Negli emendamenti alla manovra economica, il licenziamento è stato inserito a sorpresa tra le materie su cui i contratti aziendali possono derogare ai contratti nazionali. Licenziare sarà di fatto più semplice. Lasciamo da parte ogni considerazione su cosa c'entrino i licenziamenti con la riduzione del debito pubblico, tra tagli di bilancio e nuove tasse. Ragioniamo solo sul licenziamento, partendo da un necessario ripasso della materia,
Il licenziamento nelle aziende con un numero di dipendenti superiore a quindici viene sostanzialmente catalogato in tre modi diversi:
1) Per giustificato motivo soggettivo; si caratterizza per il fatto che è riferito al soggetto (singolo lavoratore), e che il licenziamento deve essere per una giusta causa (grave mancanza, fatto che generi sfiducia nel rapporto ecc.) motivata dal datore di lavoro con ragioni credibili e incontestabili.
Nel caso che il lavoratore si rivolga al giudice è onere del datore di lavoro provare rigorosamente la fondatezza del licenziamento.
2) Per giustificato motivo oggettivo; può essere singolo o plurimo, e si caratterizza per il fatto che normalmente è riferito alla chiusura di una branca dell’attività aziendale (reparto, sezione, filiale, o tipo particolare di attività). Nel caso che il lavoratore si rivolga al giudice, non solo il datore di lavoro deve provare – come per la giusta causa – la fondatezza del licenziamento, ma deve dimostrare altresì l'impossibilità del riutilizzo di ogni singolo lavoratore in altri reparti dell’azienda, anche con diverse mansioni. Se le mansioni sono di valore inferiore il trasferimento è ovviamente subordinato all'accettazione da parte del lavoratore, e solo quando sia dimostrata l'impossibilità di riutilizzo a parità di mansioni.
3) Licenziamento collettivo; si caratterizza per il fatto che è riferito all'azienda in via di ridimensionamento che, pur restando in vita, si struttura diversamente e si riorganizza completamente, producendo cose diverse o con sistemi e criteri totalmente diversi, tali da impedire l’utilizzo di tutti o parte dei lavoratori per le mansioni che svolgevano in precedenza. L’onere della prova della ristrutturazione è a carico del datore di lavoro (che però lo deve assolvere nei confronti delle OO.SS. dei lavoratori e non nei confronti del giudice), e il licenziamento collettivo avrebbe validità soltanto qualora fosse dimostrata giudizialmente l'inefficacia della Cassa integrazione. Infatti, secondo l'interpretazione del giudice non si può fare il licenziamento collettivo se prima non si sperimenta la Cig.
Poiché davanti al giudice del lavoro le garanzie per il lavoratore sono limitate ai criteri di selezione operati dal datore di lavoro, tutta la parte riferita alla verifica delle motivazioni e delle prove, sia per i licenziamenti per giustificato motivo oggettivo, che per quelli collettivi, è a carico delle organizzazioni sindacali. Questo perché la legislazione italiana è carente: in quanto non solo non stabilisce quali provvedimenti adottare nel caso in cui le motivazioni addotte dal datore di lavoro per i licenziamenti risultino false e non credibili, ma non ne consente al giudice nemmeno una verifica platonica.
La capacità di respingere i licenziamenti (al di là della discussione davanti al giudice dei criteri di selezione adottati) rimane quindi solo ed esclusivamente legata alle capacità di lotta in difesa del posto di lavoro da parte dei lavoratori interessati. Il tempo utile per impugnare il licenziamento è per il lavoratore di 60 giorni a partire dalla data di ricevimento della lettera raccomandata che lo comunica (solo in caso di maternità i giorni utili diventano 90).
Fatto questo doveroso ripasso, vediamo cosa succede nei fatti. Chi ha fondate ragioni per ritenere il suo licenziamento illegittimo, deve impugnarlo entro sessanta giorni facendo obbligatoriamente richiesta di incontro preventivo all’Ufficio Provinciale del Lavoro e aspettare. Dopo qualche mese viene fissato l’incontro, al quale il datore di lavoro non ha l’obbligo di presentarsi. Quando si presenta conferma il licenziamento.
Allora finalmente l’avvocato può dare inizio alla causa. Dopo qualche settimana (se tutto va bene e l’avvocato non è troppo impegnato) viene presentato il ricorso in cancelleria del Tribunale del Lavoro. Dopo qualche altra settimana il pretore dirigente assegna al giudice la causa. Il giudice che riceve la causa fissa la data dell’udienza nei sei-otto mesi successivi. Mettendo tutto insieme il lavoratore si trova davanti al giudice la prima volta per fare valere i suoi diritti dopo almeno un anno.
Si contano sulle dita di una mano i lavoratori che sono riusciti ad aspettare un anno senza lavorare prima di poter far valere i propri diritti rispetto a quei lavoratori che, letteralmente “presi per fame”, hanno alla fine accettato una transazione economica in cambio di un licenziamento palesemente illegittimo.
Cari ministri Sacconi e Tremonti, voi non lo saprete, ma nella vita lavorativa non esiste momento più drammatico di quello in cui si riceve la lettera di licenziamento. Era proprio così indispensabile trasformare in legge una palese ingiustizia che già avviene nei fatti? Complimenti per il fulgido esempio di incapacità al potere. |