L’Unione Europea vive un momento cruciale dovendo, da ormai molti mesi, affrontare una crisi economico-sociale che rischia di minarne le fondamenta, mettendo a repentaglio un processo di integrazione che ha significato pace, prosperità e diffuso benessere. Perché oggi ci troviamo in questa situazione? Cosa è che non ha funzionato?
Il fatto è che l'Europa, soprattutto quella occidentale, è da tempo segnata da un’economia stagnante, incapace di svilupparsi come accadeva nei decenni passati. Viene allora detto che per tornare a crescere occorre ridurre le tasse e la spesa pubblica, smantellando in pratica un welfare ritenuto ormai troppo costoso e, addirittura, inefficace. In alternativa si propongono modelli privatistici per sanità, scuola e previdenza, in un quadro di sempre maggiori disuguaglianze sociali. In definitiva la sostanziale cancellazione di un modello sociale invidiato in tutto il mondo.
Una ricetta che, a ben vedere, risente in modo marcato di un'impronta liberista e tecnocratica, tipica di una fase di profondo indebolimento della politica. Forse il vero problema di questa integrazione europea entrata un po' in panne è proprio la mancanza della politica. Un' assenza frutto perverso di una lunga e continua offensiva culturale da parte di potentati economici, fautori di un mercato selvaggio. Diciamo le cose come stanno: il declino della politica ha avuto come riflesso lo strapotere della finanza e questa logica mercantile e speculativa sta travolgendo l’economia reale, il lavoro e l’impresa.
Dobbiamo invece aver ben chiaro che l'attuale deficit di bilancio che grava su quasi tutti i Paesi dell'Unione, e di cui non sono immuni peraltro neppure gli Stati Uniti, non è affatto dovuto a eccessive spese per le pensioni o l'assistenza sanitaria, ovvero al tanto deprecato welfare, ma è stato causato dal debito connesso agli squilibri finanziari di un capitalismo malato. Un debito colmato dall'intervento pubblico e che oggi appesantisce i conti degli Stati, obbligandoli a severi piani di risanamento che limitano le occasioni di crescita. Un vero e proprio circolo vizioso che va spezzato.
Uscirne a livello nazionale è però impensabile: Italia, Francia, Germania ormai da sole contano ben poco. Occorre muoversi in sede europea. Serve una profonda svolta politica, che tolga forza al populismo di destra e di sinistra, entrambi contrari all’integrazione europea. Non si tratta di scegliere tra lo status quo o l’uscita dall’euro, quanto di puntare su un’Europa più forte, capace di fornire adeguate risposte a tutti i cittadini.
Tre paiono essere i punti decisivi. Innanzi tutto va immaginato un dispositivo di solidarietà per cui, in prospettiva, parte del debito sia mutualizzata, ossia messa in comune. In cambio gli Stati dovranno accettare di essere sottoposti a controlli assai più incisivi in materia di bilancio. Rigore finanziario e solidarietà europea sono due aspetti inscindibili. In attesa che maturino certe scelte, va in questa direzione la recente scelta della BCE, annunciata da Mario Draghi, di acquisto senza limiti i titoli di singoli Paesi a garanzia dell'intero sistema, per ridurre il famigerato spread.
Il secondo punto è una crescita supportata da una robusta azione pubblica e non lasciata soltanto in balia delle forze del mercato. Vanno perciò cambiate le attuali regole che ci stanno costringendo a una drammatica spirale tra austerità e recessione. Il debito pregresso non sarà mai ripianato senza una ritrovata crescita. L'Unione Europea, concentrandosi solo sul disavanzo, finisce per farne la corda con cui ci si sta lentamente strangolando. In fondo gli Stati Uniti hanno un debito pubblico ben maggiore del nostro, eppure laggiù si è investito ampiamente in opere pubbliche. Serve dunque una nuova interpretazione dei vincoli di bilancio nella quale gli investimenti siano considerati cosa diversa della classica spesa pubblica. È necessario che investimenti in ricerca, innovazione e scuola siano svolti a livello europeo ricavando nuove risorse da una tassa sulle transazioni finanziarie.
Si tratta infine, e questo è l’ultimo punto, di fare un definitivo salto di qualità nell’integrazione politica, partendo da un'armonizzazione fiscale e tributaria, per giungere poi a un rafforzamento delle istituzioni comuni. La politica deve tornare al centro poiché gli spazi che questa ha ceduto, ritraendosi progressivamente, sono stati occupati dai potentati finanziari che hanno sempre visto nell'intervento politico un preciso limite alla propria libertà d’azione, che vorrebbero assoluta. Qui vi è davvero una questione fondamentale, di tenuta della nostra coesione sociale e delle nostre democrazie. |