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Il superamento del capitalismo: solo utopia?
 
di Giuseppe Ladetto
 

In Europa non è mai scomparsa, ancorché frazionata, una sinistra antagonista che continua a definirsi comunista e crede in un possibile non lontano superamento del capitalismo. A giustificare l’attesa di cambiamento, sono le molte situazioni critiche a cui l’attuale sistema economico non sembra più in grado di dare risposte: c’è la disoccupazione di massa di natura strutturale; si assottiglia il ceto medio; si fanno più marcate le distanze fra alta borghesia e ceti popolari; si accelerano i processi di concentrazione del capitale nelle mani di sempre più ristrette oligarchie.
A questo quadro negativo, si aggiunge la perdita di fiducia nella capacità di autoregolazione dei mercati a causa delle crisi economiche e finanziarie. Infatti, il capitalismo si dimostra sempre meno in grado di controllare i processi che genera, come emerge dalle molte richieste di salvataggi fatti dalle banche e dei conseguenti massicci interventi statali. Ne scaturisce una evidente mancanza di legittimità dell’attuale sistema economico-finanziario. Di qui, viene detto, nasce l’esigenza di fuoriuscire dal capitalismo.
Tuttavia, non si vedono in giro molti disponibili a una tale impresa, malgrado la crescente contestazione dell’establishment, responsabile di aver favorito una globalizzazione che ha drammaticamente spaccato la società.

Secondo la sinistra alternativa, gli attori del processo di superamento del capitalismo vanno individuati in quei partiti della sinistra in cui c’è ancora un legame con la classe lavoratrice, nei numerosi movimenti antagonistici, nei portatori di nuovi diritti che esprimono le istanze di settori della società ancora marginalizzati. A tal fine, bisogna coinvolgere nella lotta le differenti declinazioni dell’anticapitalismo, che spaziano dalle lotte operaie alle battaglie per i diritti dei migranti; dall’impegno ambientalista alle rivendicazioni sessuali e di genere. L’obiettivo di lungo termine resta il comunismo, mentre al presente occorre contrastare in tutti gli ambiti le dinamiche capitalistiche per porre rimedio ai molti guasti che producono.
Generalmente quando si indica il comunismo come lo sbocco (sia pure a lungo termine) della trasformazione rivoluzionaria della società, non manca mai il discorso che, in queste occasioni, viene proposto da chi milita nelle varie espressioni della sinistra alternativa: si tratta, viene detto, di un comunismo che nulla ha a che vedere con le discusse e talora tragiche esperienze del socialismo reale. Peccato che nella percezione comune il termine richiami proprio tali esperienze, e che sia difficile immaginare in che cosa possa differenziarsi da esse in assenza di modelli appetibili calati nella realtà.

Altro discorso riguarda la credibilità degli attori ritenuti i possibili protagonisti dell’impresa.
I sindacati nel mondo globale appaiono indeboliti e disorientati, quasi incapaci di identificare la controparte nelle vertenze. I partiti tradizionali della sinistra, in maggioranza convertiti a un riformismo di impronta neoliberale, da tempo hanno accettato il sistema e non sembrano disponibili ad avviare un processo di cambiamento. Alla loro sinistra, ci sono i piccoli partiti con velleità antagonistiche e movimentiste e le innumerevoli realtà della sinistra extra istituzionale, frantumate da differenze ideologiche e organizzative e dai personalismi dei molti aspiranti leader. Mettere insieme il tutto, in vista di un obiettivo comune, appare un’impresa titanica.

Nella società globale, con il trionfo del turbocapitalismo, la lotta di classe sembra essersi dissolta. Gli sconfitti sono divisi, destrutturati e privati di una propria cultura, e non costituiscono più una classe capace di mettere in atto una rivoluzione. Dobbiamo pertanto concludere che bisognerà convivere ancora a lungo col capitalismo? Giorgio Ruffolo, tempo fa, disse che il capitalismo sarà certamente superato, ma del fatto se ne parlerà tra qualche secolo. Attualmente, non so se direbbe con pari sicurezza una tal cosa, viste le molte situazioni critiche che, nei differenti ambiti, rivelano la crisi generale del sistema.
Il tradizionale pensiero marxista ha sempre valutato positivamente la crescita generata dall’economia capitalistica attribuendo l’origine di tutti i mali al meccanismo di accumulazione del capitale. Oggi, però, nessuno può evitare di misurarsi con la sostenibilità di una crescita senza limiti, e quindi sorge la questione della sostenibilità ambientale del capitalismo. Anche fra i marxisti, c’è chi comincia a tenerne conto.
Eric Hobsbawm (in Come cambiare il mondo: riscoprire l’eredità del marxismo) prende in esame, in una logica marxista, i possibili punti di rottura e di crisi dell’assetto capitalistico odierno, ma è costretto a riconoscere che il più evidente punto critico, assai poco riconducibile al marxismo, riguarda l’espansione dell’economia globale con i connessi danni ambientali. Si fa pertanto evidente il conflitto tra l’esigenza di limitare l’impatto dell’economia sulla biosfera e gli imperativi del mercato capitalistico: massima crescita continua alla ricerca del profitto.
David Harvey scrive (in L’enigma del capitale e il prezzo della sua sopravvivenza) che, per mantenere gli attuali indici di ricchezza, il sistema capitalistico necessita annualmente di un tasso composto di crescita del PIL mondiale di almeno il 3%, un livello insostenibile nel tempo a fronte delle risorse oggi disponibili sul pianeta e dell’impatto ambientale delle attività produttive.

E non ci sono solo i marxisti a nutrire dubbi sul futuro del capitalismo. Il progetto di un’economia rispettosa dell’ambiente, compatibile con un responsabile prelievo di risorse, sembra per molti aspetti indicare un percorso più realistico della rivoluzione comunista anche nel prospettare il superamento del capitalismo, un superamento che non deve comportare una rivoluzione violenta, perché non c’è alcun Palazzo d’inverno da conquistare, né alcuna classe di nemici del popolo da eliminare.
Serge Latouche (in Per un’abbondanza frugale), rispondendo alla domanda se la decrescita sia possibile senza uscire dal capitalismo, scrive: “Se in astratto è forse concepibile un’economia ecocompatibile in una situazione di persistenza del capitalismo dell’immateriale, in realtà si tratta di una prospettiva irrealistica perché il capitalismo generalizzato non può che distruggere il pianeta come distrugge la società e tutto quello che è collettivo”.
Anthony Giddens, pur senza collocarsi fra gli “obiettori di crescita”, rileva (in Le conseguenze della modernità) che l’accumulazione capitalistica, non essendo autosufficiente in termini di risorse, non può protrarsi all’infinito: pertanto, occorre porre limiti ben precisi ad essa. Lo sviluppo deve essere messo sotto controllo altrimenti ci condurrà ad un disastro.
Jeremy Rifkin (in La società a costo marginale zero) ci dice che “la logica operativa del capitalismo è destinata a fallire proprio a causa del suo successo”. Le continue nuove innovazioni tecnologiche, volte ad aumentare la produttività e ridurre i prezzi, comportano inevitabilmente la contrazione dei margini di profitto mettendo in crisi il sistema: senza profitto non c’è capitalismo.
Ed infine c’è papa Francesco che, nell’enciclica Laudato si’, denuncia la devastazione ambientale e sociale da parte di un mondo economico-finanziario che fa del profitto il suo unico orizzonte. Sono in molti a chiedersi fino a che punto sia possibile raccogliere il suo messaggio rimanendo entro i confini tracciati dal presente assetto economico-sociale che del profitto fa l’unico scopo.

Restano molti interrogativi. È quella attuale l’unica forma di capitalismo? L’economia sociale di mercato viene sovente invocata come alternativa, ma è dubbio che sia compatibile con una globalizzazione all’insegna di una spietata competitività. Ed altrettanto la dottrina sociale della Chiesa è applicabile nel contesto attuale di mercato globale? Se mai fosse necessario andare oltre il capitalismo, che cosa ci attenderebbe?
Il superamento del capitalismo, secondo Serge Latouche, non necessariamente richiede l’abolizione della proprietà privata, del mercato o del denaro: c’erano già in epoche precedenti alla sua nascita. L’obiettivo è mettere fine a un mercato totalizzante e pervasivo che mira a determinare ogni aspetto della vita in funzione della sola crescita del prodotto interno lordo. Si tratta di attuare un cambiamento della cultura e della gerarchia dei valori, che solo in seguito riguarderà il mutamento delle strutture.
Anthony Giddens ci dà qualche indicazione in merito. Egli ritiene che i sistemi complessi, come l’attuale società, non si possano efficacemente governare esclusivamente mediante controlli di tipo burocratico, come è stato nel socialismo reale, ma richiedano in larga misura il ricorso a meccanismi di autoregolazione. I mercati capitalistici hanno tale caratteristica, però producono marcate differenze nella distribuzione della ricchezza e quindi divisioni di classe. Se i beni primari non fossero limitati e potessero essere garantiti a tutti, i criteri di mercato, ci dice, potrebbero funzionare solo da dispositivi di autoregolazione. Si aprirebbe così uno spazio potenziale per un sistema “postscarsità” coordinato a livello globale.
Che senso ha una tale affermazione (incentrata su un sistema postscarsità) in un mondo in cui le risorse sono, non solo limitate, ma già in via di esaurimento?
Giddens risponde che la disponibilità di risorse è relativa ai bisogni definiti socialmente e alle esigenze di specifici stili di vita. Pertanto, per aggirare la scarsità di risorse, occorre modificare le forme della vita sociale e le aspettative di continua crescita economica. In parole povere, si tratterebbe di mettere al bando il consumismo fondato su beni usa e getta, su quelli rapidamente obsoleti per il non disinteressato succedersi delle mode; sui beni “status symbol”, e infine su quei prodotti cui la pubblicità associa emozioni (successo, inclusione sociale, felicità) che essi non possono certo assicurare, per privilegiare un consumo più limitato quantitativamente e più esigente qualitativamente, teso a soddisfare i bisogni fondamentali.
Jeremy Rifkin prospetta uno scenario similare: l’aumento della produttività e il quasi azzeramento dei costi marginali sono destinati a creare una società dell’abbondanza in cui beni e servizi saranno quasi gratuiti, segnando in tal modo l’inevitabile uscita dalla scena mondiale del capitalismo (che vive di profitti). Attori di questa trasformazione sono i prosumers, produttori dei beni e servizi loro necessari che condividono in rete.
Si pone anche in questo caso la stessa obiezione fatta a Giddens circa la compatibilità di un tale scenario con le risorse in via di esaurimento. La risposta data da Rinfkin è che l’abbondanza di cui scrive riguarderebbe i soli beni primari sicché, pure in questo caso, si ritorna all’insostenibilità di ogni modello economico-sociale fondato sul consumismo.

Anche nei messaggi degli ultimi Pontefici, c’è una forte denuncia del consumismo come causa di uno sviluppo economico distruttivo dell’ambiente e fattore di squilibrio nella ripartizione delle risorse tra paesi poveri e ricchi. Ma, al momento, il capitalismo odierno non sembra poter sopravvivere senza promuovere una crescente domanda di beni e servizi al solo scopo di far girare il motore dell’economia.


Giuseppe Davicino - 2017-01-31
Le questioni poste dall'articolata e dotta riflessione di Ladetto dovrebbero stare al centro del dibattito delle culture riformatrici. L'interesse del “centro” della società non è il superamento del capitalismo, ma la ricerca di un nuovo compromesso tra capitalismo e democrazia, compromesso che dipende in maniera evidentissima dal ritrovato ruolo degli stati nazionali, dalla rivalutazione dei confini e delle frontiere come garanzia di un livellamento verso l'altro degli standard di vita di tutti i popoli e come garanzia di pace. Il peggior nemico alla riforma del capitalismo è il globalismo, che droga l'economia sia nel senso di una abnorme e spregiudicata finanziarizzazione che nel senso di una centralizzazione forzata in un unico centro di controllo globale. È questo il motivo principale per cui si sono combattute le guerre degli ultimi trent'anni. É triste dover constatare l'esistenza di una sinistra obsoleta su questi temi, spesso culturalmente subalterna, quando non anche economicamente dipendente, dalle centrali delle èlites globaliste, che lascia tutta l'iniziativa alle altre forze in campo. Dobbiamo discutere molto di tali temi, se non vogliamo esser travolti dalla storia e se crediamo di esser ancora capaci di rappresentanza popolare, e se vogliamo veramente preservare la democrazia dai rischi che si prospettano nel momento in cui gli “esclusi” sono di gran lunga la maggioranza della società.
franco maletti - 2017-01-30
Basterebbe (nelle democrazie almeno) far valere questo principio: "Non si può mettere un limite alla povertà senza mettere un limite anche alla ricchezza". Così. Tanto per cominciare.
Aldo Cantoni - 2017-01-30
Il primo passo, spesso citato, ma ancora mai realmente attuato, dovrebbe consistere in un sistema fiscale che ostacoli l' economia finanziaria, generatrice di illusioni, e favorisca l' economia reale, i cui meccanismi funzionano se in essi si include il lavoro umano. Quanto e quale lavoro è problema importante, ma non risolubile finchè permarrà il fascino di una possibilità di ricchezza (ovviamente per pochi) generata dal solo spostamento di beni "virtuali".