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Ripristinare il ruolo della politica

 
di Giuseppe Ladetto
 

Ho seguito su youtube un interessante dibattito sul tema del populismo fra Marco Tarchi (professore di Scienza politica dell’Università di Firenze) e Massimo Cacciari (che non richiede presentazione). Per entrambi il populismo, come oggi viene inteso (che pare aver poco di riconducibile ai movimenti che lo hanno connotato storicamente), è il sintomo (non la causa) di una malattia alla cui base c’è il fallimento della politica e delle classi dirigenti affermatesi a partire dall’inizio degli anni Novanta.
 
Per Tarchi, il Novecento è stato il secolo dei totalitarismi. Questi – fascismo, nazismo e comunismo – hanno determinato lo straripamento della politica da quello che era il suo alveo tradizionale, ossia il governo della cosa pubblica, per invadere la totalità della società (da cui il termine “totalitarismo”). Infatti la politica, nei paesi totalitari, ha investito tutti gli ambiti, avendo mirato a determinare ogni aspetto della vita delle persone; anche l’economia e il diritto sono stati piegati e sottomessi al totale dominio della politica.
Il crollo dei totalitarismi, e le vicende tragiche e sanguinose ad essi connesse, hanno comportato il rifiuto dell’invasivo ruolo della politica e condotto pertanto a restringere sempre più gli spazi in cui essa si esprime; lasciando così pieno campo all’economia e privilegiando il ruolo del diritto, con la conseguente giuridificazione di crescenti ambiti della vita sociale.
È stato detto che, con la vittoria del capitalismo a guida statunitense, si era giunti alla “fine della storia”. Il nuovo ordine mondiale si prometteva di porre termine ai conflitti (fra popoli, fra classi sociali, fra culture e fra visioni del mondo) e di aprire un’epoca nuova in cui tecnica, economia e diritto avrebbero risolto tutti i problemi e dato vita ad un paradiso in terra. Le cose non sono andate in tale direzione, e quando la gente ha cominciato ad accorgersene ha scaricato la rabbia su un ceto politico che si è ridotto ad essere impotente proprio per aver privilegiato l’economia e lasciato campo ai tecnici del diritto, sicché, in un’ottica utilitaristica, ha finito per badare solo più al proprio utile, come evidenzia il dilagare della corruzione (non solo in Italia). Il pendolo della storia ora riprende a oscillare andando in altra direzione: si fa sentire la domanda di una politica capace di affrontare i problemi odierni.
 
Secondo Cacciari, il ceto politico europeo (e ora anche americano) che per più di venti anni ha deluso il popolo perché non ha realizzato le promesse uscendo sconfitto dai fatti, non è più credibile e non ha la possibilità di riciclarsi e di candidarsi alla guida dei tempi nuovi che ci attendono. Restano in campo i populisti, ma anche loro sono destinati a fallire. Essi esprimono le domande, i bisogni, i desideri della gente, ma si identificano con essa: per loro, non vale più la distinzione fra rappresentanti e rappresentati. La politica, invece, implica soggetti (i politici) che non si identifichino col popolo; soggetti che elaborino progetti, mettano in campo idee, abbiano una visione del mondo da proporre indicando obiettivi possibili e spiegando come, con quali mezzi e in che tempi intendono raggiungerli. In breve, sono indispensabili politici che agiscano secondo un’etica della responsabilità.
Chi dice che uno vale uno, che non deve esserci differenza fra rappresentati e rappresentanti, e nega il ruolo essenziale che ogni vero partito deve avere, non può concludere nulla di valido. Anzi, non fa altro che ulteriormente sminuire il ruolo della politica, lasciando il campo al solo dominio dell’economia e dei tecnici del diritto. Purtroppo, dice Cacciari, un ordine alternativo capace di creare un nuovo equilibrio non è all’orizzonte e non è neppure garantito che arrivi.
 
Non entro in merito a questa pessimistica conclusione. Ho fatto riferimento a questo dibattito perché condivido la diagnosi che vede, fra le cause principali dei guasti odierni, la marginalizzazione della politica, il cui spazio è stato occupato dal mercato e dalle sentenze dei magistrati. Oggi è necessario restaurarne la funzione riportando economia e diritto entro gli ambiti più ristretti che competono loro.
Mi sembra che ci sia in giro una crescente consapevolezza del troppo peso esercitato sulle nostre vite da parte del mondo economico e finanziario, e si facciano sentire voci che ne invocano un maggiore controllo. Assai minore è invece la preoccupazione per gli sconfinamenti del potere giudiziario quando sembra sostituire il Parlamento con sentenze che di fatto diventano leggi, o quando blocca provvedimenti dell’esecutivo giudicandoli lesivi di fonti normative di rango superiore alla legislazione corrente. Per non dire di quanto accade in Italia, dove i TAR intervengono su ogni tema e bloccano ogni decisione in qualunque ambito della vita pubblica, con gravi conseguenze per le attività economiche e produttive. È questo un argomento difficile da trattare; e chi, come il sottoscritto, non ha alcuna competenza giuridica rischia di fare chiacchiere da bar. Lascio pertanto la parola a chi è competente o comunque autorevole in materia.
Mario Cicala (già membro del CSM ed ex presidente dell’Associazione nazionale dei magistrati), in un articolo sul “Nostro Tempo” di qualche anno fa, denunciava che, in tutto l’Occidente e in particolare in Europa, si sta affermando una democrazia elitaria nella versione giudiziaria. La democrazia giudiziaria poggia sulla convinzione dei giudici di non essere un mero strumento per l’attuazione della legge approvata dal Parlamento, bensì di essere chiamati a dare corpo e sostanza al Diritto, a qualche cosa che prescinde dalle singole leggi scritte. Questa convinzione è favorita dall’intreccio di fonti normative (Costituzione, Convenzione europea dei diritti dell’uomo, Carta di Lisbona, ecc.) in cui primeggiano disposizioni di principio di rango superiore alla legge scritta. Ma i princìpi giuridici, scrive Cicala, sono come la luna: ogni innamorato vi legge il volto dell’innamorata. Se contempliamo a lungo un oggetto vi proiettiamo l’immagine della nostra mente. Ci dicono che la soggezione del giudice alla legge è un mito mai compiutamente attuato anche in altri tempi, quando la magistratura era meno protagonista. Ma miti sono anche l’uguaglianza, la libertà, la democrazia. I miti non sono sogni o illusioni; sono valori politici che plasmano la società pur se non si inverano al 100%.
Oggi una parte della magistratura non accetta il mito della soggezione alla legge e rivendica un ruolo politico. Così il magistrato diventa giudice e sacerdote, non attua solo il diritto, plasma anche la morale.
Anche Ernesto Galli della Loggia (storico e autorevole interprete del nostro tempo), pur affrontando il tema da una diversa angolazione, giunge a un’analoga valutazione del ruolo debordante del mondo giuridico. Ha infatti scritto che “le società occidentali sembrano essersi fatte un punto d’onore nel progressivo indebolimento dei loro valori identitari, del legame con la tradizione culturale, dunque con la storia, sostituiti da una vera e propria fissazione sulle regole e su chi e come le amministra (giudici e tribunali). Da tempo, in tal modo, le società occidentali appaiono sempre più avviate sulla strada dell’astrattezza e del formalismo, in una parola dell’irrealtà”.
Oggi, assegnare alla politica il ruolo che le spetta, significa anche riportare alla realtà tutti quanti ne hanno perso il concetto stesso (a partire dai cultori di un diritto astratto, ma non solo loro). Una realtà che sempre implica rispetto dei limiti, a partire da quelli imposti dalla natura, che richiede di misurarsi con i dati quantitativi che caratterizzano ogni fenomeno, e quindi con le risorse disponibili e con le situazioni materiali e storiche in cui vivono e agiscono gli esseri umani in ogni epoca e luogo.