Solo la coscienza democratica potrà salvare Israele



Gianni Bottalico    31 Luglio 2025       0

Il 22 luglio 2025 il “Corriere della Sera” ha rilanciato un articolo di straordinaria forza morale pubblicato originariamente sul quotidiano israeliano “Yedioth Ahronot”. L’autore è Etgar Keret, scrittore tra le voci più limpide e coscienti della società civile israeliana. Il titolo scelto dal Corriere riassume con crudezza il cuore della questione: Siamo in un abisso in cui la morte dei palestinesi è diventata routine.

Le parole di Keret – asciutte, dolorose, senza odio – non sono solo una denuncia. Sono una chiamata alla responsabilità. Alla responsabilità di chi guarda e tace. Di chi si abitua. Di chi riduce la morte a rumore di fondo.

Questa riflessione nasce da lì. Da quelle righe che obbligano a guardare. A nominare ciò che accade. A rompere il silenzio. Perché il punto oggi non è più solo l’ingiustizia dell’occupazione o l’orrore della guerra. È il salto ulteriore: la cancellazione di Gaza come realtà politica, umana, storica.

Questa realtà non è una conseguenza inevitabile. È l’effetto diretto di un progetto politico.

Il governo Netanyahu – sostenuto da forze ultra-religiose e nazionaliste che hanno ormai occupato le istituzioni – non si limita più a prolungare l’occupazione dei territori palestinesi. Sta portando avanti, giorno dopo giorno, una politica esplicita di distruzione sistematica di Gaza, di annientamento civile e infrastrutturale, di deportazione pianificata. Lo dicono i suoi ministri, i suoi generali, i suoi portavoce.

Non è più guerra, è cancellazione.

E mentre tutto questo accade, le istituzioni internazionali – Nazioni Unite, grandi potenze democratiche, Unione Europea – restano paralizzate. Quando non ambigue, sono reticenti. Quando non retoriche, sono complici. Il diritto internazionale è umiliato, il linguaggio diplomatico è usato per coprire la viltà. Si chiama “guerra”, ma è un massacro. Si chiama “diritto alla sicurezza”, ma è sradicamento sistematico.

In Europa, alcune voci si sono levate. Il ministro italiano degli Esteri Antonio Tajani ha dichiarato apertamente che Israele “deve fermarsi” e ha chiesto un cessate il fuoco immediato. Anche altri governi hanno espresso disagio crescente. Ma queste dichiarazioni, pur importanti, restano isolate e prive di un peso geopolitico reale. Non producono conseguenze. Non generano iniziative. Non cambiano la realtà sul terreno.

La verità è che l’Unione Europea non ha oggi la forza né la coesione per agire da soggetto politico autonomo. Non incide nei negoziati, non guida processi diplomatici, non è in grado di contenere la deriva distruttiva di un alleato come Israele. E questo è il segno di una debolezza strutturale, che non nasce solo da questa guerra, ma che questa guerra evidenzia in modo clamoroso.

L’Europa continua a difendere a parole i “valori fondamentali”, ma rinuncia ogni giorno a esercitarli nella storia. Rinuncia alla pace come progetto. Rinuncia al diritto internazionale come leva. Rinuncia alla propria voce. E così diventa irrilevante proprio quando avrebbe il dovere di contare.

In questo deserto di responsabilità, l’unica voce che può ancora fermare questa deriva è quella della democrazia israeliana stessa – se saprà rialzarsi – e quella delle comunità ebraiche nel mondo, se sapranno parlare con forza, senza ambiguità, senza più protezioni ideologiche o identitarie.

Ma dobbiamo essere onesti: oggi questo sussulto collettivo non si è ancora prodotto. Le voci critiche esistono – e sono importanti – ma restano isolate, minoritarie, spesso senza ascolto. In Israele, intellettuali come Etgar Keret, David Grossman, Gideon Levy continuano a denunciare la deriva, ma non riescono a generare un’opposizione di massa. Nelle comunità ebraiche della diaspora, alcune realtà coraggiose – soprattutto negli Stati Uniti e in Europa – iniziano a dire “non in nostro nome”, ma sono ancora voci controcorrente, non sostenute dalle rappresentanze ufficiali.

È dunque ancora insufficiente la mobilitazione del mondo ebraico, civile e democratico. Non per mancanza di coscienza, ma per paura, solitudine, pressione sociale. Tuttavia, proprio per questo, è ancora più urgente e necessario che la nostra voce civile, europea, italiana, si alzi con decisione: per accompagnare chi resiste, per rompere il silenzio, per costruire una forza morale capace di farsi ascoltare anche dentro Israele e nelle sue comunità globali.

E qui emerge una convinzione tragica, ma inevitabile: oggi siamo nelle mani del popolo israeliano. Perché se è vero che la comunità internazionale è paralizzata – con le Nazioni Unite bloccate, l’Europa divisa e irrilevante, e gli Stati Uniti ancora schierati a fianco del governo Netanyahu – allora l’unica possibilità reale per fermare la distruzione in corso passa dalla caduta di questo governo.

E questa caduta può avvenire solo dall’interno: attraverso la coscienza democratica di Israele. Tocca ai cittadini israeliani, a chi crede nello Stato di diritto e nella coesistenza, trovare la forza di dire basta.

Non è giusto che tutto gravi sulle loro spalle. Ma è reale. È una verità politica prima ancora che morale: se non ci sarà una rottura interna, nulla potrà cambiare davvero. E la cancellazione di Gaza, con il suo carico di orrore e disumanità, continuerà senza ostacoli.

La verità è semplice e dura: questo governo non può più essere un interlocutore. Deve essere sfiduciato.

Deve essere sfiduciato dalla coscienza democratica israeliana, da chi crede ancora nello Stato di diritto, nella dignità umana, nella coesistenza come destino possibile.

Un governo che ha legato la propria sopravvivenza politica alla guerra, alla distruzione, alla cancellazione dell’altro, non può più essere compatibile con la democrazia. Chi vuole salvare Israele come Stato democratico deve avere il coraggio di dirlo: Netanyahu e questa coalizione devono andare a casa.

La priorità non è un generico “processo di pace”. La priorità è fermare subito questa guerra. Senza se e senza ma. Un cessate il fuoco immediato. La fine dei bombardamenti. La protezione dei civili. Il ritorno al primato del diritto.

Il trauma del 7 ottobre, con il suo carico di dolore, non può essere brandito come giustificazione permanente di ogni crimine. La sicurezza di Israele non può basarsi sull’eliminazione del popolo palestinese.

Non si costruisce futuro con le ruspe, con le bombe, con la fame imposta ai bambini. Non si difende uno Stato cancellandone un altro.

La storia di Israele ha conosciuto grandi voci morali: da Hannah Arendt ad Amos Oz, da Yeshayahu Leibowitz a Gideon Levy. Voci che hanno saputo dire “no” in nome dell’etica ebraica, della giustizia universale, della coerenza tra memoria e dignità.

Oggi serve un sussulto. Serve che il mondo ebraico, quello democratico, quello culturale e civile, dica con limpidezza: non in nostro nome.

Noi, società civile italiana, dobbiamo continuare a far sentire la nostra voce, a spiegare le ragioni delle nostre posizioni di pace così come si è fatto in questi mesi quando tante voci si sono già levate con coraggio: nel mondo dell’associazionismo, della cultura, delle religioni, del volontariato, delle istituzioni democratiche. Questo impegno va rafforzato e moltiplicato.

La nostra voce conta, se è collettiva, limpida e perseverante. Non possiamo dire “non sapevamo”. Non possiamo dire “non ci riguardava”.

È tempo di scegliere da che parte stare. Non per ideologia, ma per umanità.

(Tratto da www.agendadomani.it)


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