Nella seconda metà del secolo, la popolazione dell'Africa raddoppierà. Parrebbe motivo di preoccupazione, vista l'attuale situazione critica di molti Paesi africani e la crescente ondata migratoria da essi proveniente. Ma c'è chi dichiara che questo fatto rappresenterà invece una opportunità per lo sviluppo del Continente nero. Forse è il caso di cercare di capire che cosa significhi la crescita demografica che ancora caratterizza varie regioni specialmente del Sud del mondo.
In tutti gli ambiti, esistono dei limiti oggettivi che prima o poi vengono raggiunti, oltrepassando i quali si determinano fenomeni volti a ristabilire l'equilibrio con pesanti ripercussioni su chi si trova a viverli. Questi limiti riguardano anche la crescita demografica. Si potrà discutere sul quando e sul dove saranno raggiunti, ma ad essi non si sfugge.
Ricordo di aver sentito, alcuni anni fa, formulare delle cifre assai rilevanti in materia di sostenibilità del carico umano da parte del pianeta, introdotte, credo, per minimizzare la questione della crescita demografica. Il mondo – veniva detto – grazie allo sviluppo tecnologico, all'aumento della produttività in agricoltura e alla messa a coltura di terre ancora vergini, potrà ospitare e sfamare 30 o 40 miliardi di esseri umani. Francamente ritengo tali previsioni totalmente infondate.
Ma anche se così non fosse, sorge una domanda. È stato giustamente detto che l’uomo non è il padrone del Creato, ma il suo custode. Fino a che punto è lecito che, per far fronte ai bisogni di una popolazione in continua crescita, vengano continuamente sottratti spazi e distrutti habitat indispensabili all’esistenza delle altre creature? Già oggi assistiamo alla continua scomparsa di specie animali e vegetali, e di interi ecosistemi, come non era mai successo da milioni di anni. Si parla infatti della sesta grande estinzione che sta provocando la scomparsa dal 20 al 50 per cento di tutte le specie viventi. Possiamo continuare a ragionare solo in funzione delle nostre esclusive esigenze? Soprattutto può il custode distruggere ciò che gli è stato affidato?
Ora, prescindendo da valutazioni assurde del carico umano sostenibile dal pianeta, possiamo chiederci se la previsione di una popolazione mondiale di oltre 9,5 miliardi nel 2050 rappresenti già un fattore di preoccupazione, vista la critica situazione ambientale odierna e il deterioramento climatico in atto causato dalle attività umane.
Fra quanti condividono la preoccupazione per la grave situazione ambientale, in ambito cattolico prevale la tesi che, a provocare tali guasti, siano il consumismo estremo dei Paesi ricchi e un sistema economico-produttivo teso solo a massimizzare il profitto, mentre, al momento attuale, la crescita demografica non avrebbe alcuna responsabilità in merito.
È vero che la ricerca del profitto a ogni costo e il consumismo, derivante da un modello economico che considera i consumi come un mezzo per fare girare la macchina dell’economia, sono cause preponderanti del degrado ambientale. Ma si può sottovalutare una crescita demografica che ha visto più volte il raddoppio della popolazione del pianeta in un periodo storicamente molto breve? In Africa ci sono Paesi, come Nigeria, Etiopia, Egitto, Ruanda e Burundi, che già scoppiano e non sono in grado di sostenere la popolazione sul piano alimentare. In Asia, il Bangladesh ha più di mille abitanti per kmq e la gente cerca di lasciare il Paese perché non c’è più spazio vivibile.
Non è solo la ricerca del profitto a minacciare l’ambiente, i sistemi ecologici e le foreste, quelle equatoriali in particolare. Queste ultime (i polmoni del nostro pianeta), nel Sud-est asiatico e in alcuni Paesi africani e dell’America latina, vengono abbattute anche per fare posto a campi coltivati richiesti da una popolazione in continua crescita.
Se, come pare vero, sono i consumi della parte ricca del pianeta a incidere maggiormente sul suo degrado, allora bisognerebbe prenderne atto e agire di conseguenza. Ma la quasi totalità degli esponenti politici, degli economisti e degli imprenditori (anche quanti si dichiarano cattolici) invoca la fine dell’austerità e una ripresa della crescita economica; e opera per rilanciare i consumi in Paesi che sono già i massimi consumatori di risorse e i maggiori produttori (pro capite) di anidride carbonica.
Non c’è forse uno stretto nesso fra queste auspicate politiche economiche e l’ineguale distribuzione delle risorse disponibili? E non sono esse ad alimentare il consumismo?
Assumendo l'impronta ecologica come riferimento dell’impatto negativo dei consumi umani sul pianeta, non c’è dubbio che a farla da padrone sia il consumismo delle popolazioni dei Paesi sviluppati. A fronte di un valore medio planetario di 2,7 ettari pro capite (da Ecological Footprint Atlas 2010, ed. Global Footprint Network), vediamo che europei e nord americani richiedono per le loro necessità da 4 a 8 ettari pro capite, mentre nell’Africa nera molte persone vivono con le risorse di meno di un ettaro pro capite, e, dove le cose vanno meglio, si raggiungono al massimo i 2 ettari. Però non si può nascondere che il valore medio planetario odierno dell'impronta ecologica supera già la superficie biodisponibile pro capite che è di circa 1,8 ettari; e le cose peggioreranno quando sulla Terra ci saranno oltre 9 miliardi e mezzo di esseri umani. Anche riducendo nel Nord del pianeta, come è auspicabile, i consumi superflui e le relative emissioni di CO2 e di inquinanti, e tenuto conto che chi vive nei Paesi poveri intende migliorare la sua condizione (le migrazioni in corso ne sono il segno), è difficile negare che comunque la dimensione demografica sia un elemento primario nel definire il futuro del pianeta.
Su “Avvenire” del 1° marzo 2016, Leonardo Becchetti scriveva che c’è un nesso inscindibile tra disuguaglianze e sostenibilità ambientale. Ciò riguarda anche la questione della crescita demografica. Afferma Becchetti: “Sappiamo infatti benissimo che gli squilibri demografici sono figli della povertà. I soli Paesi a crescita esplosiva sono quelli poveri. Appena le condizioni economiche migliorano e con esse il livello di istruzione, i ritmi di crescita della popolazione si abbassano. Ridurre le disuguaglianze vuol dire in questo caso ritrovare l’equilibrio limando gli eccessi opposti di tendenza alla sovrappopolazione del Sud e di declino demografico del Nord del mondo”. Approccio teoricamente valido, ma che prescinde da una realtà che ci dice cose diverse; soprattutto l’economista non tiene conto del tempo richiesto per raggiungere detto equilibrio.
Intanto, la tesi che nella seconda metà del secolo in corso la popolazione mondiale si sarebbe stabilizzata intorno ai 10 miliardi pare smentita dalle ultime previsioni che prefigurano oltre 11 miliardi di abitanti per la fine del secolo. Nel frattempo, la crescita di numerosi Paesi africani continua ad essere esplosiva. La sola Nigeria, che ha già una elevata densità demografica (circa 200 abitanti/kmq), e l'Etiopia verranno ad avere insieme, a metà del secolo in corso (fra 32 anni), più abitanti dell'intera Europa. Ci troviamo di fronte a un circolo vizioso che pare la rappresentazione di un cane che si morde la coda: se milioni di abitanti si aggiungono ogni anno a una popolazione già numerosa, non c’è politica economica possibile che possa migliorarne le condizioni, e la migrazione non sarà certo la soluzione.
La povertà non è solo la causa della crescita demografica, ma ne è anche, e soprattutto, la conseguenza. Inoltre, occorre rilevare che la crescita demografica non si attenua per effetto diretto del benessere, ma quando le popolazioni (e in particolare le donne) dispongono di mezzi anticoncezionali e di informazioni per usarli. È ciò che è avvenuto e avviene nei Paesi sviluppati, certamente in misura eccessiva tanto da provocare un crollo demografico.
Ci è stato detto, nell'incontro organizzato dall’Associazione sul tema “Aiutiamoli a casa loro”, che il ricorso agli anticoncezionali non funzionerebbe nei Paesi poveri. Ma ne siamo certi? Segnalo che ci sono numerosi Paesi poveri (con PIL annuo inferiore a 5.000 dollari pro capite) in cui con tali mezzi è stata raggiunta una fecondità intorno ai 2,1 figli per donna, atta a stabilizzare la popolazione: ad esempio in Iran, El Salvador, Birmania, Sri Lanka, Vietnam, Bangladesh, Nepal. Altri Paesi poveri sono prossimi a tale traguardo (2,2-2,5 figli per donna) come Tunisia, Marocco, India, Indonesia, Honduras, Guatemala, Sud Africa.
È necessario prendere atto dei gravi problemi che una crescita demografica ancora elevata crea in molte nazioni del Sud del mondo. Ogni intervento da parte della società internazionale (si tratti di aiuti economici o di investimenti produttivi) è destinato al fallimento se prescinde da tale aspetto. Di conseguenza, è indispensabile prevedere che i progetti di aiuti europei a tali Paesi, in particolare a quelli africani, includano, fra le misure di intervento, il sostegno a politiche di istruzione della popolazione femminile a fini del contenimento demografico.
Seguire questa strada non è incompatibile con una profonda e necessaria redistribuzione delle risorse tra Nord e Sud del mondo. Altrimenti, quanto tempo ci vorrà perché si riduca spontaneamente a valori sostenibili la fecondità femminile nei Paesi in cui è ancora molto elevata?
Il tempo necessario non è infinito. Senza interventi responsabili e urgenti, la situazione potrebbe diventare drammatica al punto di spingere i governi (come avvenne in India con lndira Ghandi) a dure azioni impositive con inaccettabile ricorso a sterilizzazioni e a pratiche abortive su larga scala. O, peggio ancora, il riequilibrio potrebbe essere la conseguenza di fatti traumatici come carestie, guerre ed epidemie. |