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Scegliere un padrone o esprimere rappresentanti?
 
di Giuseppe Davicino
 

Se le riforme elettorali introdotte dal 1993 in avanti avessero centrato l'obiettivo di rendere, secondo la celebre espressione di Roberto Ruffilli, il cittadino come arbitro della contesa democratica, dovremmo esserne tutti contenti. Ma, poiché da anni si assiste da più parti a una continua e interminabile critica a questi “nuovi” sistemi elettorali, evidentemente così non è stato.
Si denuncia il fatto che è stata tolta al corpo elettorale persino la facoltà di scelta dei candidati al Parlamento, si avvertono tutti i limiti di un bipolarismo fondato sulla demonizzazione dell'avversario piuttosto che sulla formazione di alleanze omogenee e coese. A ben vedere si scopre che questo impianto plebiscitario della “seconda Repubblica”, di cui il berlusconismo è stato il prodotto inevitabile, ha tolto progressivamente all'elettore le proprie prerogative, cosicché, come ha acutamente osservato Roberto Mazzotta, all’elettore sovrano, ma nella sostanza “nudo e derelitto, non rimane che scegliersi un capo, un padrone anziché una rappresentanza politica“.
Credo quindi, che non solo sia utile alla democrazia, ma anche moralmente doveroso, evidenziare i limiti e le rigidità dell'attuale nostro sistema elettorale. Quelle più visibili riguardano le liste “bloccate”, che impediscono agli elettori di scegliere i candidati. Ma una rigidità ancora più importante è costituita dalle “alleanze bloccate”. Non solo la legge elettorale vigente consente alle segreterie di partito, rese in questo modo ancor più soggette alle pressioni di gruppi d'interesse, logge, consorterie d'ogni genere, di nominare i deputati, ma persino di predeterminare le alleanze, al punto che entrambi gli schieramenti possono tranquillamente e senza scandalo già prima del voto riempire tutte le caselle di governo, la cui funzione è declassata alla scelta di un capo. Nei fatti agli elettori viene chiesto un pronunciamento di tipo presidenziale, senza che vi siano gli istituti di tale forma di governo.
Ma le democrazie basate sulla centralità del Parlamento funzionano in un altro modo. Persino a Westminster, dove vige l'uninominale maggioritario secco, i principali partiti si presentano agli elettori con programma e candidato a premier (il segretario di partito), ma se non ottengono la maggioranza assoluta dei seggi stipulano delle alleanze. Così è successo l'ultima volta che si è votato nel Regno Unito, con la formazione dell'alleanza tra Conservatori e Liberaldemocratici dopo il voto.
Naturalmente questo, in un sistema multipartitico come il nostro, non significa disconoscere la validità di forme di “apparentamento” delle liste prima del voto, che anzi è giusto incoraggiare. Altrettanto importante è il valore del bipolarismo per l’alternanza, ricordando però come ha fatto di recente Giorgio Merlo, che anche il proporzionale è bipolare, soprattutto il proporzionale è bipolare, tant'è vero che le piccole liste e i partitini personali lo temono come la peste.
Ma l'indicazione dell'alleanza di governo prima del voto dovrebbe conoscere un semplice e rudimentale limite: che la coalizione che consegue la maggioranza assoluta governa, ma se ottiene la maggioranza relativa deve cercare i seggi che mancano alla maggioranza assoluta tra le forze che gli elettori hanno reso significative attraverso il passaggio elettorale. Questo è il sale della democrazia e della rappresentanza. In questi anni lo si è voluto annullare rispolverando il “premio di maggioranza” culturalmente figlio della famigerata legge Acerbo. Vogliamo allinearci alle altre grandi democrazie europee, proprio nel momento in cui l'Italia torna a guadagnare credibilità a livello comunitario e internazionale, oppure proseguire con la fallimentare esperienza di questa seconda Repubblica?
Credo che i Popolari abbiano da tempo risposto a questa domanda. È però nell'interesse del Paese che anche il Partito democratico indichi la sua strategia.