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PD tra questione morale e moralismo
 
di Giorgio Merlo
 

Il dibattito che si è aperto nel PD sul ritorno della cosiddetta “questione morale” non può essere liquidato con superficialità e approssimazione. Certo, anche su questo tema, come su quello della “casta”, è sempre bene non farsi travolgere dall’emotività e dalle parole d’ordine. Servono sempre prudenza, responsabilità, equilibrio e trasparenza. Ma anche chiarezza e trasparenza.
Allora cominciamo a dire cosa non si deve fare. Innanzitutto il PD non deve’essere un partito moralista, inquisitoriale e vagamente giustizialista. Non si può trasformare un singolo, o più episodi – ancora, comunque tutti da verificare e da accertare – in un’arma decisiva per scassare un partito o distruggere le persone. La presunzione di innocenza, almeno fino a prova contraria, dovrebbe ancora essere una regola e non solo un inciampo. Se c’è qualcuno nel PD, e purtroppo c’è, che imbraccia la questione morale per trasformarla in un’arma politica sperando di ottenere più spazi personali o di corrente è bene che si ravveda in fretta. Con il moralismo di bassa lega non si va da nessuna parte né, tantomeno, con un istinto perennemente giustizialista. Lasciamo ad altri questa prassi e questa modalità d’azione che rasenta, a volte, lo squadrismo giustizialista e violento.
In secondo luogo, non c’è alcuna “superiorità morale” da rivendicare. Non sopporto chi, nella vita come nella politica, si erge a predicatore incallito o a giudice insindacabile. È meglio prendere atto che, soprattutto nell’attività politica, ci si deve comportare sempre con correttezza e trasparenza rispettando codici e regolamenti che disciplinano la vita di ogni partito e nel rispetto costante e senza intransigenza delle leggi e dei principi del nostro ordinamento. Ma basta con i “santoni” contemporanei e con tutti coloro che distribuiscono ogni ora pagelle e giudizi sugli altri. Sono personaggi notoriamente insopportabili e che, altrettanto normalmente, nascondono desideri inconfessabili dietro il solito e vecchio paramento del moralismo e dell’integralismo.
In ultimo, la “questione morale” non può mai diventare la base per un efficace e duraturo programma di governo. Gli slogan riassuntivi di questo ipotetico programma “più galera per tutti” o “più manette per tutti” non può essere l’orizzonte entro il quale si costruiscono alleanze e si definisce una cultura di governo. La piena trasparenza e un comportamento politico all’insegna della coerenza e della sobrietà sono e restano gli ingredienti indispensabili per una corretta e credibile attività pubblica. Ma non possiamo trasformare questo tema in una clava dove qualcuno pensa di dividere il mondo tra i “buoni” e i cattivi” e, come sempre, di trarne un vantaggio personale e politico. Questo moralismo d’accatto va bandito senza intransigenza e senza attenuanti.
Detto questo, però, è bene anche alzare il coperchio su altri versanti. E, visto che parliamo del PD e non di altri, di essere altrettanto intransigenti ed esigenti con noi stessi. Appurata che non c’è una “superiorità morale” nostra nei confronti di nessun altro, non ci può essere al contempo nessuna difesa “corporativa” o di gruppo o di corrente. Nessuna correità, quindi. Chi sbaglia, nel rispetto delle regole e delle procedure, semplicemente paga. Senza persecuzione, senza patiboli e senza esporli al pubblico ludibrio. Ma paga. Come? Semplice. Con la sospensione immediata dagli incarichi e dalle funzioni che si rivestono nel partito e senza intralciare minimamente il corso e il lavoro della magistratura. E, in secondo luogo, lavorando affinché la mala pianta dell’intreccio tra economia e politica venga sconfitta alla radice. Troppe volte questo tema, irrisolto e mal affrontato, è la causa concreta della degenerazione della politica e della sua progressiva trasformazione in un luogo – almeno così viene percepito – di malaffare e di possibile arricchimento. No, questa storia deve finire al più presto. E deve finire innanzitutto con una trasparente e sobria “cultura del comportamento”, come la definiva Pietro Scoppola e, in secondo luogo, con misure legislative e regole di partito che bloccano ogni forma di possibile commistione tra politica e affari.
Certo, la politica costa. E anche la democrazia costa. Fuorché pensiamo che la politica, d’ora in poi, debba essere appaltata esclusivamente a chi ha i mezzi. Cioè ai ricchi. Noi arriviamo da una tradizione che ha sempre individuato nel partito “uno strumento democratico per eccellenza capace di trasformare i ceti popolari da classe subalterna a ceto dirigente del nostro Paese” – come amava ripetere ossessivamente Carlo Donat-Cattin in tempi non sospetti. E, soprattutto, siamo oggi in un partito – il PD appunto – che attorno alla questione morale, al rispetto delle regole, alla rigorosa osservanza delle leggi, dei regolamenti e del rispetto delle istituzioni e dei suoi organi, ha costruito la sua identità politica e la sua cifra culturale.
Su questo versante nessuna indulgenza e nessun tentennamento. Non possono esistere zone d’ombra o comprensioni pelose ed equivoche. Anche perché non siamo di fronte a una nuova “tangentopoli” come alcuni organi della destra cercano di assecondare quotidianamente. Ed è proprio su questo versante che mi permetto di sottolineare, a gran voce, che il PD può rivendicare una “diversità” culturale nei confronti dei partiti della destra. Per noi il rispetto delle regole e della trasparenza non è moralismo d’accatto o riproporre piccoli tribunali inquisitoriali. Per noi queste regole sono il preambolo costitutivo della stessa esperienza politica. Certo, anche tra di noi esistono coloro che ne vogliono approfittare. È appena sufficiente scorrere alcune agenzie stampa di questi giorni per rendersi conto che gli avvoltoi non mancano mai. Come quel dirigente di corrente che, dopo i fatti giudiziari di Monza, ha lanciato la proposta per incrementare le candidature al Parlamento più vicine alle sue posizioni politiche. Ma appunto di avvoltoi si tratta. Il problema, come è evidente, è un altro e di ben altra portata.
Comunque sia, adesso si tratta di procedere con coerenza, serietà e intransigenza. Perché su questo versante, e lo dico senza arroganza, sta la profonda differenza con gli atteggiamenti, lo stile e la prassi comune dell’attuale destra italiana. Una differenza però, e anche questo lo dico con profonda convinzione, che deve emergere non dai proclami quotidiani o dalle assemblee di partito rumorose e chiassose ma soltanto dal buon esempio e dalla quotidiana testimonianza politica. Solo così saremo credibili agli occhi dell’opinione pubblica. Certamente non con gli avvoltoi presenti anche al nostro interno o con tutti coloro che si limitano a trasformare la questione morale in una opportunità per aumentare i propri spazi di potere o la propria carriera personale.


giuseppe cicoria - 2011-07-27
La Tua lunga dissertazione suscita ancora una volta molte perplessità. All'inizio utilizzi vocaboli ed argomenti che faccio fatica a distinguere da quelli usati da altri politici certamente non vicini a noi! Poi cambi totalmente registro e finalmente forse si capisce che i corrotti vanno chiamati con il loro nome e vanno puniti politicamente e giudizialmente. Continua a non piacermi l'uso che fai della parola morale (moralismo) e delle giustizia (giustizialismo). Per me quei termini non portano a pensare bene sugli obiettivi che perseguono coloro che li usano. Saluti cordiali e... buona fortuna!