Tra le personalità che hanno dichiarato il proprio voto contrario al referendum costituzionale, il senatore a vita Mario Monti spicca per l’originalità della motivazione: voterà NO non tanto sul merito della riforma, che ritiene contenga aspetti positivi e negativi, ma perché rifiuta a priori il “contesto” con cui viene promossa. Rifiuta cioè “il metodo di governo con il quale si è lubrificata da tre anni l’opinione con bonus fiscali, elargizioni mirate o altra spesa pubblica”, con l’obiettivo di creare consenso ma ottenendo solo “una ripresa in grande stile di quel metodo di governo che a mio giudizio è il vero responsabile – molto più dei limiti della costituzione attuale – dei mali più gravi dell’Italia: evasione fiscale, corruzione, altissimo debito pubblico”.
Pubblichiamo di seguito l’intervista a Monti di Federico Fubini, pubblicata il 18 ottobre scorso sul “Corriere della Sera” nella quale l’ex premier tranquillizza anche sugli effetti in Europa di una eventuale vittoria del NO nel referendum del 4 dicembre.
«Il voto al referendum, in quanto riguarda la costituzione, sarà ovviamente di grande importanza. Inoltre gli elettori di fatto decideranno di un’altra grande questione: non, come molti pensano, la sorte del governo o del presidente del Consiglio o del segretario del Pd, ma qualcosa di rilievo più fondamentale e durevole, il metodo di governo (la governance) nei confronti dell’economia e della società italiana. Tale metodo dipende certo dalla costituzione, ma anche da un insieme di prassi dei quali la costituzione stessa è solo l’ossatura. Di solito, l’adozione di una nuova costituzione corrisponde ad una fase di forte rinnovamento morale e civile, di nuove speranze, di archiviazione di metodi consunti che hanno fatto il loro tempo e spesso i loro danni. Invece nell’Italia di questi tre anni - malgrado l’equilibrio, la saggezza e la fermezza con cui il Presidente Napolitano ha stimolato e indirizzato il necessario processo di revisione costituzionale – si sono rivitalizzate, e purtroppo trapiantate sul terreno costituzionale, alcune delle prassi più nocive che avevano caratterizzato l’Italia per molti decenni e che solo di recente, anche grazie al maggiore influsso dell’Unione europea, si era iniziato ad abbandonare, prima fra tutte quella di orientare le decisioni pubbliche alla ricerca del consenso elettorale e ora perfino referendario. Ciò viene fatto sia con oneri sul bilancio pubblico, sia rimandando interventi a favore della concorrenza e contro le rendite».
Lei frequenta molto gli ambienti delle istituzioni e delle cancellerie europee. Non trova che fra i partner dell’Italia ci siano reali preoccupazioni nel caso vincesse il No?
«Questo mi ricorda le apprensioni che tanti capi di governo manifestavano a me sul finire del 2012 di fronte alla grande incertezza delle elezioni. Li ho sempre tranquillizzati, dicendo che l’Italia è un paese affidabile e che le politiche necessarie per il Paese sarebbero continuate. La stessa cosa penso e dico oggi a chi dall’estero mi interroga. E vorrei dirlo anche agli italiani: diamo il voto secondo coscienza dopo un dibattito sereno. Se vincesse il No non sparirebbero gli investitori esteri. Se vincesse il Sì non sparirebbe ogni democrazia. E la UE, che peraltro non ha mai chiesto questa modifica della costituzione, può stare tranquilla. L’Italia non rischia, come cinque anni fa, di cadere e di travolgere l’euro. Non c’è bisogno che la UE perda credibilità come arbitro, dando l’idea che se non si dà una dose aggiuntiva di flessibilità all’Italia, vincerebbero ‘i populisti’. I populismi si affrontano promuovendo crescita e occupazione, non autorizzando i governi nazionali ad utilizzare risorse delle generazioni future per avere più consenso oggi».
Ma se vince il No al referendum, non si entrerebbe in una fase di instabilità?
«Non vedo ragioni per cui Matteo Renzi dovrebbe lasciare in caso di una vittoria del No, come sostengono molti sostenitori del No e aveva affermato all’inizio lo stesso premier. Ma anche nell’ipotesi che lasciasse, non vedrei particolari sconvolgimenti. Toccherà al Capo dello Stato decidere, ma penso che sarebbe facilmente immaginabile una sostanziale continuazione dell’assetto di governo attuale con un altro premier facente parte della maggioranza».
Peraltro lei ha votato a favore di questo impianto di riforma costituzionale almeno una volta in Senato.
«Ho votato sì in prima lettura nell’agosto del 2014, poi in seconda e terza lettura non ho votato perché ero assente per impegni europei».
Perché votò Sì nel 2014?
«In quella fase consideravo essenziale non indebolire la corsa di Renzi sulle riforme economiche. Perciò votai sì, pur avendo varie riserve. Di questa riforma mi hanno sempre convinto la modifica del rapporto fra Stato regioni, l’abolizione del Cnel e la fine del bicameralismo perfetto. Non mi convince un Senato così ambiguamente snaturato, nella composizione e nelle funzioni. Meglio sarebbe stato abolirlo».
Altri fattori che la convincono dell’impianto della riforma?
«Ci possono essere risparmi nel costo della politica in senso stretto, ma il vero costo della politica non è quello, che pure si deve ridurre, per il personale della politica. È nel combinato disposto fra la costituzione, attuale o futura, e metodo di governo con il quale si è lubrificata da tre anni l’opinione con bonus fiscali, elargizioni mirate o altra spesa pubblica perché accettasse questo. Ho riflettuto a lungo in proposito».
Cosa ne ha concluso?
«Da trent’anni mi occupo di metodi di governo, in particolare dell’economia. Quando ne ho avuto l’occasione ho cercato di migliorarli, in Europa e in Italia. Nel nostro Paese l’ho fatto dalle colonne di questo giornale, contribuendo ad un lento ma continuo miglioramento dagli anni 90, spinto anche dall’Europa, e poi nel breve periodo della mia esperienza di governo. Partendo da queste premesse, molto diverse da tante altre voci che si sono espresse per il No, a me risulta impossibile dare il mio voto ad una costituzione che contiene alcune cose positive e altre negative, ma che – per essere varata – sembra avere richiesto una ripresa in grande stile di quel metodo di governo che a mio giudizio è il vero responsabile – molto più dei limiti della costituzione attuale – dei mali più gravi dell’Italia : evasione fiscale, corruzione, altissimo debito pubblico. Dire che una parziale modifica della costituzione, conseguita in un modo così costoso per il bilancio pubblico, sarà molto benefica per la crescita economica e sociale dell’Italia è, ai miei occhi, una valutazione che non posso accettare. Se prevarrà il sì avremo una costituzione riformata, forse leggermente migliore della precedente, ma avremo con essa l’approvazione degli italiani a un modo di governare le risorse pubbliche che pensavo davvero il governo Renzi avrebbe abbandonato per sempre, come ha fatto meritoriamente con gli eccessi della concertazione tra governo e parti sociali. Speravo che fosse arrivato il momento in cui gli italiani potessero essere e sentirsi adulti, non guidati dalla mano visibile del potere politico che distribuisce provvidenze varie».
Insomma, è il modo con cui il premier cerca consenso attorno al sì che la spinge al no?
«Esatto. Non avrebbe senso darsi una costituzione nuova, se essa deve segnare il trionfo di tecniche di generazione del consenso che più vecchie non si può. Peraltro trovo fortemente negativo avere tenuto in piedi con l’uso del denaro pubblico queste deformazioni del rapporto degli italiani con la classe politica. Questo problema rischia solo di essere accresciuto portando alla ribalta la classe politica regionale nel nuovo senato».
Ma in fondo non è necessario per chiunque coltivare il consenso anche usando il bilancio dello stato, se si vogliono vincere le elezioni?
«Certo, questa è la via più facile. Ma se il Paese, poco alla volta, cresce in consapevolezza e pensa al proprio futuro, non è detto che sia così per sempre. Dopo tutto, alle elezioni del febbraio 2013 il movimento che si riconosceva nell’opera del mio “austero” governo ottenne, partendo da zero e senza un partito alle spalle, 3.005.000 voti, cioè più dei 2.269.000 voti che alle Europee del 2014 Renzi, in quello che venne considerato un trionfo, riuscì ad aggiungere ai voti che il Pd di Bersani aveva avuto nel 2013».
Nel merito della riforma, che pensa della rappresentanza degli eletti locali e regionali nel nuovo Senato?
«Ho cercato di essere costruttivo su questo punto. Nella primavera del 2014 ho depositato con Linda Lanzillotta un disegno di legge costituzionale che accettava tutti i paletti di Renzi, compresa l’elezione indiretta dei senatori, ma voleva valorizzare l’apporto delle regioni alla nostra vita nazionale, chiarendo che una quota dei nuovi senatori dovesse essere presa dai rappresentati del volontariato, delle istituzioni culturali, del mondo imprenditoriale o di quello dell’istruzione. Mi rifiuto di credere che tutto ciò che la Toscana, la Lombardia o la Sicilia possono dare alla vita politica nazionale sia solo il personale politico locale. Questo disegno di legge non è stato preso in considerazione. In generale all’epoca avevo un approccio favorevole all’impianto della riforma e sentivo il dovere di non mettere un milligrammo di piombo sulle spalle di un governo così impegnato com’era a quel tempo sulle riforme economiche. L’ho molto appoggiato, anche nei miei colloqui in Europa».
Sulla legge elettorale, al netto di eventuali modifiche future, che pensa del modello originario di Renzi?
«A sentire alcuni ormai sembra improponibile qualunque sistema in cui non si conosce il vincitore la sera stessa. Eppure in Germania non sempre lo si conosce la domenica sera, ma a volte bisogna aspettare mesi. Eppure poi si arriva a un programma di coalizione chiaro, ben definito e tale da non avere bisogno di patti fra arcangeli o nazareni. Per quanto mi riguarda mi sono gradualmente convinto sempre più che i problemi dell’Italia non dipendono tanto dalla forma costituzionale e dalla legge elettorale, ma da alcuni connotati fondamentali: l’evasione fiscale, la corruzione e una classe politica che usa il denaro degli italiani di domani come una barriera contro la propria impopolarità. È per questo che un mio Sì al referendum sarebbe un sì al modo di generare il consenso che è l’opposto di quello in cui credo».
Quand’anche fosse così, non è inutile piangere sul latte versato? Non sarebbe meglio almeno portare a casa la riforma costituzionale?
«Per me il sì sarebbe un sì a questa costituzione materiale, fatta di costituzione formale, ma anche di una cosa ancora più importante dal punto di vista economico: lo spreco delle risorse pubbliche in nome di un meccanismo per il consenso. E temo che un Senato fatto di politici locali, dato che certi poteri i senatori li avranno, moltiplicherà le occasioni di elargizioni sul territorio a fini di consenso. Peraltro non è solo una questione di finanza pubblica, guardiamo al pacchetto della legge sulla concorrenza: depauperato e fermo da oltre un anno, quindi rinviato a dopo il referendum. Ovvio in fondo, perché con quella legge si tolgono rendite a soggetti che a loro volta toglierebbero il consenso. Ma è vero che questa Legge di stabilità dà molto al mondo delle imprese. E spiega le prese di posizione di certi freschi costituzionalisti, Soloni dell’imprenditoria, non sempre del tutto a loro agio con la lingua italiana, che però sostengono questo modello di riforma in una miriade di convegni».
Senatore, eppure in vari ambienti europei ci sono genuini timori in caso di vittoria del No. Lei non li avverte?
«Non credo che l’Europa prema per questa riforma costituzionale, e sarebbe molto grave se lo facesse. E poi l’Ue non ha nessun potere di entrare nelle questioni costituzionali, salvo che discendano da specifici atti che sono stati decisi come il fiscal compact. In questi mesi si discute di una riforma costituzionale anche in Grecia, il più sorvegliato di tutti i Paesi, ma non c’è alcuna pressione su questo punto dal resto d’Europa. Naturalmente l’Unione europea è interessata alla performance dell’Italia, come di tutti gli altri Paesi, quindi vede volentieri stabilità e governabilità. Ma ai miei interlocutori spiego che non credo che ci sarebbe un vuoto di potere in Italia, Renzi potrebbe restare anche se vincesse il No o l’attuale maggioranza potrebbe esprimere un nuovo governo».
Però Renzi usa molto spesso l’argomento del referendum e del rischio di instabilità per ottenere concessioni in Europa.
«Renzi ha fatto con un certo successo questo gioco, anche con Angela Merkel quando la attacca ma ne ottiene in cambio un certo paziente sostegno. Ciò non toglie che questo ha lo stesso un grosso costo. Sta facendo lui il lavoro dei populisti, accusando l’Europa. Eppure a me pare l’Italia, puntando tutte le sue carte sulla flessibilità, si sia molto indebolita: si è rafforzato probabilmente il governo italiano, che può usare più soldi degli italiani di domani per acquisire il consenso. Ma l’Italia poi esaurisce tutta la sua forza negoziale e ne ha di meno per chiedere alla Commissione che anche la Germania rispetti le regole, in particolare quelle sull’eccesso di surplus». |