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Il ruolo dei cattolici per ricucire il Paese
 
di Alberto Melloni
 

La Chiesa cattolica italiana è una realtà “minoritaria”: vanno a messa regolarmente “solo” in 7 milioni, per dirla con i numeri sui quali danza chi ha vinto il referendum. Mentre il primo governo Renzi tira i remi in barca, nel pieno di una crisi politica e culturale europea che purtroppo ha dei precedenti, è dunque possibile chiedersi non dov’è il voto cattolico (che per definizione è sempre ovunque), ma qual è stato il senso di un rapporto con la politica.

La coalizione di governo ha avuto davanti in questi anni bergogliani una parte di cattolicesimo conservatore ancora illuso di aver contato qualcosa nel periodo berlusconiano (dimenticando che “quando la Chiesa vince con la destra, è la destra che vince”), una parte di cattolicesimo organizzato da sempre pronta all' incasso e una parte di cattolicesimo pensante, che ha motivi per sentirsi usato e disprezzato. La coalizione non ha saputo leggere questa realtà complessa. Ha creduto che il rapporto personale di Renzi con Francesco, più intenso e riservato di quanto non si presuma, fosse una cambiale e non un test impervio. Ha confuso la politica estera vaticana con l’attivismo di gruppi ai quali la Santa Sede non ha mai dato deleghe. Non ha capito che il pacato endorsement al Sì della Civiltà cattolica era un consiglio e non un pegno elettorale. Ha imposto con superficialità istanze dei reazionari antibergogliani – si pensi alla esclusione dei laureati in Scienze delle religioni dai concorsi della scuola –. E non ha studiato abbastanza per sapere che le Banche Popolari sono il nervo scoperto del cattolicesimo sociale dall' unità d' Italia.
In più il governo e i renziani hanno visto minacce inesistenti negli interventi di alcuni vescovi, soprattutto in quelli di monsignor Galantino (ora raccolti nel volume Beati quelli che non si accontentano). Bastava che Galantino richiamasse i vistosi problemi di un Paese indebitato dal pentapartito, diseducato dall’andreottismo e screditato dal berlusconismo, perché scattasse una stizza infastidita. E inutile. Perché quel che la Chiesa può dare all’Italia non viene dal rapporto pattizio Chiesa-Stato né dal rapporto politico fra partiti e gerarchie: ma dalla qualità della vita cristiana profonda.

In un certo senso è sempre stato così, in Italia. Ai tempi della DC si pensava che fossero i preti a produrre moderatismo. Mentre era il moderatismo che portava i cattolici, come diceva don Milani, a “fornicare col liberalismo di De Gasperi”. Ma in quella era che Dossetti definiva “semi-pelagiana” ciò che la Chiesa dava davvero al Paese non erano né gli elettori inclini all’evasione fiscale né gli eletti vulnerabili alla corruzione: ma la manciata di statisti e dotti, la manciata di vescovi e di preti, che con la loro profondità nutrivano un Paese ferito dal fascismo e dalla guerra.
È stato così anche ai tempi di Berlusconi, quando Ruini aveva capito che i libertini bigotti e gli atei devoti erano interlocutori più inutili ma più docili degli europeisti come Prodi. Il che ha fatto un danno non solo al Paese, ma anche all' episcopato, ridotto a truppa silenziosa: e questo ha impedito per la prima volta la preparazione di cattolici “di riserva” e ha incubato turpitudini i cui schizzi hanno portato il conclave del 2013 a cercare un Papa agli antipodi da qui.

Nell’era di Francesco ciò che conta non è se o quanto il renzismo abbia capito/usato la Chiesa, o viceversa: è quanto questa “piccola” Chiesa, di cui Bergoglio è primate, possa inquinare o bonificare un Paese lacerato e ringhioso, con le qualità della propria vita cristiana.
Francesco ha chiamato per questo la Chiesa italiana alla sinodalità: confusa da alcuni vescovi con la partecipazione e per tutti gli altri semplicemente incomprensibile. Non ha imposto di dire un tot di volte l' anno le parole “periferie” e “Chiesa in uscita”, come fan tutti, ma ha posto una istanza teologica per guardare la storia con gli occhi dell’ultimo, sapendo che questo sguardo “fa” la storia. Ha mostrato che la Chiesa deve star lontana dal potere: perché se ha prodotto coscienze formate, queste non hanno bisogno di un cappellano a tempo pieno; e se non le ha prodotte, stando loro addosso, ne incoraggia il peggior opportunismo.

Quanto il Papa venga ascoltato lo sanno tutti: poco. E l’elezione del nuovo presidente della CEI a primavera dirà se quel poco è maggioranza o minoranza. Ma adesso il benchmark è questo posto da Francesco.
Così, mentre il cattolicesimo veloce dà già del “tu” ai grillini e alla ideologia di destra che impersonano, mentre il cattolicesimo pensante si domanda di chi è l’osso del collo messo in gioco con tanta disinvoltura, la questione non è l’appoggio passato presente o futuro della Chiesa, ma sapere se nel cristianesimo italiano c’è ancora qualche statista, oltre a quello mandato al Quirinale, e qualche vescovo capaci di mettersi gli occhiali sul naso, prendere ago e filo, e cucire un Paese ferito.

Tratto da “La Repubblica” del 10 dicembre 2016


Oreste Calliano - 2016-12-19
Leggo con interesse le reazioni, spesso sopra le righe, di chi dichiara di aver “vinto” o di aver “perso” nel recente referendum costituzionale. Poiché non condivido l’approccio da “teoria dei giochi” delle scelte elettorali né quelle “mercatali” in cui il consenso pubblico viene conquistato da chi ha più strumenti di marketing elettorale, soprattutto se si delibera sulle regole fondative di una comunità, quali quelle costituzionali, ma preferisco richiamarmi all’approccio classico del “conoscere per deliberare”, ritengo che i cattolici progressisiti abbiano perso in questa occasione una buona occasione per farsi ascoltare. Avevano dei valori forti in gioco, un metodo di discussione trasparente, un viatico di un Papa che invitava ad impegnarsi, in particolare per essere “sale della terra politica”. Si sono invece lasciati comprimere tra due istanze a loro estranee. Quella radicale volta a far prevalere i diritti individuali sui diritti-doveri comunitari e quella liberal-comunista volta ad evitare una sana “palingenesi” a favore di un ipocrita mantenimento di una nomenclatura dirigenziale post-sesantottina, che avendo ereditato un partito comunista ai massimi livelli, lo ha gradatamente visto “asciugarsi” ed ha preteso di essere sempre “elite” senza averne la statura paretiana, né la visione gramsciana. Questo è ciò a cui ha portato “ l’imagination au pouvoir”. Per fortuna tutto ciò è definitivamente finito! Speriamo non verso una Italia argentinizzata.
Giuseppe Davicino - 2016-12-14
Un articolo intelligente che fa discutere e che bacchetta quanti avevano trovato un modus vivendi accomodante col renzismo. Ma che da un altro verso si ferma alle premesse di quello che dovrebbe essere il ruolo dei cattolici nella fase odierna, non problematizza tante questioni che hanno a che fare con l'aumento delle disuguaglianze, con la crisi della democrazia e la qualità dell'informazione, con le guerre, che vedono anche i cattolici dalla parte sbagliata della storia. Mi stupisce, inoltre, che una persona niente affatto sprovveduta come Melloni possa seguire la vulgata secondo la quale il Paese sarebbe stato indebitato dai partiti della Prima Repubblica. L'eccessivo debito pubblico italiano, la sua esplosione a fine anni Ottanta, come ormai riconosce la maggior parte degli economisti, è diretta conseguenza delle politiche errate di Ciampi ed Andreatta, che hanno effettuato la separazione tra Ministero del Tesoro e Banca d'Italia. Tale separazione ci ha posto alla mercé degli speculatori internazionali sia per quanto riguarda la gestione del debito pubblico, sia soprattutto per l'emissione monetaria che da asset si è trasformata di colpo in debito. Da allora una quota cospicua del gettito va nelle tasche delle banche d'affari. Se i famosi “costi della politica” nel loro insieme non superano i 3-4 miliardi, qui stiamo parlando di cifre prossime ai 100 miliardi annui che vengono sottratti al popolo per lavoro, sviluppo, servizi e gentilmente omaggiati ai Signori del Debito. Poi qualcuno si lamenta dell'antipolitica. Benissimo, invece, quando osserva che il messaggio di Papa Francesco va vissuto e deve cambiare la mentalità e le opere, e non va declamato come se fosse una moda. Alla fine la questione non è sapere se c'è qualche statista cristiano ma come far fruttare i talenti dei molti cattolici che hanno senso dello Stato e che operano lontano dai riflettori. Ma questa è un'altra storia, da scrivere e soprattutto da realizzare senza più indugi.
Flavio Rosso - 2016-12-14
Concordo con la lucida analisi che, sostanzialmente, conferma il momento di incertezza che caratterizza il mondo del cattolicesimo, ma come al solito e come da troppo tempo quando si tratta di Religione ci si deve riferire a fatti, atteggiamenti e situazioni concrete. Lo stesso Santo Padre e di conseguenza la più alta gerarchia ecclesiastica, pubblicamente spesso appare con atteggiamenti di natura politica e ammonimenti per stimolare le sensibilità sociali. Viene da chiedersi è questa o principalmente questa la funzione della Chiesa? Oppure sarebbe quella far crescere il senso di Dio, di Redenzione, degli Imperscrutabili Disegni: una religione che si sostanzia quasi esclusivamente sulle vicende di cronaca, sia pur di grande rilievo come il fenomeno immigratorio e delle povertà, rischia tuttavia di circoscrivere la presenza di Dio, che dovrebbe essere Immanenza pura, alle sole vicende terrene. Non possiamo nascondere che la nostra è diventata una Religione "debole" in competizione perdente con quelle nelle quali è più presente l'affidamento all'Onnipotente considerato principio e fine ultimo dei credenti.