenza. Molti grandi Paesi europei hanno raggiunto l'unità nazionale per iniziativa di uno Stato più forte e più determinato degli altri presenti nel territorio da unificare (vedi regno di Castiglia, regno di Prussia, regno sabaudo, principato di Mosca, ecc.). In ogni caso, bisogna che l'Europa recuperi la propria autonomia e la propria sovranità oggi soffocate dall'ingombrante presenza della “grande democrazia americana”.
Credo che oggi gli Stati Uniti, abbiano ben poco da insegnare all’Europa, specie il suo benamato presidente donald trump. Egli è simile ad un bambino capriccioso che bisticcia con tutti. Ieri si scagliava contro il dittatore della Nord Corea, poi lo riceve con tutti gli onori. Attacca il nucleare dell’Iran, e scaglia fulmini e saette contro il Venezuela, e non parliamo poi del Messico. Aumenta i dazi verso gli altri Paesi, ma se lo fanno gli altri, dice che lo pugnalano alle spalle. Esce dall’accordo sul clima e inquina il mondo con il carbone, vuole l’estinzione di tutti gli animali selvatici dell’Alaska, togliendo tutte le regole sulla caccia. Vuole costruire un muro di confine con il Messico, ma pretende che sia il Messico a pagarlo. Ma la più pesante, quella per me imperdonabile, è stata quella di dividere i bambini dai genitori e metterli in gabbia come fossero degli orangotango.
Ladetto pone un dilemma a cui non è facile rispondere: Europa tedesca o ritorno agli stati nazionali?
Nel contempo ci ricorda due grandi verità:
la “sovranità” come «condizione primaria di ogni possibile politica e quindi della democrazia stessa».
E l’altra verità: Usa e Ue hanno imposto le sanzioni alla Russia nonostante sia comprovato che siano stati gli Stati Uniti destabilizzare l’Ucraina.
Due verità che devono stare nel programma della Rete Bianca, se essa ambisce a distinguersi dal Pd e a non ripeterne gli errori.