Politici “nuovi”, senza passato



Giuseppe Ladetto    25 Maggio 2018       4

Il tempo scorre e tutto cambia. Anche nella vita politica, si affacciano alla ribalta nuovi protagonisti che, per età, modo di presentarsi, di parlare e di agire, si discostano radicalmente da chi li ha preceduti. È frequente ascoltare lamentele in proposito da parte di chi non riesce a capacitarsi di una tale mutazione. Qualche settimana fa, in una trasmissione televisiva, il sociologo Domenico De Masi ha ricordato che, nell'Italia appena uscita dalla guerra, diverse personalità politiche erano di pari età o talora più giovani di quanto siano oggi Di Maio, Salvini e Renzi, ma nessuno li aveva ritenuti immaturi: questo perché essi appartenevano a formazioni politiche con una lunga tradizione e una profonda cultura da cui potevano trarre ispirazione e riferimenti. Oggi, invece, alle spalle dei nuovi dirigenti politici non c'è niente. Oltre a ciò, aggiunge De Masi, essi non sanno o non vogliono accogliere indicazioni da chi ha esperienza e in particolare dagli intellettuali, mentre questi ultimi si disinteressano della vita politica quasi disprezzandola.

Ora le cose dette dal sociologo in qualche misura ci possono anche stare, ma mi meraviglia che non si prenda mai in considerazione quella che ritengo essere la motivazione prima alla base del fenomeno denunciato. Come possiamo criticare il nuovo ceto politico per non avere alle spalle tradizioni e cultura quando c'è la diffusa convinzione che tutto ciò che è nuovo, in ogni ambito, sia sempre meglio di quanto lo ha preceduto?

Nei mezzi di informazione, nella pubblicità, nei discorsi dei politici e della gente comune, “moderno” è un aggettivo che contrassegna positivamente persone, cose, eventi. È indubbio che le vere “innovazioni”, in ambito scientifico, medico o tecnologico, in genere migliorino le condizioni di vita di tutti noi: pensiamo a che cosa ci attendeva dal dentista 70 anni fa...

Ma un conto sono tali innovazioni, in massima parte positive. Altra cosa sono le “novità”, cioè tutto quanto è fine a se stesso e contrassegna le mode. Il termine “moderno” solitamente riguarda questo secondo aspetto e implica il rigetto di tutto quanto gli è precedente, indipendentemente dal suo valore.

Viviamo nella modernità estrema o, secondo taluni, nella postmodernità. Come ci hanno detto prestigiosi intellettuali, la modernità ha appiattito il tempo e lo ha frammentato in una serie di momenti che vengono vissuti ciascuno come un’esperienza dell’attimo fuggente, disgiunta dai suoi precedenti e dalle sue conseguenze. Agnes Heller, infatti, ha scritto che “la modernità è il presente assoluto, non più ponte tra passato e futuro, ma uno spazio da esplorare e vivere”. Decisioni e scelte sono compiute in un orizzonte a breve: i manager operano in vista della prossima trimestrale; i politici in base alla più vicina scadenza elettorale o all'ultimo sondaggio; nessuno si preoccupa delle ricadute dei propri atti e delle conseguenze non immediate che possono produrre. Le modificazioni climatiche, ignorate o combattute solo a parole, ne sono l'esempio più eclatante. Questa concezione del tempo investe anche i rapporti fra le persone, quelli familiari e la stessa vita sentimentale e sessuale; ha quindi un ruolo rilevante nell'indebolimento delle relazioni sociali e nello smantellamento dell'istituzione familiare. Il patologico crollo demografico che investe l'Italia e la più parte dei Paesi europei ne è la conseguenza più manifesta.

Vivere nella sola dimensione del presente comporta il non avere progetti ancorati a una visione del mondo che consenta di guardare lontano, mentre la cancellazione del passato incide sulla identità delle persone e delle società. Il catechismo giustamente attribuisce alla società la durata nel tempo come suo fattore essenziale: “Assemblea insieme visibile e spirituale, una società dura nel tempo: è erede del passato e prepara l'avvenire”.

A determinare questo aspetto saliente della modernità, sono intervenuti molteplici fattori, fra i quali, in modo preponderante, una certa idea di progresso (l'ideologia del progresso) che ha veicolato la ripulsa del passato, i cui sistemi di valori vengono giudicati sulla base di quelli attuali, senza tenere conto dei contesti storici. Ma negare il passato comporta l'incapacità di concepire il futuro, perché di questo si crea una percezione astratta, disancorata da elementi reali: quelli che, necessariamente, sono in continuità con il passato.

La diffusione dell'ideologia del progresso ha ricevuto, recentemente, una fortissima accelerazione con l'affermarsi del “politicamente corretto”, la voce con cui si esprime il “neoliberalismo globale”, interprete degli interessi del finanzcapitalismo. Agli occhi di chi fa propria tale ideologia, l'intera eredità dei secoli passati deve essere respinta: un rifiuto che va oltre le tradizioni e i valori identitari, ma che, nei casi estremi, riguarda anche la più parte delle opere dei classici e dei testi del pensiero occidentale ritenuti espressioni di una cultura maschilista, omofoba, quando non razzista. Nel nostro Paese, è la stessa lingua italiana ad essere minacciata: la globalizzazione, viene detto, impone l'inglese.

Così, passo dopo passo, si sta cancellando la storia, in particolare quella dell'Europa, o la si riduce ai soli aspetti negativi: altro non sarebbe che una successione di guerre, tratta degli schiavi, colonialismo, lager. Si inculca il disprezzo di sé in nome dell'apertura agli altri e a un nuovo genere umano.

Ma una società che non vuole più sapere cos'è, né da dove viene, che non ha fierezza e memoria, che non ha più volontà di confrontarsi, è pronta per essere assoggettata. Fare tabula rasa del passato è l'obiettivo di tutti i regimi totalitari per i quali la storia deve ricominciare a partire dalla loro affermazione. Questa è la vera nuova minaccia totalitaria.

Ritorniamo allora ai nuovi giovani politici rampanti. Fortunatamente non tutti sono in sintonia con il politicamente corretto, ma inevitabilmente sono figli di questo tempo. Pertanto, è inutile rimpiangere gli uomini politici del passato e invocare, come sovente accade, un qualche nuovo De Gasperi o un nuovo Berlinguer o rinati Padri costituenti. Se mai ce ne fossero in giro, difficilmente potrebbero emergere ed affermarsi nel contesto attuale.

Ogni epoca ha i suoi interpreti. Se ne era già accorto Giacomo Leopardi che, in data 23 dicembre 1820, scrisse: “In ciascun luogo e in ciascun tempo, bisogna spendere la moneta corrente. Chi non è provveduto di questa, è povero, per molto ch’egli sia ricco d’altra moneta”.


4 Commenti

  1. Come sempre Giuseppe Ladetto è profondo. Aggiungerei solo che va tenuto presente che, per ragioni oggettive, il pensiero degli ultimi duecento anni, pervaso dall’idea di un progresso senza fine, banalizzato in una crescita (materiale) infinita, in fondo alla quale ci sarebbe stato un vero processo di deificazione dell’uomo ad opera di una redenzione di cui esso stesso sarebbe l’operatore salvifico (il paradiso in terra), difficilmente è in grado di comprendere quello che sta succedendo al presente e quindi di chiedersi come orientare, e ad opera di chi, il futuro dell’umanità.
    Tutto ciò che, nel bene e nel male, è stato costruito negli ultimi duecento anni era basato sul postulato che andasse rifiutato il senso del limite nell’azione umana, presunzione che oggi è venuta a sbattere con limiti naturali ambientali e con quelli dovuti alla fragilità della natura umana. Tutto ciò ci sta presentando il conto, rendendo inadeguato, come guida della nostra vita, sia in termini privati che pubblici, l’intero pensiero filosofico, e conseguentemente anche politico, inteso come teoria politica e come pura e semplice prassi quotidiana, degli ultimi 200 anni.
    Senza avere coscienza di ciò è impossibile impostare una filosofia e una politica adeguate a capire i tempi che stiamo vivendo e verso dove stiamo andando, e conseguentemente a non operare prassi adeguate alle circostanze.

  2. “….Fare tabula rasa del passato è l’obiettivo di tutti i regimi totalitari per i quali la storia deve ricominciare a partire dalla loro affermazione….”. Ricordo mia madre , insegnante, che nei tardi ’70 primi ’80 ci leggeva ad alta voce il tema di una sua allieva che proponeva di mettere in soffitta Leopardi, Dante, Tasso & co. per rivalutare un( non meglio precisato)”cantastorie di paese”. Questa fanciulla era un’arruffapopoli che si proponeva di rivoltare ogni cosa per veder finalmente sorgere il sol dell’avvenire. Ironia della sorte e della storia:quegli stessi schemi mentali sono oggi utilizzati con estrema efficacia dalle forze che hanno operato una rivoluzione esattamente antitetica alle smodate frenesie sociopolitiche di allora. E quanti arruffapopoli di allora oggi sono devoti servitori dell’utopia capovolta: cambiano i contenuti ma non lo schema mentale che ha prodotto la rottura delle radici e la desolata inconsapevolezza del tempo puntiforme ( Baumann) di cui ci parla Ladetto

  3. Da tempo mi chiedo da dove è nata questa ondata di “nuovismo” che denigrando la ” tradizione” come “vecchio” ha preso il potere? Nella storia è avvenuto con l’illuminismo e la conseguente prima rivoluzione francese che voleva delegittimare “l’ancient regime”, con la rivoluzione wagneriana e poi l’espressionismo tedesco che aprirono alla cultura pangermanica, con il futurismo in Italia che diede slancio al giovanilismo fascista. Così nel ’68 giovani che insofferenti del conformismo dei padri, anzichè contrapporsi individualmente ai padri per crescere ed aprire all’innovazione, preferirono fare gruppo e denunciare tutto ciò che la vecchia società rappresentava, fondando il loro ribellismo sull’ideologia della ” rivoluzione “. Ma ogni vera rivoluzione per portare frutti innovativi deve incorporare il meglio del passato ed aprire al nuovo dopo lunghe e difficili mediazioni. Solo alla Machiavelli, il Principe può fare tabula rasa dei vecchi, ma poi mal giene incolse “perché un principe che può fare quello che vuole è un pazzo; un popolo che può fare ciò che vuole non è savio”.
    Dunque si agli innovatori, pazienti, prudenti, pacifici, ma tenaci e determinati, no ai ” nuovisti” ribellisti, rivoltosi, o semplicemente consapevoli che ” tutto deve cambiare perchè nulla cambi”!

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