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La vergogna perduta e il multiculturalismo
 
di Giuseppe Ladetto
 

Un autorevole magistrato ha dichiarato che oggi i politici rubano più di ieri ma non ne provano vergogna. È una dichiarazione alquanto qualunquistica perché fa di tutta l’erba un fascio. La stessa logica potrebbe essere estesa a molte categorie professionali, magistrati inclusi, visto che nessuna è esente da diffusi difettucci, di cui nessuna pare vergognarsi.
Ma poiché non condivido mai i giudizi superficiali e le generalizzazioni, sempre ingiuste, metto da parte la questione e mi soffermo sul termine vergogna, peraltro non più tanto di moda, poiché corrisponderebbe a un sentimento in via di estinzione. Marco Belpoliti infatti scrive, in un saggio, del perduto sentimento della vergogna che caratterizza la società attuale, in cui dilaga l’impudenza perché chi commette ogni sorta di atti deprecabili non prova più alcun disagio.

Si tratta di un argomento serio, già affrontato nei lontani anni Settanta da Konrad Lorenz, che ha fornito un contributo fondamentale per la comprensione del fenomeno.
Il grande etologo, premio Nobel per la medicina, uomo di scienza capace di guardare lontano partendo sempre da quel passato in cui si è formata la nostra specie, distingue tra vergogna e rimorso (i due termini, ci dice, esistono in tutte le principali lingue). Si tratta di turbamenti dell’anima avvertiti in seguito alla infrazione di norme.
La vergogna, che si prova per fatti avvenuti in presenza di altri, nasce dalla violazione di norme convenzionali o consuetudinarie che una comunità o una società si è data; esse fanno parte della cultura e quindi variano da luogo a luogo e nel tempo. Si genera il sentimento della vergogna quando le norme convenzionali sono condivise dal soggetto in questione e dalle persone che hanno assistito al suo comportamento inadeguato o saputo di esso.
Il rimorso, che si avverte nell’intimo della coscienza, in solitudine, si produce per l’infrazione di norme che, a differenza delle precedenti, non vengono dalla cultura ma vanno ricondotte a regole innate, o leggi naturali, che l’essere umano porta entro di sé e che lo rendono capace di distinguere il bene dal male. Tali leggi naturali, che possiamo definire morali, ci dice Lorenz, si sono formate nel percorso evolutivo perché corrispondono a comportamenti che sono stati favoriti dalla selezione naturale in quanto finalizzati alla migliore sopravvivenza della comunità a cui il singolo appartiene (la nostra è una specie sociale). Certamente a tali regole innate, si accompagna la morale responsabile fondata sulla capacità di prevedere le conseguenze delle nostre azioni, ancorché, in una società sempre più complessa ed estesa, sia sovente difficile comprendere dove ci possono portare i nostri atti.

Perché oggi entra in crisi il sentimento della vergogna?
Le tradizioni, alle quali possono essere ricondotte le norme convenzionali, sono oggi minacciate da due fenomeni. In primo luogo, l’evoluzione rapida delle condizioni e delle modalità di vita, e dei connessi riferimenti culturali, crea fratture fra gli appartenenti alle differenti generazioni estraniandole sempre più. Così, nelle famiglie e nella scuola, perdono ogni ascendente sui giovani le figure (genitori, maestri) che avrebbero il compito di trasmettere tali riferimenti normativi. In secondo luogo, la mobilità sul territorio porta a contatto masse di individui appartenenti a culture lontane (quindi aventi norme convenzionali differenti): ne consegue la perdita o lo svilimento di riferimenti non più da tutti condivisi.
Attenzione, dice Lorenz, il carattere convenzionale di tali norme non ne diminuisce il significato e l’importanza: esse sono essenziali per tenere insieme la società; lo dimostra il fatto che, nel processo evolutivo, si è affermato (e geneticamente codificato) il sentimento della vergogna finalizzato a garantirne il rispetto. Scrive Lorenz che, nell’uomo, la più parte delle regole innate è costruita filogeneticamente in modo da richiedere di essere completate dalla tradizione culturale. Così, se viene meno la condivisione di norme la cui violazione suscita il sentimento della vergogna, il risultato è un’epoca senza vergogna, quella in cui ci troviamo a vivere.

I due fattori indicati da Lorenz, già più di quarant’anni fa, come cause dell’indebolimento dei codici comportamentali dettati da norme convenzionali hanno assunto attualmente una maggiore rilevanza aggravando quindi il problema. Le contrapposizioni generazionali, da sempre esistenti, sono oggi enormemente accentuate diventando fratture non solo per l’evoluzione rapida delle condizioni e delle modalità di vita ad opera delle innovazioni tecnologiche, ma anche a causa dei criteri di gestione dei mezzi di comunicazione che (rispondendo a logiche commerciali o di marketing) diffondono mode e promuovono consumi mirati alle specifiche classi di età. I giovani sono più recettivi a tutto ciò e ne vengono maggiormente condizionati finendo per chiudersi in forme di appartenenza generazionale che li rendono indisponibili al dialogo con chi non rientra nel loro mondo.
Altrettanto si può dire per la mobilità territoriale che vede oggi grandi fenomeni migratori da un continente all’altro portando a convivere su uno stesso territorio persone di culture molto diverse. In particolare, dalla non conoscenza o dall’incomprensione da parte degli immigrati delle regole convenzionali proprie delle comunità ospitanti, nascono molti dei problemi alla base della non facile convivenza.

Che cosa si può fare? Quando soggetti di diversa età o di diversa origine si impegnano nella costruzione di progetti che costringono a misurarsi con la realtà e richiedono di lavorare fianco a fianco, può essere più facile superare le barriere e stabilire un dialogo. È quindi essenziale che la società sappia definire obiettivi capaci di coinvolgere e impegnare le persone.
Tuttavia, vista la rilevanza che ha la condivisione delle norme convenzionali, e tenuto conto della crescente presenza di immigrati, diventa importante la questione di come superare il divario fra i riferimenti comportamentali vigenti nel Paese ospitante e quelli di chi in esso approda.
Personalmente ritengo che una piena integrazione degli immigrati richieda una loro graduale assimilazione culturale, portandoli ad adottare i principali moduli comportamentali propri di chi vive da secoli sul territorio. In ciò, dissento da quanti (come Enzo Bianchi) sostengono che gli autoctoni non hanno maggiori diritti rispetto agli immigrati anche per quanto riguarda la cultura e i valori professati e che, pertanto, la cultura storicamente formatasi nel Paese non può avere uno status superiore a quella di chi in esso giunge.
Chi ragiona così non vede (o sottovaluta) il nesso stretto che esiste fra una cultura (che è sempre particolare) e il territorio in cui si è sviluppata. La cultura si è formata in un territorio risentendo di tutte le caratteristiche ambientali (climatiche, orografiche, disponibilità di risorse, presenza di acque, distanza dal mare, natura dei suoli, ecc.) e adattandosi ad esse. A sua volta il territorio è stato modellato nel tempo dalle attività di quanti lo hanno abitato: tipo di agricoltura, edilizia, strade e monumenti civili e religiosi ne disegnano il paesaggio, mentre lingua, storia e tradizioni ne definiscono la fisionomia umana.
Per questo motivo, le varie culture degli immigrati non possono essere messe sullo stesso piano di quella degli autoctoni; quest’ultima resta da privilegiare rispetto a quanto viene da fuori, ancorché possa essere aperta a ricevere nuovi apporti.
La diversità culturale che caratterizza il genere umano è una grande ricchezza. Ha un ruolo analogo a quello della biodiversità in ambito naturale: entrambe sono indispensabili per la salvaguardia del mondo in cui viviamo. Ma le culture di cui si parla non riposano sui singoli individui (come spesso sembra essere immaginato da chi esalta il multiculturalismo) perché esse vivono e si riproducono solo entro comunità di adeguata dimensione ancorate a un territorio.
Ciò appare evidente per la lingua (che costituisce il cuore di una cultura): non può sopravvivere una lingua parlata da un solo individuo o da pochi soggetti in assenza di interlocutori che si esprimano con essa. Per non morire una lingua deve essere usata da un ampio numero di persone che hanno modo di venire quotidianamente a contatto e che quindi abitano un territorio.
Quindi, proprio per garantire questa grande ricchezza che è la diversità culturale (rifiutando l’omologazione culturale verso cui la globalizzazione ci sospinge), dobbiamo tutelare le culture depositarie dei patrimoni ereditati da coloro che hanno abitato e costruito i differenti territori.


Degiovanni Graziella - 2016-08-21
Ottimo articolo. Si tratta di un'analisi approfondita, accurata il cui sviluppo filosofico è ancorato alla realtà attuale senza sbavatute demagogiche tanto frequenti nel giornalismo di oggi. E' un contributo all'intelligenza da apprezzare senza riserve.
Giuseppe Cicoria - 2016-08-21
ringrazio Ladetto per le considerazioni che ci ha voluto esporre su una questione davvero importante. La lezione sull'argomento ha arricchito la mia conoscenza e glie ne sono grato perché in questo momento storico così difficile si sente davvero un bisogno di avere le idee più chiare sul concetto di convivenza.
Alessandro Risso - 2016-08-19
Le considerazioni di Ladetto sul multiculturalismo mi paiono inappuntabili e pienamente condivisibili. La forza dell'integrazione risiede nella capacità di aprirsi al nuovo partendo da una solida coscienza di sé, della propria cultura, delle proprie radici. Radici che, come spiegava già Montesquieu a metà Settecento, sono ancorate a un territorio, a un clima, a usi e costumi consolidati che si modificano a contatto con il nuovo, ma partendo da quella specifica base. Non è un arricchimento l'indistinta accettazione di ogni espressione culturale in nome di un malinteso sentimento di tolleranza assoluta, che finisce per mortificare se stessi e la propria storia. L'attuale debolezza della vecchia Europa nasce anche da questo relativismo etico e culturale, incapace a suo tempo di ammettere le ovvie e innegabili radici cristiane che, plasmatesi con i valori illuministi, hanno fondato la cultura occidentale. E malgrado ciò ci ritroviamo con il duplice problema dell'integralismo islamico e del nazionalismo xenofobo.
Andrea Griseri - 2016-08-18
Ladetto non trascura, a me pare, la questione dell'integrazione ma la colloca problematicamente su un piano di concretezza: lo sviluppo delle culture è una cosa sola con il "farsi" della storia; e l'incontro, il reciproco interrogarsi, il confronto, magari lo scontro fra culture diverse non può prescindere dalle reali condizioni che hanno plasmato la cultura che viene interpellata e sollecitata; altrimenti il confronto (o al limite la massima tensione dialettica: un'integrazione ben radicata "può" scaturire anche dalla sofferta elaborazione di un'ostilità iniziale) non si può attuare e il dialogo rimane superficiale, inefficace con tutte le conseguenze negative che è facile prevedere: le reazioni di un certo terrorismo fai da te e le contrapposte perorazioni salviniane ne sono un esempio. Questi sono i rischi di un approccio multiculturalistico astratto, neoilluminista che non riesce a fare i conti con il sangue e la carne della storia.
Mario Chiesa - 2016-08-17
Un punto, che mi pare centrale, mi lascia dubbioso: "La cultura si è formata in un territorio risentendo di tutte le caratteristiche ambientali (climatiche, orografiche, disponibilità di risorse, presenza di acque, distanza dal mare, natura dei suoli, ecc.) e adattandosi ad esse." Mi pare si trascurino il contatto e il confronto con altre culture: per far l'esempio dell'Italia: greci, ebrei (un tal Cristo), longobardi, arabi, ... nel corso della storia. E oggi, contano di più gli Appennini o quello che si viene a conoscere del Giappone, degli USA, ...?