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I consumatori tra pubblico e privato
 
di Daniele Ciravegna (con risposta di Giuseppe Ladetto)
 

A commento dell’ultimo articolo di Giuseppe Ladetto pubblicato su “Rinascita popolare” (Non siamo solo dei consumatori), esprime una serie di osservazioni Daniele Ciravegna, docente di economia politica all’Ateneo torinese. Le proponiamo qui all’attenzione dei lettori.

Primo punto. L'incipit di Giuseppe Ladetto è che, privatizzando i servizi pubblici produttori di beni, i consumatori siano "meglio tutelati", in termini di prezzi che devono pagare per poter usufruire dei servizi pubblici stessi. Non sono d'accordo: poiché si tratta di beni che, per la loro natura, anche per la presenza di forti economia di scala, non possono essere venduti che in mercati di tipo monopolistico o oligopolistico, preferisco un produttore pubblico piuttosto che privato. Il produttore privato, alla fin fine, ha interesse a realizzare profitti, non ad erogare servizi di pubblica utilità alla maggior parte possibile di popolazione, cosa che dovrebbe interessare, invece, al produttore pubblico, che può utilizzare, a tal scopo, anche risorse provenienti dalla fiscalità generale. Si veda che cosa è successo con la privatizzazione delle ferrovie in Italia, Regno Unito ed altri paesi: il gestore privato tende a dirottare le risorse verso le linee che "rendono", riducendo il servizio (fino a farlo cessare) delle linee che non rendono perché hanno, strutturalmente, relativamente meno passeggeri (pardon, "clienti", come dicono le Ferrovie dello Stato privatizzate in Italia!): si veda lo scempio che si è avuto, da noi, nei confronti della linea ferroviaria tirrenica! Quale è il bene della popolazione: avere poche linee d'élite (con prezzi elevati, perché i gestori applicano il principio di Veblen, secondo la quale l'alto prezzo è percepito dal consumatore come indicatore di qualità superiore) oppure avere un'ampia rete di linee di trasporto che permetta una diffusa mobilità, anche periferica, e non solo linee ad alta velocità?
Secondo punto. È poi vero che solo i privati sono capaci di creare efficienza gestionale? In prima battuta, l'efficienza sta nella minimizzazione dei costi per produrre una certa quantità di prodotto, e questo può e deve essere fatto da tutti, a meno che, per definizione, il pubblico sia gravato dall'inefficienza derivante dall'affidare il management delle aziende a persone che non hanno buone capacità manageriali ma, piuttosto, sono politici in carriera o politici a fine carriera, oppure il servizio di trasporto pubblico, ad esempio, debba farsi carico di "oneri impropri" di irizzata memoria (ma allora sarebbero costi per svolgere una finalità multipla...). Tolte di campo queste deformazioni, permane la differenza fra il settore privato, che verosimilmente utilizza efficienza in termini di costi per rimpinguare i suoi profitti, e il settore pubblico che dovrebbe, invece, utilizzare le stesse efficienze per aumentare la mole dei servizi erogati. Di conseguenza, esprimendo l'efficienza, non in termini di attività svolta, ma in termini di efficacia (in questo caso, di mobilità per la popolazione) ed eliminando gli sprechi e nell'una e nell'altra, la via pubblica appare potenzialmente più efficiente di quella privata.
Terzo punto. L'economia che sarebbe una "tecnicalità". No, l'economista ha problemi da risolvere riconducibili alla massimizzazione di una funzione obiettivo, in presenza di vincoli. Nella funzione obiettivo possono essere inseriti questioni di carattere culturale, sociale, di ambiente naturale ecc. Se non li inserisce, è una sua deficienza personale, non è un errore di ragionamento economico. Come sempre, non è lo strumento che erra; è l'uomo che può errare, utilizzando male lo strumento!
Quarto punto. I miei migliori auguri di Felice 2016 a tutti gli amici popolari e a tutti i lettori di "Rinascita popolare".

Risponde Giuseppe Ladetto.

Premetto che mi muovo sempre con difficoltà sul terreno economico, e pertanto interloquire con un economista mi crea un qualche patema. Ma poiché Daniele Ciravegna è un amico (abbiamo lavorato insieme per molti anni in vari ambiti dell’Ateneo torinese), allora posso rispondere senza timore. Sui due primi punti sollevati, probabilmente non mi sono espresso chiaramente nell’articolo. Che i consumatori siano meglio tutelati privatizzando i servizi pubblici o che solo i privati siano capaci di creare efficienza gestionale non è ciò che penso io, ma quanto sento dire quotidianamente a destra e a sinistra, nei dibattiti e nei media. Ho infatti scritto che sono ragionamenti che non mi convincono; e mi ha confortato quanto ha detto in proposito un liberale come Ralf Daherendorf, di cui ho citato le parole. Mi trovo pertanto d’accordo con Ciravegna sul giudizio che dà del settore pubblico e di quello privato.
Il terzo punto sollevato è più controverso. L’economia non è una tecnicalità, scrive Ciravegna. Tuttavia, viviamo in un mondo in cui scienza e tecnica sono sempre più collegate e intrecciate, ed è difficile cogliere i confini che le separano. Però scienza e tecnica non dovrebbero venir confuse. La scienza ha come fine la conoscenza; la tecnica ha come fine l’utile o comunque ha sempre finalità pratiche, applicative, ed è governata dalla razionalità strumentale. L’ingegneria, l’architettura, la medicina ed anche l’economia e il settore giuridico hanno risvolti eminentemente tecnici. Ciò non significa sminuirne il valore, né diminuire la dignità di chi ad esse si dedica. La sempre maggiore complessità dei problemi che dette discipline affrontano richiede degli specialisti, i quali, per necessità, sono portati a spezzare la realtà per rivolgersi a singoli aspetti di essa. Edgar Morin ha scritto che in tal modo si rende di fatto impossibile la comprensione del mondo e si impedisce di cogliere i problemi fondamentali che sono sempre globali. Nel nostro tempo, l’eccesso di specializzazione è diventato un problema perché gli esperti, anche quando molto qualificati, non appena il loro ambito specifico è attraversato da altre problematiche, non sanno più come reagire. Avrebbero bisogno di affrontare globalmente i problemi ma non sono in grado di farlo. Mi permetto di dire che a questa deriva non sfuggono le discipline economiche. Non sarà un caso se, in questi ultimi anni, fra i negazionisti delle modificazioni climatiche di origine antropica, troviamo largamente presenti economisti ed esponenti del mondo economico. Comprendere l’interdipendenza dei sistemi culturali e delle idee, come ha detto Morin, è oggi più che mai necessario. Ciò contribuirà a cambiare il nostro modo di pensare, dandoci uno strumento in più per sfuggire all’abisso verso cui il pianeta sembra essere destinato.


Oreste Calliano - 2016-01-08
Ecco un dibattito che tocca problemi seri e attuali di gius-economia. Intervengo evidenziando come tutti i contributi, di Beppe, Daniele e Franco portano elementi a un dibattito che risale alle privatizzazioni in Gran Bretagna all'epoca della Thatcher: come garantire che le imprese di servizi pubbliche o privatizzate siano efficaci ed efficienti? La teoria tradizionale ricorse alla concorrenza e alle scelte razionali del consumatore. Ma purtroppo gli economisti più attenti hanno dimostrato che molto spesso le imprese non concorrono, ma colludono; e gli psicologi economici che il consumatore non è in grado di fare scelte razionali (per mancanza di informazioni, di educazione economico-finanziaria,per errori decisionali indotti dalla pubblicità, per dissonanze cognitive). Inoltre i giuristi anglosassoni richiamando la tragedia dei beni comuni (le terre inglesi dedicate a pascoli) che se privatizzate avrebbero reso di più ai proprietari terrieri efficienti, e quindi alla comunità, insistevano sulle "virtù taumaturgiche" della proprietà privata. Ma tali pre-giudizi novecenteschi sono stati spesso smentiti dall'esperienza. Ci si è resi conto che anzitutto occorre distinguere tra produzione e distribuzione di beni, in particolare di beni di consumo, per cui la concorrenza è più agevolmente controllabile dal mercato, servizi (bancari, assicurativi, TLC) e servizi universali. In certi casi è più efficiente, in termini di benessere collettivo e anche di allocazione delle esternalità (costi ambientali, responsabilità, diffusione delle innovazioni) utilizzare modelli pubblicistici, in altri casi modelli misti, in altri lasciare la gestione ai privati, controllando con le regole antitrust i loro comportamenti nel mercato. Quindi concordo con Daniele e sopratutto con Franco che ci ricorda che il vero problema non è la proprietà o la gestione, ma le modalità di gestione. A cui aggiungerei le modalità di un controllo efficiente e trasparente. E qui casca l'asino! Il concessionario pubblico sviluppa, tra gli altri, due vincoli rilevanti: il consenso elettorale, fonte di clentelismo e di sprechi o quanto meno di inefficienze (i confronti tra la gestione dei trasporti pubblici di Torino, Milano e Roma ha stupefatto i non addetti ai lavori) e la riduzione delle risorse, quindi la necessità di fare cassa in termini di concessione e poi di non badare alle inadeguatezze o alla lievitazione dei costi, spesso anche occulti (riduzione della manutenzione) del gestore privato. Come controllare il controllore? Le carte dei servizi indicano la strada: stabilire standard di servizio adeguati, imporli al concessionario e poi però renderli contrattualmente vincolanti nei contratti con gli utenti di servizi. Così saranno gli utenti insoddisfatti che, anzichè protestare, intentaranno azioni giudiziarie verso il concessionario chiedendo il risarcimento dei danni. In Italia per un primo periodo così è stato, ma poi si è tornati indietro, ad opera del Consiglio di Stato e non dei giudici ordinari, il che la dice lunga. A Torino all'epoca del sindaco Castellani l'allora AMIAT aveva utilizzato rappresentanti degli utenti per controllare l'efficienza della raccolta rifiuti, in particolare nelle periferie. Un'auto neutra passava dopo la raccolta per far controllare all'utente se il bidone era vuoto, mezzo vuoto o ancora pieno. Questo metodo consentì all'allora impresa pubblica locale di sviluppare efficienza e di creare un rapporto di fiducia con i cittadini. Accettare quindi, anzi, incentivare (la Germania insegna) un contropotere che bilanci l'asimmetria tra concedente, concessionario e utenti. Non è l'unico metodo, ma in questa fase...
Franco Campia - 2016-01-08
Mi inserisco su un punto dello stimolante dibattito non da economista - quale certo non sono - ma sulla base di esperienze acquisite in settori nei quali mi sono affacciato, come quello del Trasporto Pubblico e delle gestioni autostradali, dove è tuttora aperta la scelta tra l'opzione "pubblica" e quella "privata", ricordando però che tale scelta non è normalmente così netta, in quanto il "pubblico" opera quasi sempre attraverso organismi di diritto privato, talora anche con capitali misti. Mi sembra che lo snodo principale, in ambedue i casi, non sia tanto quello di decidere se debbano o meno entrare in gioco i privati ma a quali CONDIZIONI ciò possa/debba avvenire. Concordo col prof. Ciravegna, ad esempio, che la privatizzazione della ferrovie inglesi non ha certo rappresentato un esempio virtuoso... Nel caso del Trasporto Pubblico queste condizioni sono dettate dal contenuto dei bandi di gara: ad esempio riferirsi a tutte le linee di un certo ambito territoriale, sia quelle ad alta redditività sia quelle marginali e strutturalmente passive; il rispetto di politiche tariffarie pre-concordate, la garanzia di determinati standard qualitativi, ecc... Analogamente, rispetto a porzioni del sistema autostradale, lo strumento cardine è la Concessione che definisce gli impegni sia di manutenzione/gestione sia di realizzazione di nuove opere di potenziamento. La reale difficoltà si incentra dunque sulla definizione dei contenuti delle Concessioni e dei relativi piani finanziari, da cui dipenderanno anche le tariffe d'uso. Il rischio, ben noto, è che in questa fase la mano pubblica risulti cedevole o superficiale rispetto ad interlocutori agguerriti e lobbysticamente più che attrezzati. Ammesso che il Pubblico sia in grado di gestire con rigore ed ampiezza di prospettive questa fase di definizione delle regole del gioco, e di farle poi rispettare, l'apporto del settore privato potrà risultare certamente positivo, visto che sarà meno esposto ai rischi incombenti sulla gestione pubblica diretta o "mascherata" attraverso società di diritto privato. Rischi ben noti: assunzioni clientelari ai diversi livelli (pensiamo solo ai recenti episodi romani), una certa leggerezza nella gestione finanziaria delle aziende, contando sulla copertura in qualche modo assicurata dagli Enti pubblici di riferimento, ecc... Mi sono limitato a qualche osservazione superficiale, al limite della banalità, ma nella speranza che anche localmente, a monte delle sedi istituzionali chiamate a decidere, si aprano invece dei confronti approfonditi ed allargati su questi temi, confronti di cui sento francamente la mancanza.