
Due notizie in apparenza lontane raccontano, in realtà, la stessa storia: la Legge di bilancio che il governo ha presentato al Parlamento e il crollo della affluenza alle elezioni regionali. Due vicende che sembrano appartenere a mondi diversi, ma che si specchiano una nell’altra. Perché la Legge di bilancio è l’atto politico più importante di un governo, mentre il voto è il modo in cui i cittadini fanno sentire la propria voce. E oggi quella voce, sempre più spesso, è un silenzio assordante. Forse la notizia diffusa dall’Istat sull’aumento della pressione fiscale, passata dal 41,2 al 42,5% del Pil, ha indotto il governo a inserire nella manovra alcune misure presentate come alleggerimenti fiscali per il ceto medio. Quell’aumento, però, non deriva da un’imposta nuova, è l’effetto del cosiddetto fiscal drag: a causa dell’inflazione gli stipendi sono cresciuti solo sulla carta, ma hanno finito per essere tassati di più e così i lavoratori si ritrovano in tasca meno di prima. Per evitare questo paradosso, servirebbe rivedere l’intera struttura della progressività, che oggi è un labirinto di scaglioni, detrazioni e bonus che ne rendono l’effetto complessivo imprevedibile, a volte regressivo, e comunque lontano dallo spirito costituzionale dell’articolo 53. Servirebbe una riforma organica, capace di restituire trasparenza e fiducia al patto fiscale. Il governo, invece, ha scelto la più classica delle scorciatoie, quella di provare ad abbassare le tasse, anche se solamente al ceto medio. Ridurre la seconda aliquota Irpef dal 35 al 33% per i redditi tra 28 e 50mila euro. Una misura che riguarda circa 13,6 milioni di contribuenti, con un risparmio medio annuo di 200 euro. Il costo per lo Stato è di quasi 3 miliardi l’anno: non una tantum, ma un impegno permanente.
Di fronte a una spesa simile, la domanda da farsi dovrebbe essere: è davvero questo il modo migliore di impiegare 3 miliardi ogni anno? Lo Stato non è un bancomat a fondo perduto: ogni sconto deve avere una copertura. E se la copertura sono i tagli di spesa, il significato concreto è chiaro: meno fondi per sanità, istruzione, trasporti, sicurezza, enti locali. In altre parole, ticket sanitari più alti, liste d’attesa più lunghe, scuole meno finanziate, treni più vecchi e più cari. Introdurre un taglio parziale dell’Irpef può far piacere per qualche mese, ma è come spostare denaro da una tasca all’altra dello stesso pantalone. Intanto, l’altra Italia – quella che non arriva a fine mese – resta esclusa. Secondo l’ultimo rapporto Istat, nel 2024 vivono in povertà assoluta 5,7 milioni di persone, quasi il 10% della popolazione. Le famiglie in povertà sono 2,2 milioni, con oltre 1,3 milioni di minori che non hanno accesso garantito a cibo, riscaldamento, scuola o cure mediche. Nel Mezzogiorno la situazione è più drammatica, ma la povertà cresce anche al Nord, per lavoratori precari e famiglie con figli. In un quadro simile, destinare 3 miliardi a un mini-taglio fiscale per chi già guadagna tra 28 e 50mila euro significa di fatto aver rovesciato la piramide delle priorità.
Il paradosso è evidente: si parla di “aiutare il ceto medio”, ma si rischia di allargare il fossato tra chi fatica davvero e chi è ancora dentro una fascia più protetta. L’alternativa? Garantire pasti gratuiti a scuola per i bambini delle famiglie più fragili, ridurre i ticket sanitari, restituendo respiro a milioni di famiglie e anziani. Si potrebbe finanziare un piano straordinario di edilizia popolare, garantire a tutti e ogni giorno la distribuzione dell’acqua o aumentare le risorse per il Reddito di inclusione, ancora insufficiente a coprire il fabbisogno reale. Si potrebbero rafforzare le politiche attive del lavoro e i corsi di formazione. C’è poi un altro aspetto che appare ignorato: il ceto medio non è uguale dappertutto. Un reddito di 35 o 40mila euro lordi ha un potere d’acquisto molto diverso a Milano, dove prendere in affitto un bilocale costa ben di più che a Foggia o ad Agrigento, dove i prezzi sono più bassi, ma i servizi pubblici spesso carenti. Un euro risparmiato in tasse può contare maggiormente dove mancano infrastrutture, ma vale meno dove la vita è più cara. Una misura uguale per tutti ignora queste differenze e rischia di essere ingiusto proprio nella sua apparente equità. Ma non è tutto, perché la partecipazione, la discussione, il senso del voto popolare così in calo dipende dalla consapevolezza delle alternative. Infatti, con quei 3 miliardi – o con gli altri dispersi nella legge di bilancio che non avranno alcun impatto sulla crescita economica del Paese – si potrebbe decidere di cambiare il volto di un intero settore del Paese.
Ad esempio, potremmo finalmente aumentare gli stipendi dei docenti italiani, per portarli in linea con quelli degli altri paesi d’Europa per investire davvero sul nostro futuro, e investire in scuole sicure, moderne, inclusive. Oppure potremmo sostenere l’innovazione e la transizione industriale, che oggi ci vedono in grave in ritardo. Stellantis ha prodotto nei primi 9 mesi del 2025 oltre il 30% di auto in meno in Italia, mentre le auto elettriche cinesi dominano ormai il mercato globale. Davvero vogliamo spendere tre miliardi per aumentare di qualche decina di euro al mese la spesa individuale, invece di investirli in scuola, ricerca, industria, futuro? Non sfugge la difficoltà connessa alle diverse scelte, che ha spinto molti governi anche del passato in una direzione che ha portato il nostro paese alle attuali difficoltà. Ma bisognerebbe smettere di prendere le strade più facili e avere il coraggio di quelle giuste. È più facile tagliare un punto di Irpef e dare pochi euro in tasca a tutti che ristrutturare 360mila classi scolastiche. È più facile inventare un nuovo bonus che costruire un piano industriale per la crescita sostenibile. Ma la strada breve, la veduta corta non porta lontano. E la politica, se vuole tornare a essere credibile, deve ritrovare il coraggio della fatica, la pazienza del risultato che dura nel tempo.
Questa Legge di bilancio poteva scegliere se tagliare un po’ di tasse o costruire un Paese che investe su sé stesso. E finché la politica non dirà con chiarezza “questo sì, questo no”, i cittadini continueranno a pensare che tutto si equivalga, e che nulla cambi davvero. Ecco perché la Legge di bilancio e l’astensione non sono due temi separati, ma due capitoli della stessa storia: quando la politica rinuncia a ridurre le disuguaglianze, a costruire un progresso condiviso, a prendersi la responsabilità del futuro, a fare scelte chiare e coraggiose, anche i cittadini smettono di sentirsi parte del progetto. Del resto, se la politica non serve a ridurre le diseguaglianze mi domando a cosa serva. E forse se lo stanno domandando quei milioni di donne e uomini che hanno smesso di votare. Solo rendendo visibili le scelte tornerà ad avere senso dividersi tra visioni politiche, e solo allora i cittadini potranno giudicare, discutere, votare sapendo che ogni euro speso è un atto di fiducia e di responsabilità. La Legge di bilancio e l’astensione sono quindi la stessa storia: la storia di un Paese che deve decidere, insieme, che cosa vuole diventare.
(Tratto da www.avvenire.it)
Di fronte a una spesa simile, la domanda da farsi dovrebbe essere: è davvero questo il modo migliore di impiegare 3 miliardi ogni anno? Lo Stato non è un bancomat a fondo perduto: ogni sconto deve avere una copertura. E se la copertura sono i tagli di spesa, il significato concreto è chiaro: meno fondi per sanità, istruzione, trasporti, sicurezza, enti locali. In altre parole, ticket sanitari più alti, liste d’attesa più lunghe, scuole meno finanziate, treni più vecchi e più cari. Introdurre un taglio parziale dell’Irpef può far piacere per qualche mese, ma è come spostare denaro da una tasca all’altra dello stesso pantalone. Intanto, l’altra Italia – quella che non arriva a fine mese – resta esclusa. Secondo l’ultimo rapporto Istat, nel 2024 vivono in povertà assoluta 5,7 milioni di persone, quasi il 10% della popolazione. Le famiglie in povertà sono 2,2 milioni, con oltre 1,3 milioni di minori che non hanno accesso garantito a cibo, riscaldamento, scuola o cure mediche. Nel Mezzogiorno la situazione è più drammatica, ma la povertà cresce anche al Nord, per lavoratori precari e famiglie con figli. In un quadro simile, destinare 3 miliardi a un mini-taglio fiscale per chi già guadagna tra 28 e 50mila euro significa di fatto aver rovesciato la piramide delle priorità.
Il paradosso è evidente: si parla di “aiutare il ceto medio”, ma si rischia di allargare il fossato tra chi fatica davvero e chi è ancora dentro una fascia più protetta. L’alternativa? Garantire pasti gratuiti a scuola per i bambini delle famiglie più fragili, ridurre i ticket sanitari, restituendo respiro a milioni di famiglie e anziani. Si potrebbe finanziare un piano straordinario di edilizia popolare, garantire a tutti e ogni giorno la distribuzione dell’acqua o aumentare le risorse per il Reddito di inclusione, ancora insufficiente a coprire il fabbisogno reale. Si potrebbero rafforzare le politiche attive del lavoro e i corsi di formazione. C’è poi un altro aspetto che appare ignorato: il ceto medio non è uguale dappertutto. Un reddito di 35 o 40mila euro lordi ha un potere d’acquisto molto diverso a Milano, dove prendere in affitto un bilocale costa ben di più che a Foggia o ad Agrigento, dove i prezzi sono più bassi, ma i servizi pubblici spesso carenti. Un euro risparmiato in tasse può contare maggiormente dove mancano infrastrutture, ma vale meno dove la vita è più cara. Una misura uguale per tutti ignora queste differenze e rischia di essere ingiusto proprio nella sua apparente equità. Ma non è tutto, perché la partecipazione, la discussione, il senso del voto popolare così in calo dipende dalla consapevolezza delle alternative. Infatti, con quei 3 miliardi – o con gli altri dispersi nella legge di bilancio che non avranno alcun impatto sulla crescita economica del Paese – si potrebbe decidere di cambiare il volto di un intero settore del Paese.
Ad esempio, potremmo finalmente aumentare gli stipendi dei docenti italiani, per portarli in linea con quelli degli altri paesi d’Europa per investire davvero sul nostro futuro, e investire in scuole sicure, moderne, inclusive. Oppure potremmo sostenere l’innovazione e la transizione industriale, che oggi ci vedono in grave in ritardo. Stellantis ha prodotto nei primi 9 mesi del 2025 oltre il 30% di auto in meno in Italia, mentre le auto elettriche cinesi dominano ormai il mercato globale. Davvero vogliamo spendere tre miliardi per aumentare di qualche decina di euro al mese la spesa individuale, invece di investirli in scuola, ricerca, industria, futuro? Non sfugge la difficoltà connessa alle diverse scelte, che ha spinto molti governi anche del passato in una direzione che ha portato il nostro paese alle attuali difficoltà. Ma bisognerebbe smettere di prendere le strade più facili e avere il coraggio di quelle giuste. È più facile tagliare un punto di Irpef e dare pochi euro in tasca a tutti che ristrutturare 360mila classi scolastiche. È più facile inventare un nuovo bonus che costruire un piano industriale per la crescita sostenibile. Ma la strada breve, la veduta corta non porta lontano. E la politica, se vuole tornare a essere credibile, deve ritrovare il coraggio della fatica, la pazienza del risultato che dura nel tempo.
Questa Legge di bilancio poteva scegliere se tagliare un po’ di tasse o costruire un Paese che investe su sé stesso. E finché la politica non dirà con chiarezza “questo sì, questo no”, i cittadini continueranno a pensare che tutto si equivalga, e che nulla cambi davvero. Ecco perché la Legge di bilancio e l’astensione non sono due temi separati, ma due capitoli della stessa storia: quando la politica rinuncia a ridurre le disuguaglianze, a costruire un progresso condiviso, a prendersi la responsabilità del futuro, a fare scelte chiare e coraggiose, anche i cittadini smettono di sentirsi parte del progetto. Del resto, se la politica non serve a ridurre le diseguaglianze mi domando a cosa serva. E forse se lo stanno domandando quei milioni di donne e uomini che hanno smesso di votare. Solo rendendo visibili le scelte tornerà ad avere senso dividersi tra visioni politiche, e solo allora i cittadini potranno giudicare, discutere, votare sapendo che ogni euro speso è un atto di fiducia e di responsabilità. La Legge di bilancio e l’astensione sono quindi la stessa storia: la storia di un Paese che deve decidere, insieme, che cosa vuole diventare.
(Tratto da www.avvenire.it)
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