Veneto e Lombardia dopo il referendum



Lorenzo Gaiani    9 Novembre 2017       0

Pubblichiamo il condivisibile editoriale che sul sito dei Circoli Rossetti fa il punto sulle prospettive di maggiore autonomia in Veneto e Lombardia dopo i risultati dei referendum promossi dai governi a guida leghista delle due Regioni.

A distanza di quindici giorni dai referendum consultivi svoltisi in Lombardia ed in Veneto è forse possibile qualche riflessione un po' meno a caldo rispetto ad un evento che, con ogni probabilità, non muoverà granché della realtà politica ed istituzionale di quelle due Regioni e del Paese, inscrivendosi più nella dimensione della propaganda politica che in quella del ragionamento sulle riforme da fare per realizzare concretamente quello "Stato delle autonomie" di cui si è parlato a lungo.
Lo dimostra ad esempio la vicenda veneta, dove si è votato, come del resto in Lombardia, su di un quesito anodino, che di fatto equivaleva a chiedere all'elettorato se autorizzasse o no la Giunta regionale ad iniziare un percorso di confronto con il Governo nazionale sull'allargamento delle competenze della Regione nell'ambito delle materie definite di “legislazione concorrente” (art. 117 comma 3 della Costituzione) come i rapporti internazionali, il commercio con l'estero, la ricerca scientifica, l'ordinamento sportivo, la protezione civile…
Lasciamo da parte il fatto che l'Emilia Romagna ha già attivato questo percorso di confronto con un'articolata delibera dell'Assemblea legislativa regionale, senza bisogno di un pleonastico (e costoso) referendum.
Il fatto è che il Veneto (la maggioranza che lo governa, per l'esattezza) non aveva proposto solo il quesito su cui effettivamente gli elettori hanno votato, ma anche altri due, uno in cui si chiedeva nientemeno che l' indipendenza della “Repubblica veneta” ed un altro in cui, più modestamente, si chiedeva il passaggio del Veneto al novero delle Regioni a statuto speciale. Ambedue i referendum sono stati bocciati (ovviamente) dalla Corte costituzionale, e il Presidente della Regione Luca Zaia ha pensato bene di non fare il Puigdemont della situazione e si è tenuto l'unico quesito superstite.
Peccato che, subito dopo aver incassato il 58% della partecipazione al voto ed un quasi plebiscito per il “Sì” Zaia abbia subito cambiato le carte in tavola dicendo che nelle sue richiesta avrebbe inserito lo statuto speciale ed incassando subito un inevitabile no da parte del Governo. Ciò implica che la trattativa fra il Veneto ed il Governo centrale sarà complicata da questo dato di propaganda politica che dovrebbe essere il traino della campagna elettorale della destra (o perlomeno della Lega) fino alle elezioni politiche.
In Lombardia la situazione è un po' diversa, anche perché nei rapporti di forza interni alla destra la Lega non sovrasta nettamente Forza Italia come invece fa nel Veneto: inoltre, la pur ragguardevole quota del 38% degli elettori che hanno partecipato al voto (e a favore del Sì vi erano , teoricamente, tutta la destra ed i Cinquestelle ed alcuni settori del PD e del centrosinistra) è comunque ben lontana dalla maggioranza assoluta. E comunque – ed è un dato di cui tener conto- la mappa della partecipazione al voto ha evidenziato una discrasia fra due Lombardie, nel senso che gli elettori residenti nel territorio metropolitano milanese hanno largamente disertato le urne, implicando di fatto l'indifferenza della parte più avanzata ed aperta a livello internazionale della società lombarda nei confronti di quella che è sembrata una rivendicazione a carattere provincialistico senza un obiettivo preciso (la stessa differenza che passa fra il livello di consenso della Lega Nord nella realtà milanese ed in quella pedemontana, tanto per dire).
Infatti, l'elaborazione del testo di base su cui aprire il confronto con il Governo nazionale in Lombardia ha assunto toni più realistici ed è stato in linea generale condiviso dalla maggioranza di destra e dalle opposizioni, e lo stesso Presidente Roberto Maroni ha negato di avere come obiettivo il passaggio della Lombardia allo Statuto speciale.
Le domande di fondo sono però due: i referendum lombardo-veneti sono in qualche modo paragonabili a quello catalano? E, più radicalmente, esistono delle ragioni oggettive per il malessere delle due Regioni settentrionali rispetto allo Stato centrale?
La riposta alla prima domanda è no, anche perché in Catalogna il sentimento autonomista ed indipendentista, pur non essendo affatto maggioritario, si esprime innanzitutto in forma trasversale, andando dai conservatori di matrice, si direbbe, democristiana come Puigdemont agli estremisti di sinistra della CUP, ed inoltre le differenze culturali e linguistiche fra catalani e castigliani sono abbastanza evidenti, anche se la Catalogna è parte integrante (anzi: parte costitutiva) dello Stato spagnolo dalla fine del XV secolo. In Lombardia e Veneto, al contrario, il sentimento indipendentista è relegato all'ambiente leghista (e nemmeno a tutto) e le differenze culturali sono generalmente declinate in termini folkloristici, fermo restando che nessuno si sognerebbe mai di redigere i documenti ufficiali della Regione e degli Enti locali in dialetto lombardo o veneto (cosa che invece accade regolarmente in Catalogna e nel Paese Basco con gli idiomi locali, a conferma del fatto che lo “Stato delle autonomie“ spagnolo è tutt'altro che oppressivo). Inoltre – ed è fondamentale – i referendum nelle due Regioni italiane si sono tenuti nel pieno rispetto della legalità costituzionale, che invece la Generalitat catalana ha clamorosamente violato venendo per questo commissariata dal Governo di Madrid.
La seconda risposta è più complessa: che la Lombardia ed il Veneto siano tra le Regioni più sviluppate d'Italia è un dato di fatto, ed il loro contributo al PIL nazionale è significativo, come pure è significativo che il tasso generale di disoccupazione, ivi compresa quella giovanile e femminile, sia in queste Regioni più basso che altrove. Il punto focale delle rivendicazioni lombarde e venete (e, per inciso, anche di quelle catalane) è e rimane legato alla dimensione fiscale, ossia dalla percezione dei cittadini e delle classi dirigenti delle due Regioni di contribuire al bilancio dello Stato in modo più sensibile rispetto ad altre Regioni, soprattutto quelle meridionali, le quali avrebbero oltretutto una maggiore tendenza allo spreco. Ridotta in sintesi, è la riproposizione di ciò che la Lega ha detto per anni alimentando una copiosa lettura sulla “questione settentrionale” che sembra riproporsi ciclicamente, e quasi con gli stessi argomenti, da trent'anni a questa parte, ossia dalle prime affermazioni elettorali leghiste.
Nel frattempo, il fossato fra il Meridione ed il resto d'Italia si è ulteriormente allargato, soprattutto a livello produttivo ed occupazionale, anche come coda avvelenata della crisi economica dell'ultimo decennio, senza che sia più possibile ricorrere al benefico (si fa per dire) ammortizzatore sociale dei posti sicuri nel pubblico impiego a causa dei vincoli di spesa imposti dall'Unione europea e recepiti nella Costituzione con l'obbligo del pareggio di bilancio. È fuori discussione che le classi dirigenti regionali debbono essere responsabilizzate in ordine alle questioni di spesa , ma occorre dire con chiarezza che se il senso di responsabilità delle Regioni a statuto speciale è stato spesso carente – si pensi alle vicende siciliane e valdostane che hanno riempito le cronache politiche (e giudiziarie) – non si può dire che l'aumento delle competenze legislative e regolamentari delle Regioni dopo la riforma del Titolo V della Costituzione nel 2001 abbia corrisposto alle aspettative dei cittadini, oltretutto aumentando il contenzioso davanti ai tribunali amministrativi e alla stessa Corte costituzionale delle singole Regioni verso lo Stato e delle Regioni fra di loro.
D'altro canto, le modalità un po' semplicistiche con cui vengono descritte le aspettative delle due Regioni settentrionali rispetto alla loro trattativa con il Governo nazionale non sembrano rassicuranti, a meno che non siano riconducibili, appunto, alla dimensione della propaganda elettorale. Infatti, come ha rilevato un politico veneto di lungo corso come l'ex Sindaco di Padova Paolo Giaretta, la richiesta di Zaia di mantenere i nove decimi del gettito fiscale veneto sul territorio regionale, se non è una boutade di fatto sembra una sorta di preludio a una logica secessionista.
Si può dire, in definitiva, che se pure questi referendum hanno incontrato degli umori diffusi sul territorio (più in Veneto che in Lombardia), di fatto la loro celebrazione si è interamente svolta in un contesto di ambiguità che non giova rispetto alla chiarezza dei rapporti politico-istituzionali.


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