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Università, un dossier aperto
 
di Rodolfo Buat
 

A metà febbraio, poco prima del voto per il rinnovo del Parlamento, la Conferenza dei Rettori delle Università italiane ha inviato una lettera aperta al futuro Presidente del Consiglio dei Ministri con una proposta in sei punti per il rilancio delle Università.
In sintesi la proposta prevede di defiscalizzare tasse e contributi universitari, la copertura totale delle borse di studio erogate da Regioni e Atenei per garantire la formazione e la mobilità studentesca, la defiscalizzazione degli investimenti delle imprese in ricerca per favorire la competizione nei settori ad alta intensità tecnologica, l’incremento del finanziamento di incarichi di ricercatore per impedire l’espulsione dei giovani migliori dal Paese, la restituzione dell’autonomia responsabile alle Università e l’incremento dei fondi loro destinati portandoli all’1% del PIL.
Si tratta di proposte da riprendere e rilanciare ora che il nuovo Governo è nato.
L’investimento in capitale intellettuale è essenziale per costruire un futuro e la posizione dei laureati è più vantaggiosa di coloro che non lo sono. Secondo alcuni studi, fra il 2011 e il 2010 la disoccupazione, benché cresca a un anno dalla laurea dal 19% al 23% per i corsi triennali e dal 20% al 21% per i corsi specialistici, dopo i primi cinque anni cala comunque al 6%, un valore fisiologico.
E tuttavia il mondo delle università rimane una nicchia di sistema. La percentuale degli occupati con laurea o titolo di studio superiore è in Italia del 17,6% contro una media europea del 29,1%: più di undici punti di differenza! La percentuale di occupati con la scuola dell’obbligo è del 35,8%, contro una media europea del 22%. Più ridotta invece la forbice per gli occupati con diploma superiore: 46,6% contro il 48,9% europeo. Qualche generazione perduta? Certamente sì. Ed è un’accusa pesante per tutto il sistema scolastico.
La riforma che porta il nome del Ministro Berlinguer, quella che ha introdotto per la gran parte dei corsi di laurea lo sdoppiamento fra corsi triennali e corsi magistrali, non sembra aver mantenuto la promessa di incrementare l’accesso alle università, il numero dei laureati e le risorse in ricerca.
Gli studenti iscritti sono stati poco più di 280 mila nell’anno accademico 2011-2012. Erano quasi 374 mila nel 1992-1993. Il numero di ricercatori rispetto alla forza lavoro è del 3,8% contro la media europea del 6,3%. I fondi destinati alla ricerca sono in profonda contrazione: -13% negli ultimi anni.
Ma più in generale la riforma ha ingenerato grande disorientamento e confusione nei ragazzi, nelle famiglie e nelle imprese. Ha abbassato il livello di autorevolezza degli Atenei. In molti casi ha caricato sulle famiglie i costi di un anno di studi in più (cinque anni invece di quattro per numerosi corsi di studio). Infatti raramente la conclusione del triennio è appagante per i neo-laureati sotto il profilo occupazionale e delle opportunità di crescita sociale. Le stesse imprese diffidano di una conclusione anticipata del ciclo di studi, salvo i casi particolari delle specializzazioni tecniche, più vicine a diplomi di secondo livello che a lauree brevi e impropriamente forse associate a un titolo accademico.
I presupposti della riforma non sembrano oggi realizzati, né nell’incremento del numero dei laureati, né nel miglioramento della qualità degli occupati. In compenso è aumentato il “costo” del diritto allo studio sempre più riservato a pochi.
In questo quadro è necessario che i Rettori aprano una seria riflessione in tema di didattica, perché è proprio la cattiva didattica alla radice di un sistema formativo perdente. Secondo alcuni osservatori, la stessa Università si è trasformata oggi in una giungla di specializzazioni che tutte insieme non sono in grado di costruire un sapere. Essa appare chiusa nella difesa di un sistema autoreferenziale, più preoccupata dell’organizzazione e delle carriere interne che della necessità di aprirsi alle esigenze di apprendimento dei giovani e di relazione degli Atenei con il mondo economico e sociale.
Rivendicare più risorse per la ricerca e l’Università è certamente corretto. Ma gli stessi Rettori dovrebbero però anche chiedersi se la riforma che ha creato due livelli di laurea non abbia di fatto aumentato i costi del sistema universitario con il proliferare di corsi non sempre con caratteristiche, per così dire, accademiche e non sempre determinanti nell’aumentare il capitale intellettuale del Paese. E d’altra parte le istituzioni di Governo dovrebbero chiedersi se non sia stata introdotta un po’ troppa confusione fra i diversi livelli di istruzione e di diversi ambiti di formazione, con il riflesso sulle competenze di Provveditorati, Regioni e Atenei.
Il dossier “Università” è quindi ancora aperto. Andrebbe letto però con occhi poco ideologici e per nulla corporativi. Forse l’abolizione del valore legale del titolo di studio aiuterebbe una riflessione più concreta e favorirebbe la nuova cultura di cui abbiamo bisogno.


Mario Chiesa - 2013-05-11
Giuste le accuse alla classe accademica, potrei aggiungerne altre a cominciare dal modo in cui ha tradotto in pratica la riforma Berlinguer, che poteva essere realizzata diversamente. Ma credo sia necessario guardare il contesto, quello di un paese che non ha interesse per il progettare, per tentare di intravedere il futuro: questo è scuola e università. Ne hai la prova proprio qui: hai suscitato finora un unico intervento: è quel che è capitato, qualche settimana fa, alla proposta di Baviera; scattano invece pronte e folte le risposte quando si ricicla il blabla nazionale, o qualche questioncella, preferibilmente interna la pd. E se ci guardiamo intorno, un altro fatto emblematico: la scorsa campagna elettorale è ruotata tutta intorno ad un unico argomento, l’IMU; una campagna rivolta cioè a stuzzicare il tornaconto immediato, neanche visto nell’insieme della tassazione. Una iniziativa che ha qualche riflesso economico, forse, sull’edilizia, con la creazione di posti di lavoro per romeni e marocchini. I giovani migliori che l’università, nonostante tutto, riesce a preparare andranno all’estero.
Marco Verga - 2013-05-03
Da un'analisi che è stata condotta dall'AIDP (associazione italiana per la direzione del personale) la quasi totalità delle lauree triennali è considereta non di interesse per le imprese. I Laureati dopo il triennio vengono classificati come dei diplomati o poco più. A questo, come dice bene Buat, si è aggiuta una specializzazione a dir poco eccessiva, coniugata in altri casi da corsi che mettono insieme materie così disparate da non far capire bene in che cosa una persona si sia laureata e soprattutto quale lavoro potrebbe fare. Proprio in un momento di crisi come questo sarebbe utile che il Governo, insieme ai Rettori, riaprisse il dossier università per dare nuova vitalità alla didattica e un nuovo ruolo alla ricerca scientifica, da molto tempo dimenticata nel nostro Paese.