L'impiego dei robot nelle attività manifatturiere e ora anche in molti servizi, unitamente agli strumenti digitali informatici nella comunicazione, nel commercio, nelle funzioni amministrative e in molte attività professionali, sembra ridurre sempre più il lavoro umano, non solo manuale.
Tuttavia ci viene detto che questa è una visione pessimistica, perchè in passato il progresso tecnologico ha eliminato certe attività lavorative ma ne ha create altre.
All'inizio della rivoluzione industriale, le prime macchine a vapore erano state viste come una minaccia dai lavoratori britannici che diedero vita a un movimento di opposizione all'introduzione di dette macchine negli stabilimenti (il luddismo), talora distruggendole. Poi si accorsero che la macchina a vapore applicata a diversi ambiti avrebbe creato molti più posti di lavoro di quelli persi, e l'opposizione alle innovazioni cessò. Così dovrebbe essere anche con l’attuale rivoluzione tecnologica.
In quest'ottica, un economista torinese ha scritto che le ricadute negative della robotizzazione possono essere contenute con lo spostamento delle forze lavoro dalle produzioni negativamente toccate dal cambiamento verso la produzione dei robot. Ma il numero degli addetti alla costruzione di robot e dei connessi programmi digitali è equivalente a quello di tutti coloro che in numerosissime altre attività perdono il lavoro a causa di tali tecnologie? Credo sia lecito aver qualche dubbio in proposito.
In realtà sembra sempre più evidente che le opportunità lavorative prodotte dal nuovo che avanza non pareggino i posti di lavoro persi nel sistema economico in via di superamento.
Federico Rampini in L’età del caos descrive l’ascesa delle grandi imprese hi-tech del mondo digitale diventate le protagoniste dell’economia produttiva americana (Google, Amazon, Uber, Facebook e similari), i cui valori borsistici toccano i massimi. Porta ad esempio il valore in borsa di Facebook (245 miliardi di dollari) che supera di 10 miliardi il valore di Wal-Mart, il colosso mondiale della grande distribuzione con ipermercati ovunque. Oggi Wal-Mart è in difficoltà per la concorrenza del commercio on line gestito da quei colossi di internet. Tuttavia si tratta solo di colossi borsistici, perché quanto ad occupazione le cose vanno altrimenti. Infatti, mentre Wal-Mart ha 2.200.000 dipendenti, Facebook ne ha 10.000. E a perdere occupati a causa dei predetti colossi informatici non c’è solo Wal-Mart.
Guardando alle cose su un piano più ampio e a un futuro meno immediato, ci viene detto che si apriranno nuove occasioni di lavoro nell’assistenza agli anziani e agli ammalati, nell’intrattenimento, nella tutela dell’ambiente e del patrimonio culturale, nelle comunicazioni. Soprattutto si creerà lavoro nei settori avanzati: alta tecnologia, scienze della vita, ricerca di base e similari. La strada per combattere la disoccupazione è quindi lo studio, perché chi dispone di una specializzazione universitaria difficilmente resterà senza lavoro anche in futuro. Infatti chi svolge mansioni complesse, con una forte componente intellettuale, non sarà facilmente sostituibile dalle macchine.
Nella società della conoscenza verso cui stiamo andando, il lavoro verrà garantito a chi è più istruito. Pertanto, l’investimento nell’istruzione e nella formazione è la scelta prioritaria per combattere la disoccupazione. Quando tutti avranno un alto grado di competenze, la disoccupazione sarà sconfitta. Certamente voglio sperare che quanto ci preannunciano gli ottimisti si avveri, tuttavia ci sono alcune considerazioni da fare.
Ciò che è accaduto in passato va tenuto in debito conto, ma non è detto che la storia si ripeta negli stessi termini. La situazione odierna sembra più insidiosa: siamo molti di più su una Terra che ovviamente per superficie e risorse è quella di sempre; sono in cerca di lavoro non solo quanti lo hanno perso nelle società industrializzate, ma anche miliardi di soggetti che fino a ieri vivevano di poco nel Sud del mondo; il divario tra il livello di istruzione e di competenze tecnologiche dei Paesi avanzati, che ha assicurato il loro successo, si va riducendo rispetto a quello dei Paesi emergenti che ormai li inseguono da vicino; l’esaurimento di molte risorse e le modificazioni climatiche unitamente ai guasti ambientali prodotti dalle attività antropiche pongono limiti ai consumi con ricadute negative sull’occupazione.
Bisogna poi tenere conto della transizione dall’assetto industriale in cui siamo vissuti fino ad oggi a quello nascente imperniato sulla conoscenza, una transizione che non sarà indolore. Alessandro Barbera, in un articolo su “La Stampa”, ha scritto che, in Italia, nei prossimi 15 anni verranno meno oltre tre milioni (4,3 secondo lo scenario più pessimistico) di occupati nei settori tradizionali. Inoltre, i nuovi sbocchi lavorativi che si creeranno richiederanno competenze che i fuoriusciti dal lavoro non posseggono, e alle quali non sarà facile indirizzarli e addestrarli.
Ci sarà pertanto bisogno di fornire un reddito a chi perde il lavoro e non sarà in grado di entrare nelle nuove attività. Che sia un reddito di cittadinanza, o di inclusione, o qualche cosa di analogo sarà comunque molto simile a un sussidio che, anche se fosse adeguato, sarà ragione di avvilimento per il lavoratore disoccupato. In ogni caso, coloro che avranno a soffrire dalla transizione faranno sentire la loro voce e reagiranno con i mezzi di cui potranno disporre (dal voto, alle proteste e alle agitazioni più o meno pacifiche). Quindi ci saranno conseguenze sul terreno politico, e risulta difficile prevedere dove tutto ciò potrà condurre e come impatterà sullo stesso processo di transizione.
Infine c’è un aspetto, di cui raramente sento parlare, che riguarda i mutamenti del quadro economico, politico e sociale che inevitabilmente accompagneranno il passaggio all’assetto imperniato sulla conoscenza.
Nell'alto Medio Evo, ad un’economia basata sull’agricoltura corrispose una società feudale in cui il potere era nelle mani di una aristocrazia che dominava le campagne popolate da contadini direttamente asserviti al feudatario. Con lo sviluppo delle attività commerciali, dell’artigianato, delle prime rudimentali industrie e il nascere del capitalismo, si è progressivamente accresciuto il ruolo della borghesia. Nelle città, essa ha assunto una posizione di rilievo grazie alla ricchezza conseguita con il commercio, dando vita all'esperienza dei Comuni e poi delle Signorie. Nelle grandi monarchie europee, a questa fase è corrisposto l'assolutismo con il quale i monarchi hanno retto lo Stato tramite la burocrazia (nei cui ranghi erano prevalenti i borghesi), e in economia si è imposto l’indirizzo mercantilistico. Con lo sviluppo dell’industria e la piena affermazione del capitalismo, la borghesia è diventata la classe dominante e ha introdotto, con l’ideologia liberale, la democrazia parlamentare.
Ora, quali cambiamenti comporterà l’ingresso nella società imperniata sulla conoscenza? Il capitalismo potrà sopravvivere?
Ci dice Jeremy Rifkin che quanto già oggi viene prodotto nel mondo della comunicazione, dello spettacolo, dell’intrattenimento e dell’editoria è reso accessibile gratis, o quasi. Il fenomeno in un futuro molto prossimo si estenderà ad altri settori. Questi fatti incidono sul profitto e sullo stesso concetto di proprietà, indebolendoli. Nella società della conoscenza, i prodotti principali delle attività saranno le idee, i progetti, i brevetti, ma fino a che punto potrà essere mantenuto un prezzo o un valore a questi beni immateriali, o piuttosto non diventeranno un patrimonio comune? Ci sono quindi scenari che lasciano intravedere una crisi del sistema capitalistico, o comunque una sua trasformazione, se non un ridimensionamento, che inevitabilmente avrà conseguenze anche sulle istituzioni.
Nella vita dei Paesi, al crescere del livello di istruzione aumenta la domanda di partecipazione anche nella sfera delle decisioni politiche. La società, o l’economia, della conoscenza ha come attori persone istruite in possesso di titoli di studio universitari, sovente di alta specializzazione. Ci potremmo quindi attendere una società democratica, ugualitaria e partecipativa. Già oggi la domanda di partecipazione si fa sentire e non sembra bastare a soddisfarla poter votare ogni cinque anni. Ma si tratta anche di una società complessa e in continua evoluzione in cui inevitabilmente ci saranno compiti indispensabili per il suo funzionamento e competenze tecniche richieste a tal fine. E poiché non bastano i soli percorsi di studio per renderci tutti capaci di tali compiti, ci saranno persone che potranno accedere a un tale ruolo ed altre, maggioritarie, che ne saranno escluse.
Una anticipazione della complessità della futura economia della conoscenza si può, in qualche misura, già intravedere nel mondo attuale dei flussi finanziari, di quelli informativi e delle reti nel quale sono sempre i detentori (o semplicemente i gestori) delle infrastrutture distributive (immateriali e materiali) a dare le carte e a condurre il gioco.
Ne potrebbe emergere una società tecnocratica, sostanzialmente oligarchica.
In quale direzione si muoverà la società della conoscenza? Resta pertanto un problema aperto.
E allora mi lasciano alquanto perplesso coloro che oggi ci parlano della società della conoscenza come un traguardo in grado di risolvere il problema dell’occupazione, e di tutte le altre situazioni critiche, senza porsi interrogativi sugli ostacoli frapposti a un tale cammino, sulla transizione verso di essa, e non si interrogano sui cambiamenti sociali, politici e istituzionali che necessariamente dovranno accompagnarne il percorso.
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