Ancora alla ricerca del Centro perduto



Andrea Griseri    25 Novembre 2025       0

Nel libro di John Reed I dieci giorni che fecero tremare il mondo è descritta la fase finale e risolutiva della rivoluzione d’ottobre, l’ordine dell’insurrezione generale, il controllo dei gangli vitali delle istituzioni nella capitale, la caduta del governo provvisorio presieduto da Kerenskij, la presa del potere da parte della componente di sinistra del partito socialdemocratico detta Bolscevica che ancora nel luglio sembrava definitivamente sconfitta.

L’autore, un giovane giornalista americano, ebbe l’opportunità unica di eseguire un reportage in diretta su un avvenimento che è stato un autentico spartiacque storico. Migliaia di pagine sono poi state scritte sulla Rivoluzione d’ottobre e sulle circostanze che la resero possibile; tutti i commentatori comunisti (a partire da Lukacs che le dedicò un saggio nei tardi Anni ’20) e anticomunisti concordano in genere su un punto: senza il genio di Lenin, la profondità della sua analisi teorica combinata con la lucida consapevolezza delle condizioni presenti e future, e cioè con l’assoluta fedeltà alla prassi, la Rivoluzione non avrebbe avuto successo.

Una cosa aveva capito Lenin: le masse contadine non avevano sviluppato una coscienza politica e di classe paragonabile a quella degli strati superiori del proletariato urbano ma era compito dei rivoluzionari orientarle ai compiti storici che attendevano il proletariato. Come un direttore d’orchestra Lenin aveva dettato con precisione i tempi degli attacchi.

Oggi i suoi epigoni s'ispirano in modo frammentario a qualcuno degli aspetti della sua azione rivoluzionaria senza coglierne l’aspetto essenziale, e cioè la strategia complessiva accordata con le dinamiche dialettiche della storia. Così assistiamo a una sinistra che qualcuno definisce “radicale” impegnata a cogliere ogni occasione per creare scontri e disordine. Il pretesto è spesso rappresentato da qualche buona causa.

Raramente però si registra una piena consapevolezza dei meccanismi che hanno provocato la situazione oggetto della protesta, né si registrano proposte articolate e circostanziate. I ragazzi del Friday for future sono giustamente preoccupati per le alterazioni climatiche che possono pregiudicare il loro futuro. Ma a parte il fatto che purtroppo i problemi ambientali non si limitano alla sola questione climatica (e non è una buona notizia) riescono a confezionare un insieme di proposte concrete, farne oggetto di battaglia politica su cui gettare il peso della loro presenza organizzata e della giovanile esuberanza? Quanti di loro hanno letto il bel libro pubblicato un paio d’anni fa da Francesco Rutelli, Il secolo verde, dove l’autore esamina l’intero spettro delle problematiche ecologiche contemporanee senza tacere della difficoltà a coglierne le cause e individuare risposte davvero efficaci?

Chi scrive possiede una piccola casa di famiglia in un ridente paesino del Monferrato purtroppo inutilizzata da anni: vorrei ricoprirla di pannelli solari per trasformarla in una piccola centrale elettrica ma non si può, non mi conviene, dovrei consumare almeno una percentuale dell’energia prodotta che comunque viene ceduta alla rete e a un gestore; chiesi un giorno a un ragazzo di Ultima generazione: “Perché non ingaggiate compatti una battaglia per ottenere un risultato che aumenterebbe a dismisura la produzione di energia pulita nel nostro Paese”? Invece di schiamazzare più o meno a vuoto ogni settimana (no, questo non glielo dissi)? Perso nel vuoto era il suo sguardo in risposta alla mia precisa domanda. E che dire dei ProPal, degli antagonisti, delle manifestazioni che spesso si traducono in vandalismi fine a se stessi?

O forse seminare il disordine ha uno scopo. Quello di aumentare il senso di insicurezza nella comunità civile, peggiorare la percezione della realtà, indurre al pessimismo, fomentare confuse paure. Lenin li avrebbe rinchiusi nello Smolny per un mese a seguire un corso accelerato di dialettica rivoluzionaria. Le sinistre radicali sembrano spiare con interesse la degenerazione sociale, il diffuso senso di disperazione, l’assenza di prospettive future: presumono che ne deriverà uno scossone rivoluzionario? È una versione rudimentale della concezione dialettica della storia.

E non vi si intravvede piuttosto una convergenza con l’idea della “fine della storia” (Fukuyama) che è stata o è ancora il sottostante ideologico della globalizzazione neoliberista? Naomi Klein nel suo fondamentale The Shock Doctrine, The Rise of Disaster Capitalism ha denunciato una prassi entrata in voga già negli Anni ’70 e tutt’altro che scomparsa: trarre profitto da conflitti, epidemie, disastri naturali o da crisi provocate ad arte per disorientare e spaventare (la paura come leva del potere è sempre un evergreen) e indurre la popolazione ad accettare con inesorabile gradualità cambiamenti che in condizioni “normali” offenderebbero il senso civico e democratico.

La sinistra radicale dunque è il classico utile idiota di un potere abilmente camuffato sotto diverse spoglie? Ah sento già rumoreggiare la sala: ancora con la storia dei poteri forti, il Deep State, la matrix, gli extraterrestri? Complottista! Ebbene i complotti sono sempre esistiti. Giulio Cesare non si tagliò mentre affettava il prosciutto... E a un occhiuto giornalista che gli chiedeva se mai avesse dato credito ai complotti, Giulio Andreotti rispose certo che sì io di complotti ne ordisco tre o quattro la settimana: com-plotto significa etimologicamente tessere una trama con qualcuno, se non pratichi quell’arte difficilmente rimani al governo di un Paese per decenni. E ci sono complotti buoni e complotti cattivi: come non vedere che mani sapienti e diaboliche hanno pazientemente distrutto il patto che nel dopoguerra ha favorito la rinascita economica (originata dal Piano Marshall, una delle iniziative più sagge e intelligenti della storia moderna) dell’Occidente e dell’Europa in particolare, includendo larghe porzioni della popolazione nella middle class allargata, quel referente sociale indispensabile delle democrazie risorte sulle macerie dei totalitarismi in Europa?

Impossibile sintetizzare in poche righe ciò che è stato esposto in tantissimi saggi: la finanziarizzazione dell’economia, le fiscalità agevolate per super-ricchi e imprese transnazionali , la perdita della sovranità monetaria, hanno indotto gli Stati a cadere nella trappola del debito, premessa delle peggiori politiche austeritarie. In Europa i singoli Paesi hanno rinunciato alla leva monetaria e al controllo autonomo dei bilanci ma in realtà l’istanza federale superiore cui hanno devoluto questi poteri non ne rappresenta pienamente e con efficacia gli interessi; l’Europa rimane una grande incompiuta, non ha una Banca centrale in grado per statuto di fare ciò che facevano le Banche centrali dei singoli Stati membri, non ha una politica fiscale comune, non un Parlamento dove seggano esponenti di forze politiche davvero transfrontaliere, non una vera divisione dei poteri. E i lobbisti hanno libero accesso ai palazzi di Bruxelles.

In questo quadro s’erge illogico il dogma austeritario: se riduco il debito tagliando le risorse che in un’economia moderna sono indispensabili per la crescita, il PIL aumenterà lentamente e dovrò indebitarmi per far fronte alle spese, quindi il fossato fra debito e PIL è destinato inevitabilmente ad allargarsi.

Ma dove andremo a finire di questo passo? Dove “si vuole” arrivare? A spolpare la middle class allargata imponendo a dosi omeopatiche sacrifici che tutti in una volta scatenerebbero una rivolta generalizzata? E non si coglie qui una convergenza paradossale di interessi fra l’élite e certa radical left?

La prima che costituisce il proverbiale 1% (percentile in più o in meno) della popolazione proletarizza la middle class, la terrorizza agitando lo spauracchio del barbaro che preme ai confini del mondo civilizzato, controlla la comunicazione, degrada il tono culturale del popolo, favorisce l’ascesa al potere di soggetti che provengono dal mondo finanziario (Macron e Merz per esempio) o giovani donne fanatiche (la baltica Kallas, figlia agiata di un alto funzionario sovietico oggi nientemeno che Commissaria agli Esteri UE, nota per la postura estremamente aggressiva verso la Russia) o interessate più al mondo delle discoteche che a quello ovattato delle istituzioni (la finlandese Sanna Marin… poi si sono accorti di avere esagerato).

La seconda si richiama per dovere di firma alle tradizionali battaglie della sinistra e spera di trarre profitto dal caos o dal disorientamento che proprio il neoliberismo duro delle élites sta disseminando nelle società occidentali. Le battaglie per i diritti civili che, dobbiamo onestamente riconoscerlo, negli Anni ’70 avevano accompagnato la trasformazione della società e contrastato lo stigma che causava tante sofferenze alle persone considerate diverse, sono ridotte ad arzigogolati manierismi salottieri ispirati dai sofismi della filosofa americana Butler e fungono da efficace distrattore: l’attenzione dell’opinione pubblica non si deve focalizzare sulle storture del sistema economico finanziario.

Ecco la funzione degli utili idioti che però, paradossalmente, sperano che le diverse traiettorie del disagio si incontrino per deflagrare in un disordine caleidoscopico: con quale approdo, in vista di quale modello non lo sa nessuno. Lenin inorridirebbe.

La sinistra moderata si mantiene ambivalente, per un verso è isomorfica al main stream per l’altro ammicca alla radical left: inoffensive entrambe rispetto ai reali equilibri del potere economico. Prevale una narrazione manichea e rudimentale, le crisi nei nodi nevralgici del sistema internazionale non sono oggetto di un racconto razionale, ciascuno ha un nemico da additare orwellianamente al pubblico ludibrio. Provate a dire a un ProPal che al posto dello slogan Free Palestine from the river to the sea tanto varrebbe propugnare la scomparsa

di Israele e magari degli ebrei: vi beccate dei sionisti. Provate a dire a un ammiratore di Calenda o della Picierno che anche il mancato rispetto degli accordi di Minsk è all’origine della tragedia ucraina e che sulla vicenda di piazza Maidan ci sarebbe da riflettere: vi scatarrano in faccia l’accusa di filoputinismo.

Il rozzo estremismo che articola il discorso politico è la morte della politica stessa se è vero che essa è arte del possibile e non una pagina bianca su cui dare forma ai sogni, puerile illusione che anima i giorni di questa eterogenea compagnia di idealisti impolitici. Perché la politica, quella vera, conosce la materia aspra e densa di cui è fatta la realtà e come la Gianna di Rino Gaetano non crede in “canzoni o ufo”. È questo il primato cui dovrebbe ambire il mitico centro: non è tanto un luogo geografico in mezzo a un emiciclo quanto piuttosto un'attitudine mentale, che non ignora la fatica dell’analisi e conosce la gioia di trovare risposte e soluzioni parziali a problemi complessi.

Ho letto un recente articolo del sindaco di Udine Felice De Toni che – al di fuori dei tatticismi che segnano in questi giorni le manovre di avvicinamento del Centro (ma di avvicinamento a che cosa non si capisce bene, forse a se stesso?) – con molta concretezza indica tre linee guida per il Centro, ma per la Politica in quanto tale aggiungo io, che sono: Sicurezza e Solidarietà, Politica fiscale e sociale (la grande “abbandonata”: dalla sinistra e da quella destra che si pretende sociale ma facilmente cede alle lusinghe del liberismo duro alla Milei), Partecipazione civica diffusa (la rinascita democratica e la riformulazione aggiornata dei corpi intermedi e dei partiti non può essere operazione orchestrata da un vertice).

Abbiamo bisogno di disintossicare la mente e di spazi in cui sia nuovamente possibile pensare e dibattere liberamente senza pensieri unici, mitologie manichee o censure (il sacrario dell’antifascismo torinese, il Polo del ‘900, è stato di recente costretto ad annullare una conferenza sulla Russofobia dello storico prof. D’Orsi). Ci vuole realismo e responsabilità e non ci mancano i campioni dobbiamo tornare alle lezioni corrosive e spiazzanti di Machiavelli, allo sguardo acuto di Gobetti e a quello profondo di Bobbio, alla visione incredibilmente moderna di Sturzo.

Che si tratti di questioni interne o estere sarebbe bello vedere finalmente una classe politica capace di tenere insieme pensiero critico e senso realistico dei vincoli e delle alleanze: senza velleitarie fughe in avanti ma senza sudditanze e sempre rispettando la verità.

Quel rigore che caratterizzava la dialettica della storia leninista, al di là dei contenuti di un progetto politico lontano dalla nostra visione e definitivamente (dialetticamente!) superato, dovremmo farlo nostro.


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