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L'imbroglio dei numeri sull'occupazione
 
di Domenico De Masi
 

Nietzsche diceva che non ci sono fatti ma solo opinioni. È per questo che i dati sull'occupazione sono soggetti a una lettura “ottimistica” se operata dai filo-governativi e “pessimistica” se operata dagli anti-governativi. Occorre dunque ricominciare dai fatti.
Recentemente gli imprenditori hanno fruito di un duplice incentivo: gli sgravi fiscali consentiti dalla legge di stabilità e, a partire dal 7 marzo, i maggiori margini di licenziamento consentiti dal Jobs Act. Poiché questi incentivi erano ampiamente annunziati e attesi, è ovvio che nei mesi precedenti la loro andata in vigore gli imprenditori hanno assunto il minimo necessario.
Tuttavia, i dati INPS e ISTAT relativi a quei mesi indussero il Ministro del Lavoro Poletti a un prematuro ottimismo con cui egli arrivava a vantare 70.000 nuove assunzioni e indusse gli oppositori a un prematuro pessimismo: Eugenio Scalfari, in un editoriale su “Repubblica”, arrivò a ricordare che il saldo attivo degli occupati era di soli 13 neo-assunti.
Come sarebbe stato prudente evitare giudizi così contrastanti nei mesi che precedettero la nuova normativa, così è imprudente dare oggi giudizi trionfalistici relativi ai primi mesi che la seguono. È infatti ovvio che, avendo le imprese rinviato al dopo-legge-di-stabilità e al dopo-Jobs-Act le nuove assunzioni per poterne godere i benefici, oggi le assunzioni siano più della norma, essendosi cumulate negli ultimi mesi tutte quelle evitate nei mesi precedenti.
Inoltre è probabile che i 319.000 rapporti di lavoro avviati nel primo trimestre 2015 (con un +138% rispetto al corrispondente trimestre del 2014), celino un trucco: molte imprese hanno trasformato i vecchi contratti a tempo determinato in nuovi contratti a tempo indeterminato per ottenere i benefici della nuova normativa.
Ne deriva che le nuove assunzioni sono più fittizie che reali e, per i presunti neo-assunti, il contratto a tempo indeterminato significa ben poco dal momento che essi, ormai privi dell’art. 18, possono essere licenziati in qualunque momento.
È assai probabile che anche nel prossimo trimestre le assunzioni aumentino, per poi tornare alle cifre di un anno fa. Infatti le proiezioni ISTAT per il 2016 ci danno una disoccupazione al 12% e una disoccupazione giovanile al 43%.
Resta comunque la zona d’ombra del settore industriale dove, anche in questi mesi di vacche grasse, i dati occupazionali restano negativi: -0,9% rispetto allo scorso anno. Come mai? Per capirlo forse è necessario guardare più al progresso tecnologico che all’evoluzione normativa.
In fabbrica procede la rivoluzione iniziata con la scoperta del microprocessore: dopo aver sostituito gran parte degli operai, le nuove tecnologie vanno sostituendo anche gli impiegati e persino i manager. Ciò incrementa la produttività ma decrementa l’occupazione, se l’orario di lavoro resta invariato. E mentre il Jobs Act e gli sgravi fiscali incentivano l’occupazione in misura aritmetica, il progresso tecnologico la riduce in misura geometrica.

(Tratto da www.linkedin.com)


Giuseppe Ladetto - 2015-06-17
Quindi Jeremy Rifkin, con la sua denuncia della "fine del lavoro" ha ragione. E' tempo che si cominci a prendere atto di questo fatto per cercare nuove strade . Scrive Rifkin che "il lavoro umano inutilizzato sarà il fatto fondamentale della prossima epoca; sarà il primo problema a cui il mondo politico dovrà dare risposta. Il consorzio umano, infatti, sarà destinato a disintegrarsi in una condizione di crescente povertà e criminalità, se le capacità e le energie di centinaia di milioni di esseri umani non verranno indirizzate verso fini costruttivi". Ora la domanda è: l'attuale sistema economico produttivo è in grado di affrontare questa sfida?