Bentornati!



Aldo Novellini    14 Ottobre 2025       0

Bentornati! E’ davvero quello che si può dire a chi, come il gruppo dei venti ostaggi israeliani, torna in libertà dopo due anni di prigionia. Un dramma assurdo che ne ha prodotto un altro ancora più sconvolgente con 60mila morti palestinesi e Gaza rasa al suolo dall’esercito israeliano.

Oggi è un giorno di festa non solo per Israele ma per tutto il mondo civile, perché si pone fine ad una tragedia che ha colpito due popoli. Hamas su cui ricade tutta la responsabilità dell’orrore del 7 ottobre e della successiva carneficina di Gaza, imprigionando gli ostaggi si è macchiata di un ulteriore crimine contro l’umanità. Un dato di fatto che neppure la feroce e sconsiderata reazione di Israele può cancellare.

In ogni modo adesso è il momento di festeggiare la ritrovata libertà di queste persone. Tornano a casa e finalmente possono riabbracciare i propri cari. Al tempo stesso il pensiero va agli ostaggi morti durante la prigionia e alle loro famiglie colpite nel modo più doloroso.

Forse questa liberazione sarebbe anche potuto avvenire prima se il governo di estrema destra che guida Israele non avesse puntato a distruggere Gaza più che ad individuare la soluzione per far tornare a casa i prigionieri. O se Hamas non avesse inteso percorrere sino in fondo il tunnel del proprio fanatismo.

Frattanto, nelle stesse ore in cui a Tel Aviv si accoglievano i prigionieri in arrivo da Gaza, in Egitto, a Sharm el-Sheikh, veniva firmata – presente anche la nostra premier Giorgia Meloni - l'intesa sul piano del presidente americano Donald Trump. Un accordo storico, anche per il numero di Stati coinvolti, che - almeno si spera – pone le basi per un percorso di pacificazione dell'intera Regione.

Il difficile comincia ora. Il rientro degli ostaggi e la parallela liberazione di migliaia di palestinesi rinchiusi nelle carceri israeliane è solo il punto di partenza. Tra i fuoriusciti dalle prigioni di Israele non c'è peraltro Marwan Barghuti, considerato il Mandela palestinese, forse il solo capace di tenere insieme radicali e moderati. E proprio per questo temuto da Tel Aviv come possibile federatore della futura Palestina.

Il piano Trump in ventuno punti delinea uno scenario di larga massima, la cui realizzazione richiederà un forte impegno da tutte le parti in causa. A lungo termine si tratta di avviare una Road map per giungere ai due Stati. Sola prospettiva razionale, a meno di non immaginare un unico Stato israelo-palestinese con tutto quello che questo comporta per la natura ebraica di Israele.

Ma tutto questo appartiene al futuro. Ad un futuro lontano e denso di incognite. Per ora ci sono cose più concrete e immediate. Prima di tutto si tratta di far giungere a Gaza alimenti e medicinali per alleviare le sofferenze della popolazione: un’emergenza umanitaria su larga scala che richiede un intervento il più rapido possibile.

Passo successivo la ricostruzione della Striscia, oggi ridotta ad un cumulo di macerie. Questa fase, coordinata dal comitato tecnico che fa capo all'ex premier britannico Tony Blair, si intreccia con l'amministrazione del territorio e gli scontri di queste ore tra le diverse fazioni palestinesi non depongono certo a favore di una transizione senza scosse. Al tempo stesso è indispensabile che nel processo di normalizzazione di Gaza vi sia spazio per l’Autorità nazionale palestinese, il cui indebolimento è stato perseguito da Israele favorendo Hamas nell'illusione di confinarla nel solo ambito religioso.

Sarà un percorso accidentato. Basterà il minimo errore per farlo deragliare. Eppure, è da qui che occorre ricominciare. Bene il riconoscimento internazionale dello Stato palestinese – cui speriamo si aggiunga quanto prima il via libera dell’Italia – ma si tratta per lo più di un gesto simbolico. Di grande significato, certamente, ma per ora si immagina un contenitore che poi andrà riempito di contenuti. E qui servirebbe un fattivo contributo di Israele. Come ai tempi di Yitzhak Rabin e da allora sempre mancato. Con i risultati che si sono visti.


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