In un articolo su La Stampa di qualche tempo fa (6.8.2016), Franco Bruni polemizzava con le tesi dei populisti da lui giudicate preoccupanti e paradossali perché tese a porre ostacoli allo sviluppo della libera concorrenza sui mercati. È un articolo che riprende e riassume tutte le argomentazioni del dominante neoliberalismo.
I populisti, scrive Bruni, si oppongono alla società aperta in nome delle lobby che, per ideologia o interesse, ostacolano la modernizzazione del Paese. Criticano le leggi di civiltà elementare messe in campo da Bruxelles, normative che vanno dall’anticorruzione alle unioni civili, dall’antitrust alla difesa contro l’aggiotaggio. Cita in particolare le proteste contro la direttiva Bolkestein, uno strumento, a suo dire, sacrosanto che difende i consumatori dai monopoli locali.
Bruni passa poi ad analizzare le cause profonde che muovono la protesta sposata dai populisti. La globalizzazione e il progresso tecnico sfidano il modello di sviluppo e di convivenza del secolo scorso; l’impetuosa trasformazione in atto crea folle di perdenti (dagli operai spiazzati dall’automazione ai commercianti, ai taxisti, ai bagnini, agli addetti ai servizi meno competitivi, ecc.). Tutti costoro vengono catturati dai populisti, che ne scagliano l’insoddisfazione contro l’integrazione internazionale e le élites che paiono guidarla a proprio vantaggio.
La globalizzazione e la tecnologia disorientano anche chi non è perdente, ma desidera controllare i nuovi rischi più da vicino. E poiché i problemi (migrazioni, crisi bancarie, disoccupazione, diffusione degli organismi geneticamente modificati, concorrenza e sua regolamentazione, ecc.) vengono da lontano, tale desiderio si trasforma nel rifiuto di delegare il compito di gestirli a chi si occupa di cose lontane, sovra-nazionali, non influenzabili dalla politica nazionale. Così quanti sono delegati ad affrontare tali problematiche perdono legittimità, e le difficoltà oggettive che incontrano diventano loro colpe. La politica chilometro-zero tende a svergognare la classe dirigente tanto più quanto è cosmopolita e culturalmente globale.
La sfiducia nelle deleghe alimenta una confusa domanda di democrazia diretta. E poiché questa è inadatta a governare a livello sopranazionale, si innalzano le barriere e si chiudono i confini: meglio chiusi, viene detto, che governati dalle élites. Ma i problemi globali non hanno soluzione con politiche chilometro-zero. Il populismo, aggiunge Bruni, rappresenta anche chi non ha fiducia in figure dagli orizzonti più ampi: tecnici, economisti, esperti, grands commis, ecc.
Un fenomeno che mostra l’inadeguatezza dei popoli sul piano democratico.
Il mondo diventa più complesso e la testa della gente rimane semplicistica, ignorante, soffocata dalla pancia.
Sono argomentazioni che abbiamo ascoltato più volte. In occasione del referendum britannico, sono state riproposte per diversi giorni dai fautori del “remain”, ciò a dire la quasi totalità del mondo politico ufficiale e dei commentatori dei più diffusi quotidiani cosiddetti “indipendenti”.
Lascio da parte ogni cenno ai populisti (peraltro con posizioni alquanto differenziate), presi a comodo bersaglio polemico per le loro molte contraddizioni, e vado al cuore del discorso di Bruni, cercando di spiegare perché le sue argomentazioni non mi persuadono.
Alla loro base, c’è la convinzione che la domanda di protezione di un proprio mondo culturale, sociale ed economico, la difesa di riferimenti valoriali condivisi e stabili, il sentimento di identità dei popoli, la sovranità degli Stati siano mali da estirpare perché il futuro degli esseri umani consisterebbe nell’abbandonare ogni specificità per uniformarsi alle esigenze del grande mercato mondiale, il solo in grado di consentire uno sviluppo illimitato.
La saggezza, per secoli, ha avuto tra i suoi fondamentali elementi la consapevolezza dei limiti e la ricerca della giusta misura. Sono riferimenti oggi totalmente accantonati, e non senza conseguenze negative. Aristotele, dopo aver indicato la democrazia come la migliore forma di governo, si pose questa domanda: “Qual è il numero di cittadini idoneo a consentire il buon governo?”. Infatti, al di sopra o al di sotto di una data soglia numerica, non può esserci buon governo e, se il numero è molto grande, diventa problematico l’esercizio stesso della democrazia.
Si dirà che si trattava della “democrazia diretta” praticata nelle poleis. È vero, ma limiti, sia pure di ordine maggiore, valgono anche per la “democrazia rappresentativa”, che non può essere ridotta alla semplice ricetta di “capitalismo più elezioni”.
Come ha scritto Ives Mény, “il principio della rappresentanza e quello del potere popolare sono i due pilastri della democrazia, ma oggi il punto di equilibrio tra questi due principi si sta allontanando troppo dalla fonte della legittimità, cioè dal popolo”. E a determinare questa distanza, c’è anche quella tra i luoghi in cui si svolge la vita della gente e quelli in cui opera chi sta ai vertici di organismi sempre più vasti. Oggi, molti si stanno rendendo conto di questa verità.
Di qui nasce il fatto (lamentato da Bruni) che la gente comune riconosca sempre meno la legittimità degli organi di governo, in particolare di quelli internazionali. Chi denuncia (come fa Bruni ed altri con lui) l’inadeguatezza dei popoli rispetto all’aprirsi della società ad orizzonti più vasti non vuol riconoscere che la vita politica democratica diventa difficilmente praticabile quando la dimensione dell’organismo politico in cui dovrebbe svolgersi non ne consente più il controllo (non solo formale) da parte dei cittadini.
Che cosa ha a che fare con la democrazia (comunque aggettivata) la delega ad occuparsi di cose lontane a quanti sanno di esse, perché la testa della gente rimane semplicistica, ignorante, soffocata dalla pancia?
“Meglio chiusi che governati dalle élites” è secondo Bruni il deplorevole atteggiamento delle masse. Forse sarebbe più opportuno porsi il quesito: “Dobbiamo mettere in secondo piano la democrazia per consentire la costruzione di un mondo unificato, governato da una illuminata aristocrazia tecnocratica, la sola in grado di gestirlo?”. Si può legittimamente rispondere sì o no, ma non cambiare le carte in tavola per eludere la questione.
Certamente si può andare oltre lo Stato nazionale conservando assetti democratici.
Una federazione (o una confederazione quando i Paesi coinvolti si differenziano per lingua e significativi aspetti culturali) che sia rigorosamente rispettosa del principio di sussidiarietà può costituire un valido organismo di maggiore dimensione. Non è però il caso dell’attuale Unione europea che, malgrado il richiamo alla sussidiarietà presente nel Trattato, la applica alla rovescia: non mette voce sui grandi fatti di portata internazionale, mentre ha prodotto e produce decine e decine di migliaia di leggi e regolamenti che, in tutti i campi, investono in modo soffocante ogni aspetto della vita della gente e delle imprese.
Ma anche per una federazione, o una confederazione, ci sono dei limiti da rispettare oltre i quali nascono seri problemi: ad esempio, il passaggio da 6 a 12, quindi a 28 (ora a 27 dopo la Brexit) componenti nazionali ha progressivamente frenato, fino alla paralisi, la macchina politica europea dando crescente spazio decisionale a Direttori formati dai due o tre Paesi più influenti. Certamente è necessaria un’Europa unitaria, ma un’Europa diversa, vitale, memore di ciò che è stata nei secoli, pienamente rispettosa della sussidiarietà, del pluralismo storico e culturale che la caratterizza, e con confini stabili e ben definiti.
Ogni ente od organismo ha una dimensione giusta. Qual è questa giusta dimensione?
Utilizzando termini tratti dal mondo economico, ma applicabili a più ampi contesti, potremmo dire che questa giusta dimensione si raggiunge quando gli oneri (le cosiddette “diseconomie”) connessi all’aumento della complessità pareggiano le economie di scala realizzate: procedendo oltre, i guasti superano i vantaggi. Questa considerazione vale per gli organismi viventi come per quelli prodotti dall’uomo. Se non era vero, come si diceva ancora qualche anno fa, che “piccolo è sempre bello”, altrettanto non si può pensare che la crescita dimensionale di organizzazioni politiche, banche, imprese, mercati, sia sempre un fenomeno positivo.
Ci viene giustamente detto che ci sono problemi (migrazioni, modificazioni climatiche, crisi ambientali, regolazione della finanza, ecc.) che non possono essere affrontati e risolti a livello di singole nazioni. Ma non credo che allo scopo sia indispensabile creare un governo mondiale (come talora viene auspicato), inevitabilmente lontanissimo dai cittadini. Sono sufficienti gli attuali organismi internazionali (semmai riformati), e sono soprattutto necessari solidi accordi internazionali tra Stati, e idee chiare su che cosa fare e dove andare.
E qui mi pare che le idee chiare manchino proprio ai fautori della società globale e della crescita senza limiti.
Sentiamo ogni estate, nel mese di agosto, parlare del “giorno del sorpasso” in cui tutte le risorse rinnovabili producibili nell’anno sono già state consumate, ma questa questione non sta mai all’ordine del giorno degli impegni dell’élite mondialista. Le modificazioni climatiche (sempre più evidenti e minacciose) richiamano una qualche attenzione, ma le misure proposte per rimuoverne le cause sono insufficienti, e l’applicazione è sovente parziale e differita nel tempo: eppure il tempo stringe. Di fronte a fenomeni migratori incontrollati, motivati dal grande divario di reddito tra Sud e Nord del pianeta, non si dice come ridurre il divario, mentre si continuano a proporre e ad adottare misure economiche per la crescita dei consumi in Paesi che già sono fra i massimi consumatori pro capite di materie prime e produttori di CO2 e di inquinanti.
Forse si pensa di superare il divario portando le popolazioni del Sud ai livelli di consumo (ancora crescenti) di quelle dei Paesi avanzati?
Ammesso che sia fattibile, è vero o no che ciò richiederebbe le risorse di molti pianeti Terra?
I fautori della globalizzazione non ci dicono niente in materia: probabilmente pensano che si tratti di fandonie come ancora cinque o sei anni fa (e alcuni ancora oggi) dicevano dell’esistenza delle modificazioni climatiche causate dalle attività umane. Piuttosto che mutare l’attuale modello di produzione fondato sulla continua crescita dei consumi, preferiscono mettere il capo sottoterra per non vedere i guasti che produce.
I limiti non riguardano solo gli aspetti dimensionali, ma anche i ritmi con cui avvengono i processi di crescita o di cambiamento.
Conosciamo tutti i limiti di velocità imposti agli autoveicoli, limiti differenziati per tipologia del mezzo e della strada: sono una necessità per ridurre gli incidenti. Tuttavia ben pochi riconoscono una analoga necessità nei confronti dei processi di crescita e delle trasformazione in atto nella società moderna. Molte sono le conseguenze negative che ne derivano: ad esempio, le sempre più rapide innovazioni tecnologiche e le conseguenti trasformazioni dei modi di vita creano pericolose fratture generazionali e sociali; inoltre, comportano un ritardo nella capacità del ceto politico di percepire o di comprendere i mutamenti della realtà, che pur dovrebbe governare, e altrettanto avviene per i giuristi e gli stessi intellettuali che tentano di interpretarli. Ricordo quanto ha scritto in proposito Anthony Giddens: “Vivere nella modernità è come viaggiare su un bisonte della strada lanciato in una corsa folle; la fine della corsa potrebbe concludersi con esiti drammatici lasciando dietro di sé un agglomerato di comunità sociali decimate e traumatizzate o addirittura una repubblica di insetti ed erbe”.
Quanto si dovrà ancora attendere, mi chiedo, perché questo bisonte sia imbrigliato o almeno ne sia rallentata la corsa al fine di ridurre al minimo i pericoli?
L’impetuosa trasformazione in atto, come ha riconosciuto lo stesso Bruni, crea folle di perdenti, spaventa anche chi non è perdente ma teme i rischi che essa genera, disorienta le persone privandole di riferimenti certi e condivisi. Perché tutti costoro dovrebbero mettere da parte le loro preoccupazioni, il loro modo di concepire la vita, e accettare di partecipare a una corsa precipitosa verso orizzonti sempre più vasti, una corsa contrassegnata da una spietata competitività?
Per convincere i renitenti e soprattutto per conquistare il consenso dei perdenti della globalizzazione, Bruni cita il Fondo monetario internazionale che ha proposto di ridistribuire i redditi con una tassazione adeguata e di sviluppare nuove forme di sostegno a chi è in difficoltà. Proposito che andrebbe bene se si trattasse di provvedimenti temporanei da impiegare in un momento difficile. Non altrettanto se diventasse una condizione permanente. Infatti non potrebbe reggere a lungo una società nella quale ci siano una ristretta componente attiva, che lavora, si fa carico della produzione (e di conseguenza è depositaria delle scelte ad ogni livello) e una numerosa componente passiva, inoperosa che vive di sussidi.
Tutto ciò ben presto si tradurrebbe in due livelli di cittadinanza con differenti diritti e poteri. Inaccettabile.
Allora, per tacitare le critiche e i dubbi, viene detto che se, al presente, con la globalizzazione possono crearsi situazioni difficili o anche drammatiche, queste sono transitorie e presto, procedendo su questo cammino, si realizzerà un mondo migliore per tutti.
È un discorso che già si è sentito.
Robespierre e Saint-Just giustificavano il terrore perché necessario per realizzare un prossimo regno della virtù. Stalin e Mao hanno sacrificato intere generazioni in nome di un futuro paradiso in terra. Troppe volte, nella storia, c’è stata disattenzione per il male arrecato a chi si trova sulla strada imboccata dai costruttori dei vari presunti mondi nuovi e progressivi. |