La “Repubblica dei partiti”, è naufragata contro gli scogli di Tangentopoli, dopo una navigazione che si è fatta sempre più difficile. Nel 1974 il referendum sul divorzio aveva messo in crisi la centralità della DC, e nel 1989 la caduta del muro di Berlino avevano travolto il PCI. E tuttavia è stata la questione morale a demolire un sistema politico che per mezzo secolo è stato il pilastro dello Stato democratico, ed è stata la strategia referendaria a mettere a nudo la degenerazione partitocratrica della prima Repubblica. In realtà Mario Segni pensava di liberare il Parlamento dal condizionamento dei partiti, e invece il declino dei partiti di massa ha spalancato le porte a quella che è stata definita “una partitocrazia senza partiti”, un’oligarchia. In quegli anni difendere i partiti era diventata un’impresa disperata: il Parlamento aveva perso la centralità che gli era stata assegnata dalla Costituzione, e ormai meno del 30% degli elettori pensava che i partiti fossero davvero lo strumento della partecipazione. Così è andato in frantumi, come accade a un vetro infrangibile, il partito che aveva rappresentato l’unità politica dei cattolici. La sinistra si illuse di occupare, con il fronte dei progressisti, il vuoto lasciato dalla DC, ma le cose sono andate in altro modo. Costretta a sceglie tra la sinistra e la destra, l’area intermedia che era stata il pilastro della DC ha votato a destra; i post comunisti del “partito diverso” l’hanno spinta tra le braccia di Berlusconi e della videocrazia. D’altra parte, se riflettiamo sull’incapacità delle istituzioni di reagire alla tempesta mediatico-giudiziaria, non possiamo non ricordare ciò che ha scritto Tocqueville sulla fine dell’ancièn regime: “Il potere si perde quando ci si riconosce indegni di esercitarlo”. E non possiamo non notare che la maggior parte dei politologi oggi ritiene che il declino della prima Repubblica sia diventato irreversibile negli anni di piombo, quando le BR hanno ucciso Aldo Moro.
A vent’anni dalla drammatica vicenda di Tangentopoli, l’Italia sta vivendo una fase ancora più difficile. La Corte dei conti ha denunciato il dilagare della corruzione, e i magistrati di Mani pulite riconoscono che “nel passato i politici rubavano per il partito, mentre oggi si ruba per se stessi”. D’altra parte, la transizione “verso la democrazia compiuta”, promessa dai referendari, è stata caratterizzata dalla personalizzazione della politica e dalla politica spettacolo, e infine i vertici dei partiti hanno tolto agli elettori anche la possibilità di scegliere i parlamentari che li rappresentano. Un bipolarismo che avrebbe dovuto garantire la trasparenza delle decisioni e la stabilità dei governi, intrecciandosi con il berlusconismo è degenerato in un regime fondato sul trasformismo e sulla radicalizzazione dello scontro elettorale. La seconda Repubblica lascia un’Italia sempre più divisa e passerà alla storia come il ciclo della deriva populista. L’indifferenza ha fatto crescere l’astensione, il partito del rifiuto, e poi è dilagata l’antipolitica: meno del 10% degli elettori ha fiducia nei partiti.
Per salvare la democrazia è necessario ripensare la politica, riconoscere che senza una visione della vita, senza un progetto di trasformazione della società, la politica si riduce a lotta per il potere. Questo ripensamento culturale, che deve recuperare l’etica per l’azione politica, vede in prima linea il mondo cattolico: il Paese sta vivendo una crisi antropologica, stanno declinando i valori che tengono unita la società. È indispensabile lavorare per la “buona politica” e rimettere al centro l’impegno delle nuove generazioni per il bene comune. Se i partiti si riducono a essere un cartello elettorale interessato solo alla conquista di Palazzo Chigi, il loro destino è segnato. Ma una società che odia i politici, che li considera una casta di privilegiati, è destinata a perdere la libertà.
La perdita di prestigio dei partiti li ha resi incapaci di realizzare la coesione che è necessaria in una congiuntura in cui il Paese corre il rischio del defaul, in una fase segnata da una crisi mondiale. Questo rischio ha costretto Berlusconi alle dimissioni e ha convinto il presidente Napolitano ad affidare a Mario Monti, già commissario europeo, l’incarico di formare un governo di tecnici, per costringere gli opposti schieramenti ad abbandonare il terreno dello scontro e a votare un programma di salvezza nazionale. Può apparire paradossale, ma il voto di fiducia a un governo che non è sostenuto da una propria maggioranza, dipende dal fatto che la fiducia degli elettori nel bipolarismo è crollata. In questo contesto la simpatia per Monti, che ha personalmente riconquistato il rispetto dell’Europa, dipende dal fatto che non appartiene al sistema dei partiti. Il governo dei tecnici, affrontando l’impopolarità di scelte che si impongono – la riforma previdenziale, le liberalizzazioni, la riforma del mercato del lavoro – sta mettendo alla prova anche il rapporto della destra e della sinistra con il loro elettorato, con le corporazioni professionali e con i sindacati dei lavoratori. Anche questo ha a che fare con il “dopo Monti”.
Se guardiamo al “dopo Monti” appare inevitabile la scomposizione delle opposte coalizioni elettorali, ed è forse inevitabile anche la scomposizione dei partiti che sono stati i pilastri di queste coalizioni. Non a caso, dopo il divorzio dalla Lega, il Partito della libertà è caduto nel caos, e nella Lega si è approfondito il solco tra Bossi e Maroni. E nel centrosinistra è riemersa la questione dell’identità del Partito democratico, ma anche quella dell’alleanza con la sinistra di Vendola o con il Terzo polo. Bersani riesce a mediare con sempre maggior fatica tra chi, nel PD, guarda al socialismo europeo, riconoscendo però che anche la socialdemocrazia deve cambiare radicalmente, e chi invece pensa che per modernizzare il Paese bisogna andare in un’altra direzione, recuperando il discorso avviato con la “terza via” di Tony Blair. Non saranno le riforme istituzionali, peraltro necessarie, e neppure la riforma elettorale, a sciogliere i nodi che riguardano l’avvenire dei partiti. Tuttavia anche su questo versante il governo Monti rappresenta una rottura e impone un ripensamento profondo della strategia dell’alternanza.
Vorrei ricordare l’intervista che Mario Monti ha rilasciato al “Corriere della sera” nell’agosto del 2005, nei giorni in cui l’opinione pubblica attendeva il confronto televisivo tra Berlusconi e Prodi. Secondo l’ex commissario europeo, per trarre il Paese fuori da una crisi finanziaria che già allora stava spingendo l’Italia ai margini dell’Europa, bisognava porre al centro dell’azione del governo l’economia di mercato e assegnare a un grande centro la responsabilità di governare. Non si trattava di tornare al passato, poiché era ormai compito degli storici discutere colpe e meriti della DC, ma di partire da una riflessione sulla realtà. Per Monti la sinistra e la destra che si contendevano il potere, si erano dimostrate incapaci di fare le riforme necessarie per ridare competitività al Paese; e si doveva riconoscere che il sistema elettorale su cui si fondava il bipolarismo non poteva garantire la governabilità.
Quell’intervista è stata archiviata, ma scatenò un dibattito che allora coinvolse Prodi e Bertinotti, Cacciari e Fassino. Da quel confronto di idee sarebbe utile ripartire, anche quando si discute di riforma elettorale, cioè della qualità della democrazia. |