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I guasti di maggioritario e bipolarismo
 
di Alessandro Risso
 

Dopo aver cominciato a ragionare sui guasti della preferenza unica, possiamo tentare un bilancio ponderato del bipolarismo all’italiana, figlio di quel sistema elettorale maggioritario che abbiamo sperimentato nella Seconda Repubblica in due fasi, note con il nomignolo delle due varianti adottate, prima il mattarellum e poi il porcellum.
Le differenze tra i due sono note e non mi soffermo. Il porcellum – dalla celebre definizione di “porcata” datagli dal suo stesso inventore Calderoli – è un sistema ad uso e consumo delle segreterie politiche. Compilano l’elenco dei candidati che vengono eletti nell’ordine di iscrizione in lista. La scelta dei cittadini va a farsi benedire. Troppo facile criticarlo.
È partita una raccolta firme per un referendum che lo abolisca, promosso da Stefano Passigli (docente di scienze politiche, politicamente schierato nei repubblicani, poi democratico di sinistra e ora nell’Italia dei Valori), che ha sollevato giudizi contrastanti all’interno dello stesso Partito democratico. Che riguardano anche il merito dei quesiti proposti e non solo la scelta di percorrere la via referendaria invece di pretendere che il Parlamento faccia il suo mestiere, come vorrebbe Giorgio Merlo.
Altri, tra cui Pierluigi Castagnetti, vedrebbero bene un semplice ritorno ai collegi uninominali della Legge Mattarella, considerato un maggioritario accettabile. Ma non penso esista un mattarellum buono contrapposto al porcellum cattivo. Questa sciagurata Seconda Repubblica si è politicamente costruita con il primo sistema, ed è solo peggiorata nella forma con il secondo. La sostanza era già negativa. Infatti dobbiamo riconoscere che non c’è molta differenza tra le attuali liste bloccate e la prassi di “paracadutare” i candidati promossi dalle segreterie di partito nei collegi considerati sicuri. C’è chi ritiene che un antidoto efficace contro questi mali siano le primarie, da applicare sistematicamente nella scelta dei candidati. Non vorrei però riaprire il dibattito su questo strumento “americano” che si è rivelato positivo in certe situazioni, negativo in altre, e che difficilmente potrebbe diventare una prassi generalizzata e automatica.

Primarie o no, non si dà comunque risposta al problema più evidente che il maggioritario ha comportato: la frammentazione del quadro politico.
Ci hanno raccontato una favola: che il proporzionale aveva il difetto, oltre a non garantire la governabilità, di favorire la proliferazione dei partiti. Il maggioritario avrebbe invece semplificato il quadro politico. La decina di partiti rappresentati in Parlamento a fine prima Repubblica è raddoppiata. Vi lascio il piacere di stilare i due elenchi, considerando che personalità del calibro di Pionati, Nucara e Scilipoti sono leader di partito. E che all’elenco dei Gruppi oggi esistenti bisogna aggiungere le forze politiche dell’estrema destra e di sinistra (tra cui SEL e i vari partiti comunisti) non rappresentate in Parlamento.
Che il maggioritario comportasse una maggior frammentazione del quadro politico, non era poi così difficile da prevedere. Basta conoscere un po’ di storia patria. Avevamo già avuto i collegi uninominali per alcuni decenni nel primo Regno d’Italia, dal 1861 alla Grande guerra. Le maggioranze di governo, specie nel periodo della sinistra storica e dell’età giolittiana, sono sempre state piuttosto “ballerine”. Si era inventato un nuovo modo di fare politica, il “trasformismo”. Ogni parlamentare si sentiva il padrone del proprio collegio elettorale, e in un certo senso diventava il “partito” di se stesso, contrattando ruoli, favori e opere pubbliche sul proprio territorio. Mercanteggiare con Crispi o Giolitti il proprio voto per convenienza, era una prassi abituale, un elemento di instabilità dei governi e di debolezza di quel sistema liberale. Con un potere di contrattazione di ogni deputato tanto maggiore quanto più ristretto era il margine di consenso del governo.
È passato un secolo. Trovate molta differenza con i De Gregorio, i Calearo e i Responsabili di oggi?
Dove la caduta o meno di un governo si gioca su una manciata di voti – quando non su uno solo come è capitato al povero Prodi –, il cosiddetto “mercato delle vacche” è attivissimo, e premia ovviamente gli individui più spregiudicati. Collocarsi sulla linea di confine tra i due schieramenti bipolari, permette di poter essere oggetto di lusinghe politiche (di facciata) ed economiche (di sostanza). Da qui nasce la frenesia di posizionarsi al meglio per poter spiccare un balzo vantaggioso sul piano personale. Il sito della Camera dei Deputati registra, in tre anni di legislatura, un centinaio di passaggi tra Gruppi parlamentari. Quante crisi di coscienza e quanti calcoli di convenienza?

Il maggioritario è almeno servito a costruire il bipolarismo nel nostro Paese, può pensare qualcuno. Visto il bipolarismo che ci ritroviamo, è un buon motivo in più per abbandonare il maggioritario.
Nel bipolarismo all’italiana si è inesorabilmente scivolati verso le estreme per raccogliere tutto il consenso possibile. Lo ha fatto Berlusconi, prima “sdoganando” Fini, poi spingendosi a inglobare La Destra di Storace e altre frange neofasciste. Lo ha fatto Prodi con la famigerata Unione, allargata sino ad abbracciare la variegata galassia comunista e movimentista. Il bipolarismo tra schieramenti equivalenti presuppone che non vi possa essere un limite verso le ali estreme. E che non ci debba essere una convergenza tra forze di centro dei due schieramenti. L’estremismo prevale sul moderatismo. Non è un caso che la politica sia diventata “gridata”, abbia attivato “macchine del fango” e proclamato propri “campioni” – dopo l’ineguagliabile “caimano” Berlusconi – i vari Gasparri, Straquadanio, Santanché, La Russa e, sull’altro fronte, Tonino Di Pietro. Chi sognava che un centrodestra liberale ed europeo, guidato ad esempio da un Monti o un Montezemolo, potesse confrontarsi democraticamente con un centrosinistra riformista e solidale, si sarà ben svegliato arrendendosi alla realtà di una destra populista, clientelare e sempre più anticostituzionale. E bisogna poi evitare un facile errore di valutazione: sostenere che il mancato decollo di un bipolarismo “normale” sia tutta colpa di Silvio Berlusconi, che rappresenterebbe l’anomalia del sistema italiano. Hanno sempre raccolto più consenso i qualunquisti alla Giannini o i neofascisti, rispetto ai liberali di stampo einaudiano.
I democratici di ogni partito dovrebbero quindi saper leggere il recente passato non limitandosi a considerare l’ingombrante presenza del Cavaliere di Arcore, pensando che rimosso lui il problema sia risolto. Il difetto è nel sistema. Il sistema va cambiato.


giuseppe cicoria - 2011-07-27
Ottima e completa analisi. Sono del parere che il metodo più giusto e democratico sia quello rigorosamente proporzionale con tutti i difetti ed i problemi che esso provoca. La rimozione della presenza del Cavaliere mi sembra urgente e necessaria per rallentare e forse fermare il declino morale ed economico del nostro Paese. Questo signore ha creato e poi alimentato l'odio tra i cittadini contrapposti. Ciò non è mai avvenuto in passato; nemmeno subito dopo la guerra. Noi abbiamo bisogno di ritornare ad una normale competizione politica dove agiscano persone per bene, elette dai cittadini, che facciano gli interessi di tutta la collettività, collaborando nella stesura di provvedimenti legislativi basilari per il citato rilancio morale ed economico dell'Italia. Cordiali saluti.
Franco Fratto - 2011-07-27
Carissimi, sono d'accordo su tutto, ma per me le conseguenze sono: 1) azzerare questa legge elettorale 2) andare ad un proporzionale con sbarramento variabile in ragione del numero dei votanti 3) la Costituzione non si tocca! 4) far ridiventare la politica servizio... non so come. E' un problema di valori, esempi e visione futura. Sono persuaso, però, che anche la politica da stadio e da festini possa essere messa in agonia, ma con tempi non così rapidi come quelli che ci sono voluti al sistema edonistico televisivo a distruggere attenzione e valori.