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La tecnologia senza timone
 
di Giuseppe Ladetto
 

Ho già fatto cenno al tema di come governare lo sviluppo tecnologico rispondendo ad alcune rilievi fatti a un mio precedente articolo (La profezia di Jeremy Rifkin). Torno sull’argomento perché richiede di essere trattato con maggiore attenzione.
È frequente l’accusa di essere passatista o antimoderno nei confronti di chiunque non esalti incondizionatamente il progresso tecnologico, o peggio ponga interrogativi e sollevi dubbi rispetto all’introduzione di nuove tecniche. Anche il principio di precauzione, che richiede delle verifiche prima del via libera alle novità, è considerato un ostacolo al progresso (Umberto Veronesi si è espresso più volte in tal senso). È il caso di fare un po’ di chiarezza in argomento, ascoltando alcune voci qualificate, difficilmente classificabili come reazionarie od oscurantiste.
Anthony Giddens scrive che “vivere nella modernità è come viaggiare su un bisonte della strada lanciato in una corsa folle”. Inoltre, rileva che “a determinare questa folle corsa, gioca un ruolo rilevante l’incontrollata crescita tecnologica. Il costante rivoluzionamento operato dalle innovazioni tecnologiche trae origine soprattutto dagli imperativi dell’accumulazione capitalistica e da considerazioni di ordine militare, ma possiede, una volta messo in moto, un proprio dinamismo”. E aggiunge che “la tecnologia non avanza mai verso qualche cosa, ma viene spinta da dietro: il tecnico, per il sempre più ristretto ambito di competenza, non sa per quale fine sta lavorando e in fondo non gli interessa saperlo”.
Luciano Gallino in Tecnologia e democrazia dichiara che, a fronte degli interrogativi che pone lo sviluppo tecnologico, in particolare pensando alle manipolazioni dei viventi e agli interventi sull’ambiente, è lecito chiedersi dove si stia andando e se sia possibile governare l’innovazione guidandola verso una meta.
Tuttavia, quanti operano nel mondo tecnologico obiettano che è impossibile governare l’innovazione perché ciò implica la capacità di anticipare il futuro, e perché l’innovazione è il risultato aleatorio, e sovente non previsto, dell’attività di ricerca che le imprese conducono. Quanto alle implicazioni sociali e culturali della penetrazione tecnologica in ogni sfera della vita, i tecnologi ritengono che valutarli non sia affare loro, ma della politica. Non si sentono nemmeno chiamati in causa dagli imprevisti effetti negativi delle innovazioni tecnologiche. Oggi, osserva Gallino, di fronte ai danni eventualmente prodotti, le iniziative legali coinvolgono solo l’ultimo operatore dell’evento senza mai risalire al progettista e al realizzatore dell’apparato tecnologico. In argomento, si risponde che la tecnologia fornisce strumenti e che non è affare suo l’uso che ne viene fatto. Per mettere comunque a tacere i critici dello sviluppo tecnologico incontrollato, si additano i successi conseguiti nel corso del XX secolo dalla tecnologia, successi che hanno trasformato il mondo.
Rileva Gallino che di fronte a tali riposte ci sentiamo a disagio, e non possiamo non concordare con lui. Aggiunge, infatti, che: “la tecnologia nel XX secolo non è stata governata da alcun agente regolativo o lo è stata in modo parziale. Anzi si può dire che si è sviluppata grandemente proprio perché non controllata. Tuttavia oggi non si può fare a meno di qualche sua forma di governo, per le immani dimensioni del potere che ci siamo dati su noi stessi e sull’ambiente”.
Oggi, fra quanti auspicano un controllo dello sviluppo tecnologico, i più sembrano avere in mente solo i possibili pericoli ad esso connessi: danni ambientali, riduzione della biodiversità, inverno nucleare, modificazioni climatiche, distruzione di identità socioculturali. Le preoccupazioni più diffuse, che richiamano in misura crescente l’attenzione dei governi, riguardano i possibili danni ambientali riconducibili a impianti aziendali inquinanti, scorretto smaltimento dei rifiuti, termovalorizzatori, centrali nucleari, ecc., sicché da qualche tempo si fa più severa la legislazione in materia. Tuttavia, ci dice Anthony Giddens, questo non è sufficiente perché, se si vogliono evitare i rischi seri e irreversibili dello sviluppo tecnologico, non basta valutare, caso per caso, situazione per situazione, il suo impatto esterno, ma occorre riesaminare la logica stessa di uno sviluppo scientifico e tecnologico inarrestabile, e introdurre problematiche morali nel rapporto ormai ampiamente strumentale tra esseri umani e ambiente creato.
Luciano Gallino va oltre. Se la valutazione dei rischi è un’operazione indispensabile per i poteri smisurati che la tecnica ha assunto, il governo di essa non si deve limitare a questo sia pure importantissimo aspetto di ordine difensivo. Le si devono porre delle nuove mete, dettate dai bisogni dell’uomo. Tra queste, Gallino indica il lavoro, la qualità della vita, la libertà di scelta individuale e collettiva.
Oggi, nelle società industriali, il lavoro sta diventando scarso. In molti settori dell’industria, a fronte di miglioramenti sostanziali della qualità del lavoro, il numero degli addetti è in continua diminuzione. L’aumento dell’occupazione, quando avviene, si verifica in comparti, prevalentemente esterni all’industria, nei quali il lavoro ha caratteristiche arretrate e talora peggiori di quelle riscontrabili decenni fa. Invece di sostituire l’uomo nell’attività lavorativa, si potrebbe chiedere alla tecnologia di prendere in considerazione modalità produttive che accrescano la domanda quantitativa e qualitativa del lavoro. Nei Paesi industrializzati dove la povertà è ancora diffusa e talora in crescita, si potrebbe porre alla tecnologia il compito di contrastare l’impoverimento rispondendo ad esigenze basilari quali speranza di vita, salute, istruzione, disponibilità abitative. Inoltre, sarebbe giusto, aggiunge Gallino, estendere a un sempre più ampio numero di persone la libertà di scelta consentita dal progresso tecnologico realizzato nell’Occidente. Una quota rilevante di popolazione, infatti, non è ancora nella condizione di poter usufruire dei mezzi creati dalla tecnologia per limiti nella formazione ricevuta. Inoltre, per la velocità di crescita del progresso tecnologico, sempre più numerose fasce di popolazione vengono escluse perché non in grado di inseguirne gli sviluppi. Altro aspetto riguarda gli apparati tecnici che hanno cessato di essere solo dei mezzi perché hanno incorporato in sé scopi e finalità che vengono di fatto imposti agli utenti. La libertà di scelta risulta quindi priva di un concreto fondamento. Occorrono pertanto, scrive Gallino, iniziative atte a mettere le persone in condizione di accedere ai mezzi tecnologici e di utilizzarli adeguatamente nel mondo del lavoro e della vita di relazione; bisogna invertire, inoltre, il rapporto oggi esistente tra predecisioni tecniche incorporate nel mezzo e scopi di chi utilizza i mezzi in questione.
Il mondo dei tecnologi risponde che non è di sua competenza creare occupazione. A sostituire il lavoro con robot e computer sono altri fattori quali i livelli elevati dei salari nei Paesi avanzati, il tasso di profitto, la concorrenza internazionale ad opera dei Paesi emergenti. Rifiuta anche di prendere in considerazione gli altri obiettivi proposti perché ogni scopo dipende dai valori a cui si ispirano i soggetti individuali e collettivi che consumano la tecnologia, che è applicabile a molteplici finalità sulle quali essa non ha nulla da dire.
Risposta non accettabile, rileva Gallino, perché “la ragione tecnologica, per giustificare se stessa, è pronta a rivendicare il suo contributo al progresso conseguito sino ad oggi, e pertanto non può allontanare dal proprio orizzonte futuro tale compito”.
In materia, il discorso del sociologo va al cuore della questione quando rileva che la tecnologia non nasce fuori della società, e che guidare la tecnologia comporta dirigere dall’interno un sistema sociotecnico (formato da apparati tecnologici, individui, relazioni interindividuali) verso i fini che liberamente si dà. Impresa non semplice nel quadro delle condizioni e delle modalità in cui i tecnologi si trovano attualmente a operare. Infatti, per comprendere e anticipare i fenomeni che lo sviluppo tecnologico produrrà consentendoci di governarli, non si può ricorrere ad alcun metodo di valutazione che resti soltanto in ambito tecnologico e che soprattutto guardi a un solo aspetto (quello dello specifico settore in questione). Obiettivi come l’incremento della quantità e qualità del lavoro, l’impedire un possibile rischio di ritorno della povertà umana, l’ampliamento della effettiva libertà di scelta delle persone richiedono il ricorso a competenze multiple coordinate e a risultati conoscitivi unitari. Se tali fini sono frammentati tra differenti tecnologie collegabili a particolari discipline, l’intera questione viene ridotta all’insignificanza.
Gallino evidenzia che “i veri problemi sono sempre interdisciplinari: ne derivano conseguenze anche sul piano della formazione scolastica e dell’educazione. Scuole e università devono promuovere il dialogo tra discipline tecniche e umanistiche come criterio fondamentale del processo educativo”. Noto che le varie riforme della scuola e dell’università messe in campo nel nostro Paese da governi di varia connotazione politica (compresa quella definita della “buona scuola”) ignorano la questione quando non vanno in direzione opposta a quella auspicata dal sociologo.
E non si tratta solo di un problema italiano. Infatti, qualche tempo fa in un’intervista, Edgar Morin, noto sociologo francese, ha detto che un sistema di insegnamento che separa le discipline e spezzetta la realtà rende di fatto impossibile la comprensione del mondo, e ci impedisce di cogliere i problemi fondamentali che sono sempre globali. L’eccesso di specializzazione è diventato un problema perché gli esperti, anche quando molto qualificati, non sanno più come reagire appena il loro ambito specifico è attraversato da altre problematiche. Avrebbero bisogno di affrontare globalmente i problemi, ma non sono in grado di farlo. Comprendere l’interdipendenza dei sistemi culturali e delle idee, aggiunge Morin, è oggi più che mai necessario. Ciò contribuirà a cambiare il nostro modo di pensare, dandoci uno strumento in più per sfuggire all’abisso verso cui il pianeta sembra essere destinato.
Come si vede dagli interventi proposti, la questione che si pone non riguarda il rifiuto della tecnologia, ma il suo governo responsabile. Credo che tutti siano favorevoli alla crescita e alla diffusione di cultura, conoscenza scientifica e tecnologia in modo da poter sfruttare responsabilmente le opportunità del progresso. Ciò che bisogna chiedersi è se la strada che attualmente si sta percorrendo vada in tale direzione.
A me pare di no.


franco maletti - 2015-09-24
Questo non è un problema nuovo. Già trenta anni fa Brandt osservava come le conoscenze dell'umanità raddoppino mediamente ogni cinque anni, e che questo avrebbe dovuto comportare, per compensazione, il raddoppio della saggezza da parte degli uomini: una cosa praticamente impossibile. Forse, l'unico modo per rimediare, almeno parzialmente, sta nella filosofia e nelle conoscenze umanistiche. Ogni scoperta di per sé è neutra: le conseguenze sono determinate dall'uso che ne viene fatto. In questo caso non è il politico che può stabilire (tardivamente) le regole, ma la nostra coscienza individuale.
marco verga - 2015-09-17
Complimenti all'autore. Aggiungerei il tema della riduzione degli orari lavorativi e riduzione delle tasse sul lavoro, uniche leve per sostenere l'occupazione.
Andrea Griseri - 2015-09-17
Lucidissimo intervento come sempre da parte di Ladetto. Scendo su un terreno cocnreto: si parla con sempre maggiore insistenza delle stampanti 3 D che dovrebbero offrire a tutti l'opportunità di costruire in casa diverse teipologie di oggetti. Fantastico. ma si sta valutando quanti posti di lavoro nell'industria ma anche e soprattutto nell'artigianato si rischiano di perdere? risponderebbe un nipotino di von hayek che il progresso è selettivo e la selezione rafforza la specie; ma ne siamo sicuri? si crerebbe una concentrazione rapida di ricchezza a scapito dell'impoverimento di molti? Ognuno si costruirebbe i propri beni d'accordo: ma se io faccio poniamo il promotore finanziario vedrò molti miei clienti piccoli imprenditori o artigiani ridotti in rovina e presto finirò io pure sul lastrico consolato dagli oggetti che mi sarò stampato da solo?