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Come si elegge un Presidente
 
di Aldo Novellini
 

L'elezione del Capo dello Stato segue logiche diverse a seconda del sistema politico. Nei sistemi presidenziali, ove vige l'elezione a suffragio universale, prevale chi meglio riesce ad interpretare il momento politico in atto, ponendosi alla guida di un progetto di cui i cittadini condividono in larga parte l'attuazione. Per rendersene conto basta guardare cosa accade in Francia o negli Stati Uniti, le più importanti democrazie presidenzialiste.
Osservando da vicino le vicende presidenziali francesi ed americane si nota che sono approdati all'Eliseo e alla Casa Bianca le personalità via via emergenti nelle diverse fasi politiche. Qualcosa che va ben al di là del semplice consenso ad un programma elettorale ma che tocca la capacità di un certo leader di incarnare il sentimento profondo della cosiddetta pancia del Paese, L'apertura di una nuova fase storica più ancora che politica.
Oltralpe cominciò De Gaulle che però era un fuori quota, avendo salvato la nazione due volte. Poi vi fu la continuità gollista con Pompidou, il desiderio di modernità con Giscard, la volontà di cambiamento con Mitterrand, primo presidente di sinistra. Con Chirac prevalse il richiamo al gollismo; Sarkozy alimentò il sogno di una destra liberale; Hollande nel segno infine di una ritrovata aspirazione all'equità sociale. Certo, è accaduto che sullo scacchiere politico vi fossero uomini politici di valore anche più grande di coloro che sono saliti all'Eliseo ma forse incapaci di toccare le corde dell'elettorato. I casi più rimarchevoli furono senza dubbio Barre e Chaban nel centro-destra e Rocard e Delors a sinistra. Il fatto è che (Monti docet) a volte la competenza da sola non basta ad accendere la passione nei propri concittadini.
Una situazione analoga a quella francese la si ritrova in America. Dalla “Nuova frontiera” di Kennedy alla “Grande società” di Johnson; dalla riscossa moderata di Nixon al vento riformatore di Carter; dal ritorno della vecchia America con Reagan, sopravvissuta in tinte più grigie con Bush padre, sino al ritorno democratico con Clinton; dalla sfida della destra neo-con di Bush figlio al sogno multirazziale di Obama. Ad esser tagliati fuori dalla Casa Bianca qualche personaggio di spicco come i repubblicani Rockefeller e Mc Cain o i democratici Humphrey e Gore, quest' ultimo beffato per soli 500 voti in Florida dopo aver prevalso nel voto popolare nazionale. Uomini politici di valore ma forse privi di quel qualcosa di più che serve nell'elezione diretta, quando al voto vanno milioni di persone ciascuna con i propri sogni e le proprie aspirazioni.
Tutt'altra musica invece nelle democrazie parlamentari. Qui il presidente viene eletto dal Parlamento e dunque più che un protagonista della politica attiva con un progetto da realizzare si cerca un personaggio super partes, un arbitro nell'intenzione di farne magari un semplice notaio. Emblematico ciò che avviene in Germania ove per la presidenza mai si è pensato a leader come Brandt, Schimdt o Kohl ma piuttosto a figure di secondo piano della SPD o della CDU, in grado di garantire una rassicurante neutralità.
In Italia è un po' la stessa cosa in quanto i grandi leader politici da Fanfani a Moro, da Nenni a La Malfa mai riuscirono ad essere seriamente competitivi per il Quirinale. Al Colle poi è difficile giungervi se si è stati premier. Uniche eccezioni Segni, Leone e Ciampi. I primi due però guidarono governi di transizione, essendo in realtà figure al di sopra della mischia. Il terzo, ex governatore della Banca d'Italia, era un gran commis dello Stato alla politica in semplice prestito. Più facilmente si giunge al Quirinale transitando dalla presidenza di Camera o Senato. Dopo un'esperienza sul più alto scranno di Montecitorio vi approdarono Gronchi, Pertini, Scalfaro e Napolitano; da quello di Palazzo Madama vi giunse Cossiga.
Memori dunque di cosa è avvenuto in altre occasioni, cosa dobbiamo attenderci per la prossima elezione? Volendo provare a disegnare l'identikit del prossimo ospite del Quirinale si possono mettere almeno due punti fermi.
Innanzi tutto, per quanto si possa essere attratti da candidature provenienti dalla cosiddetta società civile, contrapponendole alla famigerata “casta”, va pur sempre ricordato che la politica è una professione seria e complessa e che, a certi livelli, come evidentemente è la presidenza della Repubblica, non si può in alcun modo improvvisare, specie in una fase delicata come quella che stiamo attraversando. Serve dunque un candidato politicamente forte ed autorevole.
In secondo luogo, pensando come l'Italia sia ormai parte decisiva ed integrante di un grande progetto di unificazione europea, si tratta di puntare su candidati che in Europa siano ben conosciuti, meglio ancora poi, se abbiano magari anche avuto qualche ruolo importante nelle istituzioni comunitarie. A ben vedere la forte caratura, per così dire, “europea” del prossimo presidente è assai più importante del requisito di essere una candidatura condivisa da tutti gli schieramenti in lizza. Disponendo di un candidato autorevole ed europeista, una parte politica può dunque, se lo ritiene, eleggerlo con i suoi soli voti.
Una volta avvenuta l'elezione tutto cambia, perché il ruolo super partes è insito nella funzione stessa. È dunque certo che una volta asceso al Colle, chiunque fosse il prescelto, ancorché molto targato politicamente, saprà trovare il modo di porsi come uomo al di sopra delle parti, divenendo l'arbitro del sistema e il garante della Costituzione.


Stefano Godizzi - 2013-05-13
Ragionamento condivisibilissimo ed analisi lucida riguardo al ruolo della massima carica dello Stato. Che contrasto col vociare confuso di questi ultimi tempi. Siamo alla politica senza radici e senza valori. Conta la comparsata in Tv e quindi se si è "contro" si guadagnano punti nella balorda classifica dei rottamatori di varia estrazione. Ma la politica ha un senso se costruisce, non se demolisce. Servirebbe proprio un "antidoto" popolare...