Sulla scia di un interessante incontro con il professor Frigero, il sito di “Per il Domani” (www.perildomani.it) ha avviato un dibattito sulla tanto attesa crescita economica. Ne traiamo il contributo di Giuseppe Ladetto che esprime i suoi dubbi, avvalorati dagli scritti di Berselli – che riprende la Laborem Exercens –, Latouche, Gallino, Rampini, Rifkin e Bauman.
A destra e a sinistra si invoca la crescita. Il solo rigore nei conti pubblici, si dice, uccide il Paese; bisogna coniugare il rigore con la crescita. Ma di quale crescita si parla?
Edmondo Berselli, in La società giusta, riporta un passo dell’introduzione alla enciclica Laborem Exercens in cui si dice: “Celebriamo il novantesimo anniversario dell’enciclica Rerum Novarum alla vigilia di nuovi sviluppi nelle condizioni tecnologiche, economiche e politiche che, secondo molti esperti, influiranno sul mondo del lavoro e della produzione non meno di quanto fece la Rivoluzione industriale del secolo scorso. Molteplici sono i fattori di portata generale: l’introduzione generalizzata dell’automazione in molti campi della produzione; l’aumento del prezzo dell’energia e delle materie di base; la crescente presa di coscienza della limitatezza del patrimonio naturale e del suo insopportabile inquinamento; l’emergere sulla scena politica dei popoli che, dopo secoli di soggezione, richiedono il loro legittimo posto tra le nazioni e nelle decisioni internazionali. Queste nuove condizioni ed esigenze richiederanno un riordinamento e un ridimensionamento delle strutture dell’economia odierna, nonché della distribuzione del lavoro. Tali cambiamenti potranno forse significare, purtroppo, per milioni di lavoratori qualificati la disoccupazione, almeno temporanea, o la necessità di un riaddestramento; comporteranno con molta probabilità una diminuzione o una crescita meno rapida del benessere materiale per i Paesi più sviluppati”.
Sono passati più di venti anni da quando sono state pronunciate queste profetiche parole che oggi vediamo prendere corpo intorno a noi e che, scrive Berselli, fanno giustizia di ogni retorica sulla crescita. Noi europei, aggiunge Berselli, dovremo provare a vivere sotto il segno meno: meno ricchezza, meno prodotti, meno consumi. Non sarà la “decrescita serena” auspicata da Serge Latouche, ma una decrescita o una ridotta crescita imposta dalle circostanze.
Del resto, Luciano Gallino in Finanzcapitalismo ci ricorda che l’impronta ecologica, cioè lo spazio pro capite necessario per sostenere i nostri consumi e smaltire, rigenerandoli, i nostri rifiuti è di 1,8 ettari, mentre oggi la popolazione terrestre vive come se detta impronta fosse di 2,2 ettari: infatti non ci limitiamo a consumare i frutti della terra ma intacchiamo il “capitale terra” compromettendo il futuro dei nostri figli e nipoti. Dietro a questo valore medio di 2,2 ettari, ci sono disparità enormi: lo stile medio di vita di uno statunitense richiede 9,6 ettari, di un europeo 4,5 ettari, di un cinese 1,6 ettari, di un indiano 0,8 ettari, di un africano dell’Africa nera 0,2 ettari. C’è un parallelismo stretto fra i valori dell’impronta ecologica e il PIL dei Paesi citati, segno che essa è in stretta dipendenza dai consumi. Sembra evidente che tutti gli occidentali vivono al di sopra di quanto il loro territorio può garantire loro. È lecito chiedersi se sia etico invocare da parte di noi occidentali una ulteriore crescita materiale che inevitabilmente andrebbe a danno dei Paesi al fondo della scala dei consumi.
A fronte di questa rappresentazione, la risposta dei fautori della crescita è più o meno sempre la stessa: lo sviluppo tecnologico ci metterà in condizione di superare le difficoltà individuando nuove fonti energetiche e nuove materie prime e trovando rimedi all’inquinamento sicché non ci sono limiti alla crescita in relazione alla finitudine del pianeta; inoltre la crescita, aggiungono, non è solo di natura materiale ma comprende e comprenderà sempre più beni immateriali.
Sono argomentazioni che non mi convincono. Certamente, nel mondo, è in corso un miglioramento della produttività delle risorse disponibili (accrescimento dell’efficienza energetica, contenimento degli sprechi e razionalizzazione degli impieghi dei materiali, riciclo degli scarti). Ma anche se tali risultati consentono un risparmio di materie prime per unità di prodotto, la pressione sulle risorse non rinnovabili e i danni ambientali si fanno molto più marcati in relazione alla moltiplicazione della domanda non solo da parte degli occidentali ma soprattutto da parte delle moltitudini dei Paesi emergenti, tutte tese ad inseguire gli stili di vita dell’Occidente opulento. Inoltre, l’aumento della popolazione terreste, destinata a superare i 9,5 miliardi fra meno di 40 anni, ridurrà lo spazio bioproduttivo disponibile a 1,3-1,4 ettari pro capite. È ragionevole dubitare che lo sviluppo tecnologico (se non forse ricorrendo alla fusione nucleare tuttavia ancora lontana) possa consentire ulteriori aumenti dei consumi e soprattutto estendere quelli vigenti nei Paesi occidentali al resto del mondo.
C’è chi, come Federico Rampini, in Slow economy, ritiene indispensabile una revisione della tipologia dei consumi per realizzare uno sviluppo sostenibile, indispensabile per la salvezza del pianeta. A tal fine prospetta un ritorno a un consumo più frugale e un utilizzo di prodotti essenziali, di qualità, che durino a lungo e che soddisfino i bisogni effettivi accantonando quelli simbolici, di status in primo luogo. Sono obiettivi condivisibili, ma rilevo che consumi frugali e prodotti durevoli non sembrano essere l’ideale per sostenere quella domanda di beni di consumo che auspicano quanti invocano la crescita anche al fine di creare occupazione. La concorrenza, con l’odierna marcata competizione sul mercato globale, impone la riduzione dei costi produttivi che in genere implica un diminuito impiego di lavoro umano per unità di prodotto. Se quindi la riduzione dei costi produttivi non si accompagna ad un aumento della quantità dei beni venduti, il risultato è la riduzione dell’occupazione. Ma i lavoratori sono anche i consumatori; se cresce la disoccupazione cade la domanda e il sistema entra in stallo. Infatti il turbocapitalismo, per alimentare i consumi e sostenere la crescita, è teso a creare sempre nuovi bisogni; produce beni usa e getta e cerca di rendere obsoleti o fuori moda i beni che abbiano comunque una ancora significativa durata di vita. È pertanto assai improbabile che il turbocapitalismo generato dalla globalizzazione possa mai rallentare il ritmo della crescita materiale e limitarsi a produrre beni e servizi mirati ai soli bisogni reali della popolazione.
È possibile un altro sviluppo diverso dall’attuale tutto focalizzato sull’incremento del PIL, uno sviluppo compatibile con gli equilibri ambientali e non tale da sconvolgere il tessuto sociale? Penso di sì, ma bisogna cercare di definirne i contorni.
Sono auspicabili gli investimenti per creare fonti energetiche rinnovabili, per edificare strutture abitative ed apparecchiature domestiche ed industriali a basso consumo energetico, per riciclare i materiali di scarto ed i rifiuti; ed altrettanto auspicabili sono gli interventi di riassetto idrogeologico del territorio per evitare i danni da alluvioni a cui siamo ormai abituati, e quelli volti potenziare il trasporto collettivo per ridimensionare quello automobilistico (inquinante e grande consumatore di materiali ed energia). Sono interventi che consumano energia e materiali oggi, ma ce ne faranno risparmiare grandemente per il domani. Ci sono, inoltre, i servizi e i settori dei beni immateriali privi di un rilevante impatto negativo sull’ambiente e sulla disponibilità delle risorse materiali ed energetiche. Penso ai settori della comunicazione e dell’informazione e soprattutto a quello della conoscenza. Tutto ciò va bene, ma mi chiedo se siano di questa natura gli interventi che invocano quanti oggi auspicano una celere ripresa della crescita. Mi sembra di no: se ne parla molto, ma le misure proposte o richieste dal mondo politico ed economico sono mirate soprattutto ad una ripresa fondata sulla domanda dei classici beni di consumo.
Mentre nel Sud del mondo bisogna fare i conti con la fame e la domanda di beni e servizi vitali, nei cosiddetti Paesi sviluppati l’occupazione è diventata il problema numero uno. È tuttavia illusorio pensare che la crescita sia la principale strada per creare occupazione. Forte concorrenza dei Paesi emergenti per i bassi prezzi dei loro prodotti, delocalizzazioni di aziende e investimenti all’estero, e in particolare le tecnologie labour-saving sono le cause prime della disoccupazione. Oggi viene accusato di neoluddismo chi (come Jeremy Rifkin in La fine del lavoro) segnala la crescente disoccupazione prodotta dallo sviluppo tecnologico, ma è bene chiarire che nessuno rifiuta le innovazioni tecnologiche. La tecnologia offre strumenti modellati in funzione degli obiettivi che le sono posti. Sono gli obiettivi ad essere contestabili, come dice Luciano Gallino. Nell’attuale sistema economico sociale, l’innovazione tecnologica non viene indirizzata ad alleviare la fatica, ad eliminare la ripetitività del lavoro umano, o a motivarlo, ma a sostituirlo. Ne è causa prima l’esaltata, direi drogata, concorrenza che il mercato globale impone: mors tua vita mea.
C’è necessità di un sistema economico diverso da quello distorto e distruttivo attualmente vigente. Bisogna considerare la crescita economica e materiale come un mezzo per dare risposte ai bisogni reali della gente e non come un fine. Ci conferma questa esigenza Zygmunt Bauman, intervistato da Andrea Galli (“Avvenire” del 16 maggio 2012), quando afferma che i nostri consumi alimentati dal debito, incentivati con accanimento dai poteri dominanti, sono ecologicamente distruttivi, socialmente dannosi ed economicamente insostenibili. Al di fuori delle trappole dell’opulenza e al di fuori del circolo vizioso dell’uso e abuso di merce ed energia, aggiunge il famoso sociologo polacco, la prosperità necessita di essere cercata nelle relazioni, nella famiglia, nel vicinato, nella comunità, nella ricerca del significato della vita e in un’area recondita di vocazioni al servizio di una società che funzioni e si concentri sul futuro. |