Nei giorni scorsi l’attenzione è stata tutta rivolta alla crisi politico-istituzionale, e in particolare a quella del PD. Lascio volentieri ad altri affrontare l’argomento e preferisco soffermarmi sulla crisi economica, la più grave dopo quella del 1929.
Le ricette in circolazione sono molte, ma schematicamente il confronto è fra “rigoristi” e “possibilisti” in tema di spesa pubblica. In materia, il governo nordamericano invita gli europei ad avere più coraggio, a essere più larghi di manica per favorire la ripresa e la crescita; mentre i tedeschi non accettano lezioni da tale pulpito, poiché guardano con sospetto al modello angloamericano di capitalismo iper-finanziarizzato, promotore di un consumismo alimentato dal credito facile. In Europa, la contrapposizione di strategie economiche divide il Nord del continente dal Sud mediterraneo, mentre all’interno di ciascun Paese si riscontrano divergenze tra le differenti forze politiche. Per il governo tedesco e per i tecnocrati europei, tutti rigoristi in tema di spesa pubblica, l’economia di un Paese è equivalente a un bilancio domestico: vale per tutti la considerazione che non si deve vivere al di sopra dei propri mezzi.
Ma, ci dicono i keynesiani (d’oltre Atlantico ed europei) che ciò che vale per le famiglie non vale per gli Stati, perché questi possono battere moneta e indebitarsi quando la situazione lo richiede. Sarebbe pertanto sbagliato attuare tagli di spesa pubblica nei periodi di recessione. Quando crollano consumi e investimenti privati, è compito dello Stato spendere in deficit per ripristinare la domanda interna fino a quando i privati non siano in grado di riprendere la loro attività e rilanciare la crescita.
Mi chiedo tuttavia, da non esperto di economia, se non ci sia una questione che forse dovrebbe essere preliminarmente affrontata. Qual è la natura dell’attuale crisi? è pur sempre di natura ciclica, e pertanto superabile con strumenti già sperimentati, oppure c’è dell’altro? C’è chi ritiene che ad essa contribuiscano gli sviluppi e la diffusione delle tecnologie sostitutive del lavoro, l’emergere di grandi Paesi fino a ieri esclusi dall’accesso alle materie prime e ai mercati, il progressivo esaurimento delle risorse non rinnovabili. Si tratterebbe quindi di una crisi di fronte alla quale le esperienze del passato non forniscono indicazioni utili.
Jeffrey Sachs, consulente di Ban Ki-moon, qualche tempo fa ebbe a dire che le cause immediate dell’attuale disorientamento del mondo economico certamente sono legate all’andamento dei mercati finanziari, ma a determinarlo contribuisce qualcosa di più profondo: stanno emergendo i segni della carenza di risorse del pianeta, mentre la debolezza della ripresa negli USA e in Europa è legata anche al fatto che mancano chiari modelli di sviluppo sostenibile. Ancora in un passato recente (precedente lo scoppio della crisi economica), c’era chi invocava la necessità di dare vita a un’economia nuova, capace di rispondere con più equilibrio alle esigenze degli esseri umani e al contempo più rispettosa dell’ambiente: una necessità imposta dallo sviluppo sostenibile, indispensabile per la salvezza del pianeta.
Oggi, queste voci si sono fatte rare: è difficile trovare cenni a queste problematiche. Probabilmente, in presenza delle pesanti conseguenze di ordine sociale prodotte dalla grave crisi economica, i più ritengono che preoccuparsi dell’ambiente, delle modificazioni climatiche e dell’esaurimento delle risorse sia un lusso non consentito. Se mai se ne parlerà quando la crisi (ritenuta ciclica) sarà superata.
Intanto, continua a subire anticipazioni la data del “giorno del sorpasso”, il cosiddetto Overshoot day, quello in cui sono già state consumate tutte le risorse rinnovabili producibili in un anno ed emesse tutte le scorie annualmente metabolizzabili dalla Terra. L’Overshoot day è stato il 7 dicembre nel 1990, il 1° novembre nel 2000, il 20 ottobre nel 2005, il 27 settembre nel 2011 e il 22 agosto nel 201. È probabile che questa tendenza si mantenga anche in presenza della recessione in Europa e della frenata della crescita dei Paesi emergenti. Le stime degli esperti ci dicono che, se non si inverte questa tendenza, per sostenere i consumi nel 2050 avremo bisogno dei frutti di un secondo ipotetico pianeta, oltre a quello in cui viviamo. In pratica, come già oggi accade, intaccheremo sempre più il capitale Terra. E tuttavia la cosa non sembra destare l’interesse di politici ed economisti.
Cambiare radicalmente la rotta fino a oggi seguita dalla società industriale, fondata sull’attesa di una crescita materiale illimitata e perenne, comporterebbe sicuramente enormi difficoltà e pesanti costi sociali. Infatti l’ipotesi che il passaggio verso un’economia stazionaria possa realizzarsi in modo “felice”, come prospetta Serge Latouche, solleva perplessità anche fra quanti criticano una crescita economica (in termini di PIL) troppo spesso fine a se stessa. Questo fatto dovrebbe essere tenuto in considerazione da tutti, “grillini” compresi.
E tuttavia le nuove condizioni in cui il mondo si trova a vivere richiedono una ridefinizione – sia pure graduale – delle strutture economiche e produttive, e impongono stili di vita più parchi, ai quali bisogna preparare la pubblica opinione. Invece, da parte di tutti i protagonisti della politica, si alimentano in essa attese che non possono essere soddisfatte, e così nella gente si generano frustrazione e rabbia. Dilazionare il cambiamento comporterà solo un aggravio dei costi economici e della sofferenza sociale. |