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Le trasformazioni del lavoro

 
di Franco Maletti
 

Il lavoro cui faceva, e continua a fare riferimento, la Costituzione Italiana, dopo settant'anni non è sicuramente rispondente al lavoro di oggi. Per "lavoro" intendiamo ancora una occupazione stabile, garantita per tutta la vita, con progressivi scatti di anzianità e avanzamenti di carriera. Insomma, un lavoro sicuro che consente di beneficiare di prestiti bancari per la costruzione della casa, per l'acquisto dell'automobile, per gli studi dei figli. Tutta la nostra comunità ruotava, e  tenta di ruotare ancora, intorno alla stabilità del posto di lavoro come regola per giudicare le garanzie, anche morali, delle persone. E purtroppo, anche se ci troviamo in pieno periodo di precarietà del lavoro, queste regole antiquate rappresentano ancora la condizione necessaria per ottenere un prestito. Diventa così quasi impossibile avviare una piccola imprenditorialità o anche solo superare una crisi economica temporanea. Chi non ha un lavoro stabile e sicuro, se non viene guardato con disprezzo viene tuttavia considerato un perdente, una persona di cui “non ci si può fidare”.
 
Il declino progressivo dell’articolo 1 della nostra Costituzione (“L’Italia è una Repubblica democratica fondata sul lavoro”…) ha probabilmente un inizio negli anni Settanta quando nelle grandi aziende industriali hanno avuto inizio i processi di automazione con la comparsa dei primi “robot”. Superati la curiosità e lo sconcerto iniziali – nonostante le promesse dei datori di lavoro che l’introduzione della robotica avrebbe finalmente liberato i lavoratori da lavori umilianti e ripetitivi, alienanti e causa di malattie fisiche e nervose, dando loro una “dignità” – qualcuno tra i lavoratori ha cominciato a chiedersi se questa novità non avrebbe causato la perdita di posti di lavoro e un aumento della disoccupazione.
Si trattava di un problema nuovo e serio, causa di preoccupazioni. Già allora, oltre a sancire che “nessun lavoratore dovrà essere licenziato” qualcuno aveva proposto, a titolo di compensazione, l’istituzione di una “tassa sui robot”.
Gli industriali parlarono di proposta “strampalata”, frutto di qualche mente rivoluzionaria, inventata per  bloccare il “progresso” e dimostrare che “i padroni” guardano solo ai loro profitti e se ne fregano dei lavoratori”. Qualcuno ci ha pure riso sopra, definendola una pittoresca variante del “luddismo” con un secolo di ritardo. Il sindacato ha archiviato rapidamente la proposta, forse incapace di capire la portata del problema o forse per paura di passare per oscurantista nei confronti dell’inarrestabile Progresso. Le grandi industrie, accortamente, si sono guardate bene dall’effettuare licenziamenti, trasferendo piuttosto i lavoratori ad altre mansioni meno faticose sul piano fisico e riducendo il turnover: questo, in una azienda come la FIAT, era di circa diecimila persone l’anno su un totale di circa 200mila. Non sostituire i lavoratori che andavano in pensione con nuovi assunti, riduceva il numero dei dipendenti fino a diecimila unità l’anno… Così è stato in tutte le grandi aziende, non solo metalmeccaniche, con buona pace di tutti, sindacato compreso.
Qualche anno più tardi sono arrivati i sistemi informatici, andando a colpire gli impiegati, lavoratori che non avevano subito gli effetti della robotica. Sull’ informatizzazione del lavoro i sindacati non si sono mai spesi molto: per i rappresentanti dei lavoratori gli impiegati erano un categoria “venduta al padrone”. E ancora bruciava la marcia dei quarantamila, che aveva umiliato i sindacati e stroncato la protesta operaia. Sotto sotto, per i sindacati si trattava di una vendetta postuma: “si arrangino” era la voce che correva.
 
E facciamo un salto agli anni nostri, quelli della “globalizzazione”, dove i “padroni” hanno chiuso le fabbriche e fanno i finanzieri, dove i posti di lavoro sono sempre più ridotti, e dove la digitalizzazione incombe sui livelli occupazionali anche in settori ritenuti privilegiati, come quello delle banche.
Qualche settimana fa, quasi a sorpresa, uno dei grandi ricchi della Terra come Bill Gates ha osservato che “stabilire una tassa sui robot e sugli automi non sarebbe sbagliato: in quanto sostituiscono in tutto e per tutto l’uomo per fare produzione”. Qualcuno ha pensato a una provocazione, qualche altro ha insinuato di chissà quali interessi personali del boss di Microsoft. Io, invece, mi sono subito ricordato quella vecchia proposta fatta cadere nel ridicolo. Oggi Bill Gates, che non è uno sprovveduto, la riprende, e penso che valga la pena ragionarci seriamente. Infatti è giusto che l’automazione sia soggetta a una forma di “contribuzione” per sostituire il lavoro soppiantato, a sostegno del welfare e delle casse sempre più disastrate dell’INPS. In modo da consentire una forma di risarcimento a chi per queste cause ha perso opportunità di lavoro.
 
Tornando indietro nel tempo, agli inizi degli anni Ottanta, c’è un terzo fenomeno inquietante a colpire il mondo del lavoro: le cessioni di rami di attività da parte delle aziende.
In precedenza, grazie sia alle lotte sindacali sia a imprenditori illuminati come Adriano Olivetti, le grandi fabbriche si “umanizzavano”, gestendo in prima persona attività di assistenza sanitaria e prevenzione, scuole di formazione, mense aziendali, sorveglianza, pulizie, case per i lavoratori e loro famiglie, colonie estive… finendo per fare dell’Azienda un’isola autonoma e perfettamente autosufficiente circa ogni esigenza del lavoratore. Da un certo punto in poi, queste attività sono state cedute in “appalto”. Sono nate, di conseguenza, tutta una miriade di piccole attività imprenditoriali che offrivano e offrono, a costi inferiori, tanti servizi che l’Azienda gestiva con proprio personale. Questo ha comportato la drastica riduzione del numero dei dipendenti, riversando queste attività su lavoratori esterni, con minori tutele, operanti in aziende spesso costituite da imprenditori improvvisati o addirittura ex dipendenti dell’Azienda per la quale poi forniscono i servizi.
La precarizzazione del lavoro credo che abbia avuto inizio proprio a partire da quel periodo. È stata la durissima risposta imprenditoriale al concetto, caro a una certa sinistra e alla quasi totalità dei sindacati, secondo cui il lavoratore di una grande azienda deve essere “un garantito a vita”. L’azienda deve sempre farsene carico, aiutata dagli ammortizzatori sociali, a prescindere dalle trasformazioni produttive e dall’andamento dei mercati.
 
Oggi, gli effetti della globalizzazione e le normative europee (direttiva Bolkenstein) sulla libera circolazione delle merci, delle attività e delle persone, hanno prodotto una feroce competizione tra tutte le aziende fornitrici di servizi. Quelle con sede in Paesi dove il costo del lavoro è contrattualmente inferiore si stanno progressivamente aggiudicando, in una gara al ribasso, i vecchi appalti sicuri e garantiti. Generando una “lotta tra poveri”, fatta di furbizie e cavilli legali, tra gruppi di lavoratori dei diversi Paesi dell’UE, il tutto favorito anche da una mancanza adeguata di controlli. Su questi temi i parlamentari italiani eletti al Parlamento europeo, non importa a quale partito appartengano, sembra che siano andati a Bruxelles più che altro in vacanza. Come sottovalutano le conseguenze di decisioni che vengono prese e vincolano l’Italia al loro rispetto. Chi ci rimette alla fine sono i lavoratori: dopo essere stati assunti regolarmente (anche con il Jobs Act che, a detta del suo ideatore, “ci invidiano tutti”), dopo tre mesi o anche più, senza aver nel frattempo percepito neanche un centesimo, sono costretti ad abbandonare il lavoro, oltretutto con scarsissime probabilità di recuperare i crediti maturati.
È inevitabile, applicando nel lavoro regole diverse, avere una distorsione del sistema della libera concorrenza. In Italia si pone rimedio alla minore competitività con il meccanismo “fai da te” dell’evasione fiscale, sempre alta per la carenza cronica di controlli: così il danno si ripartisce sull’intera comunità, ma penalizzando gli onesti, i primi a chiudere bottega, e accentuando la catastrofe sociale.
 
In modo quasi unanime, gli esperti del settore ritengono che il lavoro per tutti, almeno in Italia, ormai non c’è più. Bisogna allora potenziare le forme di assistenza e valutare una riduzione generalizzata dell’orario di lavoro. Senza commettere l’errore di continuare a considerare il lavoro dipendente come l’unico destinatario di attenzioni e tutele. Conviene considerare meglio il lavoro  autonomo, come regolamentarlo semplificando le procedure, come favorirlo, come “assisterlo”. Magari convincendosi che il lavoro dipendente andrà progressivamente a scomparire, salvandosi soltanto in alcuni settori come il pubblico impiego o l’assistenza.
Se si andasse verso una riduzione generalizzata dell’orario di lavoro per consentire a tutti di avere un’occupazione e un reddito, non potrà che essere limitata ai rapporti di lavoro subordinato. Ci sono lavori e professioni ai cui addetti non può essere imposta una riduzione della prestazione lavorativa senza arrecare un danno all’intera comunità, che si vedrebbe privata di parte dei talenti di questi lavoratori di “eccellenza”, ad esempio i chirurghi. Ma è già in atto un aumento di assunzioni part-time, a orario ridotto, verificabile tramite i dati INPS. In molti casi si tratta di lavori a tempo pieno mascherati, per ridurre i costi al datore di lavoro e occultare sue attività in nero. Se questo malcostume si estendesse, il possibile aumento occupazionale attraverso la riduzione per legge dell’orario di lavoro diventerebbe una chimera.
 
Le attività autonome, invece, stanno aumentando in modo vertiginoso. Non sempre possono essere definite “lavoro” in senso stretto: spesso non ci sono precisi tempi di lavoro, spesso si mescolano con il volontariato (interventi a salvaguardia del territorio, di conservazione e riparazione di oggetti, di trasformazione e di riciclo), spesso sono improvvisazioni temporanee. Se va bene, solo successivamente diventano attività stabili. A volte ci sono anche intuizioni geniali che possono generare nuovi filoni produttivi.
A tutte queste attività manca però il supporto adeguato, anche economico, di persone competenti. I detentori del potere di finanziare queste attività sono spesso dei burocrati ottusi, operanti per conto di terzi, e miranti soltanto al massimo del guadagno nel minor tempo possibile. Soprattutto, vogliono garanzie, garanzie che nessuno può dare se non rischiando l’osso del collo. Ci vorrebbe un intervento dello Stato. Ma lo Stato che cosa ha fatto sinora? Invece di utilizzare al meglio i pochi miliardi disponibili, ha soltanto saputo dare ottanta euro mensili a chi ha già un lavoro come lavoratore dipendente!
 
Continuiamo purtroppo a vivere in una condizione di confusione perenne. I nostri rappresentanti politici sembrano solo preoccupati di salvaguardare il loro potere personale. Il senso di comunità si è perduto. Si vive tra insulti e falsità, manipolando la verità solo per colpire l’avversario politico. Non c’è un progetto, non c’è una proposta seria per uscire dal guado. I politici vivono alla giornata, cavalcando le emozioni che la notizia del momento ha provocato nell’opinione pubblica. Ma pronti a sostenere il giorno dopo l’esatto opposto se il vento cambia. Manca, tragicamente, una visione d’insieme delle cose. E il mondo del lavoro ne è un esempio emblematico.
Comunque sia, di fronte a tutte le trasformazioni avvenute, sarebbe forse opportuno modificare l’articolo 1 della nostra Costituzione: “L’Italia è una Repubblica democratica fondata sulla operosità dei suoi cittadini, lavoratori subordinati e autonomi, retribuiti e non”.


Giuseppe Ladetto - 2017-07-07
Ottima ricostruzione dei fatti e condivisibile analisi della situazione attuale
Giuseppe Davicino - 2017-07-07
Un bagno nella realtà contraddittoria e preoccupante del mondo del lavoro odierno. Mentre alla deflazione tecnologica si può rispondere solo con altra innovazione, governandone le implicazioni socio-economiche, molto la politica può ancora fare sulla deflazione da debito. Da anni ormai le assurde politiche di bilancio improntate all'austerità producono (e addirittura vogliono) una svalutazione del lavoro sotto il profilo dei salari e dei diritti e sono responsabili della crisi della domanda interna, senza la cui ripresa, non si crea nuovo lavoro né si riducono le disuguaglianze. Senza un deciso cambiamento di politiche economiche e monetarie la situazione nell'arco di qualche anno non sarà più sostenibile sia sul piano economico e sociale che su quello democratico.