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Riforma elettorale necessaria ma contrastata
 
di Guido Bodrato
 

La riforma della legge elettorale non fa parte dell’agenda del governo Monti. E tuttavia il governo dei tecnici è nato per evitare il naufragio dell’Italia ma anche per garantire una tregua tra destra e sinistra che permetta al Parlamento di approvare una nuova legge elettorale, prima del ritorno al voto. Anche i più convinti sostenitori del bipolarismo hanno riconosciuto che bisogna abrogare il ”porcellum”, una legge che ha dato ai vertici dei partiti il potere di “nominare” i parlamentari, che ha permesso a Berlusconi di imporre la dittatura della maggioranza, e che infine ha prodotto la paralisi delle istituzioni, esponendo l’economia italiana al fallimento. Ma per costringere i partiti ad imboccare la via della riforma elettorale, nel corso del 2010 sono scesi in campo i sostenitori del referendum, con l’obiettivo di rilanciare, contestualmente all’abrogazione del “porcellum”, il sistema uninominale-maggioritario varato con il referendum del ’91.
Quel sistema era stato varato con l’obiettivo di sconfiggere la degenerazione partitocratica della “democrazia dei partiti” e di dare vita ad un bipolarismo a tendenza bipartitica, ad un bipolarismo che avrebbe dovuto favorire la transizione alla democrazia compiuta. Nella realtà il sistema bipolare “reale” è deragliato in un regime oligarchico caratterizzato da crescenti disuguaglianze economiche, e sul terreno più propriamente politico da un populismo che sta disgregando il tessuto sociale del Paese.
In questa situazione, il no della Corte costituzionale all’ammissibilità dei referendum ha scaricato tutte le responsabilità sul Parlamento, senza tuttavia suggerire come realizzare un giusto rapporto tra l’obiettivo della rappresentatività e quello della governabilità, e senza suggerire come riconoscere agli elettori il diritto di scegliere i deputati e i senatori. Il fatto che nella stessa giornata al no della Corte ai referendum si sia aggiunto il no del Parlamento all’arresto dell’onorevole Cosentino, ha fatto pensare che il “patto scellerato” che ha legato Bossi e Berlusconi possa risorgere dalle ceneri del “porcellum” e bloccare ogni volontà di riforma.
In realtà, la sentenza della Corte non può essere interpretata come uno stop alla riforma elettorale, anche se ha indebolito l’ipotesi di riportare in vita il “mattarellum”. È molto difficile che si possa tornare al passato, prossimo o remoto, anche se Berlusconi e Bossi lo vorrebbero, a costo di scatenare nella Lega una bufera che potrebbe sconvolgere il centrodestra. Per evitare una stagnazione sempre più pericolosa, il presidente Napolitano ha assunto anche in questo caso l’iniziativa, e ha pubblicamente chiesto a tutti i partiti di riprendere il confronto sul tema della legge elettorale, ma anche su quello – che però riguarda la revisione della Costituzione – della modernizzazione delle istituzioni.

Stiamo vivendo una stagione segnata da una profonda discontinuità. Con il berlusconismo è tramontato anche il bipolarismo sperimentato dopo il tramonto della prima Repubblica: un bipolarismo “reale” caratterizzato da un intreccio sempre più stretto tra la personalizzazione della politica, il trasformismo necessario per vincere le elezioni e la radicalizzazione dello scontro elettorale. Lo scontro tra destra e sinistra è così cresciuto sino al punto di negare la possibilità di una alternativa democratica tra due schieramenti che nello stesso tempo si sono delegittimati e si sono sfidati per la conquista di Palazzo Chigi. Non a caso il ciclo del berlusconismo si è concluso con un voto di fiducia al governo del Presidente che ha coinvolto entrambi i poli, oltre il terzo polo; e il voto di una maggioranza che registra solo l’opposizione della Lega ha di fatto certificato la fine del bipolarismo. D’altra parte i dibattiti che le iniziative di Monti stanno suscitando, quello sulla manovra varata per portare sotto controllo il debito pubblico e ancor più quelli sulle liberalizzazioni e sul lavoro, stanno mettendo alla prova l’identità dei partiti e la solidità delle alleanze, di alleanze che a sinistra resteranno comunque necessarie per vincere la sfida elettorale che concluderà questa transizione.
La dimensione della svolta impone un ripensamento delle strategie e delle alleanze. È necessario un ritorno alla politica per evitare che una crisi sociale sempre più profonda e sempre più esposta alla violenza travolga le istituzioni democratiche. Se ragionassimo in modo schematico, come hanno fatto quasi tutti i politologi nel corso degli anni che hanno portato al tramonto della prima Repubblica, nella convinzione che la fine del centrismo avrebbe costretto gli elettori a scegliere da quale parte stare, a destra o a sinistra, potremmo ora sostenere che questa crisi – resa travolgente dalla globalizzazione – costringe l’Italia ad affidarsi ai tecnici come espressione della “terza via”.
In realtà è un errore parlare di ritorno al centro, poiché la dimensione della crisi riguarda anche il centro, riguarda la sopravvivenza della democrazia in un Paese in cui quasi il 50 per cento degli elettori non si sente rappresentato dai partiti in campo ed è tentato dall’astensione. Non a caso Mario Monti sta cercando in Europa, nel rilancio della politica comunitaria, la soluzione ai problemi che minacciano di “default” il nostro Paese, e lo fa mettendo in gioco il prestigio personale che si è conquistato come commissario dell’Unione europea. Ma non basta l’autorevolezza di un uomo a risolvere i problemi di una nazione. In Italia non abbiamo alternative a una politica di rigore e di sacrifici, a una concertazione tra tutte le forze sociali, tra tutti i partiti; non abbiamo alternative a scelte che facciano crescere la competitività delle imprese e che riducano disuguaglianze sociali ormai insopportabili.
Le scelte del governo Monti stanno incidendo sull’orientamento elettorale della gente; e non possono non sconvolgere in profondità le coalizioni eterogenee – ma funzionali alla logica del bipolarismo – su cui si è retta la seconda Repubblica.. Per queste ragioni il governo dei tecnici e la sentenza della Consulta rimettono in campo anche l’ipotesi di una riforma di impianto proporzionale che rivaluti il pluralismo politico e la politica delle alleanze. A condizione che vengano confermati gli obiettivi dell’alternanza, cioè una rappresentatività delle assemblee elettive che sia coniugabile con l’obiettivo della stabilità del governo. Questa riforma sarebbe possibile: lo dimostrano l’esperienza tedesca e quella spagnola due leggi di impianto proporzionale ma di diverso significato politico. La prima, in più occasioni è stata considerata la più moderna espressione della democrazia europea. La seconda, è stata varata in Spagna per dare uno “sbocco federalista” alla tensione che ha minacciato quella nascente democrazia, tra i Paesi Baschi e la Catalogna da una parte e Madrid dall’altra.
Ma Berlusconi e Bossi accetteranno che sia messo in discussione il patto oscuro che li ha riuniti in occasione del voto sull’arresto di Casentino, e che potrebbe favorire una nuova coalizione, in funzione del potere? E accetteranno di imboccare questa via i “cespugli” (anche di sinistra) cui le leggi “maggioritarie” hanno regalato – dopo il 1994, uno sproporzionato potere di condizionare le coalizioni elettorali di cui hanno fatto parte?


LINO BUSCETI Chieri - 2012-02-09
La vasta e approfondita analisi di Bodrato non fa una grinza, ma concordo con il Suo pensiero finale: c'è veramente la volontà politica di fare una riforma elettorale seria che dia agli elettori la possibilità di scegliersi i propri rappresentanti? Per essere semplicista e ingenuo, può una maggioranza votare una legge che non garantisce la propria sopravvivenza? Questo dipende anche dai partiti che non vogliono essere più servi di Berlusconi e della Lega.
Mario Chiesa - 2012-02-01
Due considerazioni. Una conseguenza negativa, che forse non è ancora stata messa in luce, dell’attuale sistema elettorale è il contributo che esso dà alla disaffezione dalla politica. I sistemi elettorali precedenti portavano i parlamentari ad essere presenti sul territorio: Scalfaro o Donat-Cattin tra i defunti arrivavano una o più volte l’anno nella mia sezione. Negli ultimi anni chi ha ancora visto un parlamentare nei circoli/sezioni? Così anche gli iscritti sentono i parlamentari lontani. Quei contatti erano un modo per ottenere i voti, oltre le clientele, ma anche un modo per formare alla politica. Certo Berlusconi e Bossi sono affezionati all’attuale legge che dà loro, che hanno una concezione padronale del partito, il potere di nominare i parlamentari. Ma la dirigenza del PD è proprio decisa a rinunciare al potere di nominare i parlamentari? Potere che permette di garantirsi la fedeltà degli apparati di partito? Non conosciamo proprio nessun possibile candidato (sindaco di grande successo, per esempio) che nelle ultime due tornate elettorali è stato messo da parte per lasciar posto a chi era ‘nato e vissuto’ nel partito? E non sapeva far altro. Il sistema delle liste bloccate non è presente in qualche regione dominata dal PD?
Franco Campia - 2012-01-28
Naturalmente condivido la lucida analisi di Bodrato. Mi permetto di aggiungere una tessera al complicato mosaico: tra i cittadini superficiali o informati superficialmente (cioè la gran maggioranza) l’universale sdegno per l’attuale sistema elettorale con designazione diretta degli eletti tende a confluire inevitabilmente verso una rivalutazione e riproposizione del voto di preferenza. Festival della memoria corta! Si è gia dimenticato quale contributo è venuto da lì alla degenerazione clientelare dei partiti della c.d. prima repubblica? E oggi sarebbe certamente ancor peggio! Per via di una concezione della politica sempre più personalizzata. Per via degli strumenti mediatici impiegati e anche dell’impressionante caduta del senso del pudore (in questo caso riferito non all’esibizione di epidermide ma della ricerca del propria successo personale). Urge quindi discutere su una terapia che non sia peggiore del male che si vuol curare.