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La controversa impronta ecologica
 
di Giuseppe Ladetto
 

Il mondo economico e quello imprenditoriale sono in genere molto scettici in tema di guasti ambientali prodotti dalle attività produttive, e più in generale rispetto al problema dei limiti della crescita. Il loro primo obiettivo polemico è il Club di Roma, le cui previsioni per il Duemila sarebbero state completamente smentite. Su tale base, gli esponenti di tali mondi, si sentono legittimati a dire che anche le attuali rappresentazioni negative degli eventi prossimi venturi avranno lo stesso destino. Malgrado il recente ed autorevole rapporto sul clima dell’Intergovernmental Panel on Climate Change (che conferma l’esistenza del riscaldamento in atto e fa propria la tesi che a causare i cambiamenti climatici siano le attività dell’uomo), ha ancora molto seguito in questo mondo Bjorn Lomborg, un sedicente ambientalista che nega, sulla base di argomentazioni statistiche, l’esistenza di rilevanti modificazioni della temperatura terrestre. Sulla stessa linea negazionista, si trovano i partecipanti al Seminario di Erice sulle emergenze planetarie del 2012, organizzato da Antonino Zichichi riunendo personalità di varie competenze. Fra queste, tuttavia, a mancare erano gli scienziati attivi nella ricerca climatica, i soli di cui sarebbe logico privilegiare la parola. Rilevando tali assenze, Kevin Trenberth, ricercatore di fisica dell’atmosfera, ha posto polemicamente un interrogativo alla pubblica opinione: “Vi rivolgereste al vostro dentista per conoscere quali siano le condizioni del vostro cuore?”. È certo meglio fare riferimento a un cardiologo.
Non solo sulle modificazioni climatiche, ma anche su altre tematiche ambientali si riscontra un diffuso scetticismo. Un noto e stimato economista (non faccio nomi in quanto si tratta di affermazioni fatte non pubblicamente) qualche tempo fa ha definito “giochini intellettuali” riferimenti quali l’impronta ecologica e l’overshoot day (il giorno del sorpasso).
Ora le previsioni degli scienziati (climatologi, matematici, fisici, geologi, biologi ecc.) che elaborano simulazioni sono affette, come accade sempre in ambito scientifico, da incertezze e imprecisioni, anche se detti scienziati operano in base a rilevazioni attente dei fenomeni e utilizzano algoritmi sempre più sofisticati e potenti. È un po’ come accade per le previsioni del tempo: non mancano le occasionali smentite, ma in questi ultimi anni le previsioni a breve e medio periodo sono diventate sempre più precise e sicure. Così accade anche in fatto di ambiente. Credo che attribuire preconcetti ideologici agli scienziati non sia un atteggiamento positivo. Pertanto, prima di definire un “giochino intellettuale” l’impronta ecologica, sarebbe bene cercare di comprendere meglio di che cosa si tratti.
L’impronta ecologica è un parametro utilizzato per indicare la quantità di territorio (bioproduttivo) necessaria per soddisfare i consumi umani (rispettando la capacità della Terra di rigenerare le risorse utilizzate) e per assorbire o metabolizzare i rifiuti prodotti. Viene espressa in ettari pro capite. Chi dice che oggi l’impronta ecologica di un cinese è maggiore di quella di un europeo o di un americano (affermazione fatta più volte da parte di autorevoli commentatori di fatti economici) non ha compreso di che cosa si stia parlando. L’utilizzazione di risorse e la produzione di inquinanti da parte dell’industria manifatturiera cinese vanno messe in carico a chi consuma i prodotti cinesi: quindi si tratta in larga parte degli abitanti dei Paesi occidentali. È il reddito individuale con i relativi consumi a pesare. C’è infatti una correlazione tra i PIL pro capite e le impronte ecologiche registrate nei vari paesi: di massima, dove il PIL è più elevato, è più alto il valore dell’impronta ecologica, dove il PIL è basso lo è anche l’impronta ecologica. Si tratta tuttavia di una correlazione non assoluta, perché si può notare (dati 2012) che il PIL pro capite americano supera del 17% quello tedesco, ma l’impronta ecologica di un americano è di oltre il 50% superiore a quella di un tedesco. Ciò significa che, sul terreno del contenimento degli sprechi e su una più razionale utilizzazione delle risorse, si può fare parecchio, e che la Germania fa di più degli Stati Uniti.
L’impronta ecologia riferita a una specifica popolazione è suscettibile di variazioni nel tempo. Può diminuire per riduzione delle risorse richieste e dei rifiuti generati per unità di prodotto consumato, oppure a causa di un calo dei consumi e dei rifiuti per abbassamento del livello di vita. Può accrescersi per processi opposti ai precedenti. Considerando le variazioni nel tempo, si osserva che l’impronta ecologica dei Paesi ricchi ha raggiunto i valori più alti negli anni Settanta per poi diminuire significativamente. Questo fatto apre un capitolo molto enfatizzato dagli economisti più attenti a questi problemi. Viene giustamente detto che i modelli di crescita dei Paesi ricchi sono attualmente prevalentemente incentrati su un prodotto lordo di origine immateriale che richiede poca spesa energetica, differentemente da quanto avveniva nella “modernità solida”, quando a dominare era la manifattura. Il mondo digitale, in cui stiamo entrando, è fatto di reti, di informatica, di elettronica, di telecomunicazioni, di biotecnologie, di nanotecnologie, di attività di ricerca scientifica e tecnologica, ecc. A queste attività innovative, si accompagnano servizi più tradizionali, in cui sono impegnati insegnanti, operatori sanitari di vario livello, addetti alla sicurezza pubblici e privati, operatori turistici, collaboratori domestici, badanti, addetti alle consegne a domicilio, ecc. Sono nel complesso attività che richiedono investimenti in capitale cognitivo o in lavoro umano assai più che in capitale fisico. Quindi si conclude che la crescita, in termini di PIL, rimane sempre praticabile quando sostenuta da produzioni immateriali e da servizi non energivori.
Ora, se i problemi ambientali vanno affrontati senza allarmismi eccessivi (come si sente frequentemente dire), sarebbe opportuno rimanere prudenti anche nel prefigurare questo futuro immateriale fondato esclusivamente su “beni che non fanno male se ti cadono su un piede”, come è stato detto autorevolmente. Se infatti passiamo dalla teoria alla pratica, ci troviamo di fronte a fatti che solo parzialmente sono in accordo con le premesse teoriche.
In primo luogo, si assiste al trasferimento delle attività manifatturiere verso i Paesi emergenti con la conseguenza che, mentre si riducono in Occidente inquinamento e prelievo di risorse naturali, questi crescono marcatamente nei nuovi Paesi manifatturieri (Cina in primis). In parallelo, si verifica un aumento del traffico globale di merci che genera un ulteriore consumo di energia. In secondo luogo, la nuova economia è solo relativamente immateriale perché poggia su infrastrutture materiali ben solide, e richiede apporti energetici e di materie prime non irrilevanti. Inoltre, sono necessarie materie prime poco diffuse nel pianeta: fra queste, ad esempio, le “terre rare”, delle quali è principalmente depositaria la Cina, che da qualche tempo ne ha limitato l’esportazione privilegiandone la destinazione alle proprie imprese. Infine crescono i consumi dei Paesi emergenti e, sia pure in minore misura, quelli dei Paesi ricchi. Ad esempio, le automobili e gli elettrodomestici degli anni Settanta contenevano molto più ferro di quelli odierni, tuttavia, da allora ad oggi, il consumo di ferro è cresciuto annualmente del 2,5% anche perché si producono molte più automobili ed elettrodomestici. Così i prelievi di materie prime continuano a crescere a livello mondiale.
L’impronta ecologica va messa in relazione con la biocapacità, ovvero con la superficie disponibile (espressa in ettari pro capite) del pianeta necessaria per fornire le materie prime, l’energia, e gli alimenti per la vita delle persone e per metabolizzarne i rifiuti (CO2 compresa). Anche la biocapacità di un’area può variare nel tempo: in positivo, per l’aumentata produttività del terreno in rapporto a tecnologie innovative; in negativo, per deterioramento ambientale (erosione del suolo, aridità, inquinamento, cementificazioni ecc.) o per carenza di mezzi e risorse (ad esempio fertilizzanti) da impiegare nei processi produttivi. Inoltre, essendo espressa pro capite, inevitabilmente diminuisce col crescere della popolazione. Nel complesso la superficie disponibile pro capite continua ad essere in progressiva diminuzione.
L’impronta ecologica dell’umanità ha superato la biocapacità globale a metà anni Ottanta. Oggi, l’impronta ecologica media planetaria è di 2,2 ettari pro capite, mentre la superficie biodisponibile pro capite è di 1,8 ettari. La crescita demografica inevitabilmente aumenterà tale divario. In particolare nell’Africa nera, abitata da 800 milioni di persone, si registra un incremento annuale di 20 milioni di esseri umani. Nella sola Nigeria (il paese più popoloso del continente con già 170 abitanti per kmq), la popolazione cresce di 4 milioni ogni anno. Sarà pertanto assai difficile sostenerne le esigenze senza ridurre i prelievi di risorse degli abitanti dei paesi sviluppati e non solo di essi, perché non c’è innovazione tecnologica possibile in grado di garantire a tutti gli abitanti del pianeta livelli di consumi analoghi a quelli americani od europei.
Il ricorso a parametri quali l’impronta ecologica e la biocapacità è utile per comprendere dove sta andando il mondo e per valutare le necessarie misure per definire una crescita sostenibile (modificando radicalmente i consumi e i modi di produrre), ancorché detti parametri richiedano continue correzioni e aggiornamenti in base alle sempre nuove acquisizioni scientifiche in materia. Negarne a priori la validità non è né prudente, né saggio.
A fronte dell’insofferenza – e talora dell’ostilità – diffusa tra la gente (e spesso alimentata dalle classi dirigenti) nei confronti delle voci (assimilate ai gufi) che chiedono attenzione a queste problematiche, e in primis alle modificazioni climatiche, Luca Mercalli (in un incontro organizzato dall’Accademia dell’Agricoltura di Torino) ha invitato i presenti a rileggere il XXXI capitolo dei Promessi sposi, quello relativo alla peste, trovandovi analogie con il presente. I due medici che hanno segnalato i primi casi di peste nel contado lombardo sono stati prima sbeffeggiati, poi minacciati, mentre il morbo avanzava verso la città. Le autorità, per giustificare i decessi segnalati, hanno parlato (in sintonia con la pubblica opinione) prima di aria malsana di palude, poi di febbri maligne, quindi di febbri pestilenti negando tuttavia il contagio. Infine quando sono state costrette a riconoscere che di peste si trattava, e a prendere in fretta e furia misure ormai tardive e comunque insufficienti, questa era ormai entrata in Milano e vi si diffondeva. Ciò malgrado, non tutti erano ancora convinti della presenza del morbo. Fra questi, don Ferrante, tipico esponente della cultura dell’epoca, continuava a negare il contagio, attribuendo i decessi alla fatale congiunzione di Saturno con Giove, sicché alla fine morì di peste prendendosela con le stelle.
Forse sarebbe il caso di non ripetere gli errori di allora.


Giuseppe.Ladetto - 2015-06-12
Rispondo volentieri alla richiesta di Andrea Griseri, anche se conosco solo parzialmente gli scritti dei “profeti della decrescita” Non ho letto niente di Illich mentre ho presenti alcune opere di Latouche e (come ho scritto qualche tempo fa in Obiettori di crescita) i libri recentemente pubblicati di Stefano Bartolini, di Edmondo Berselli, di Mauro Bonaiuti e di Giuseppe Giaccio. Non tutti questi autori rientrano pienamente fra i “profeti della decrescita”. Fra questi, anche per me, il più convincente è Mauro Bonaiuti, che, essendo un docente dell’ateneo torinese, forse sarebbe il caso di invitare in qualche occasione per illustrarci il suo pensiero. Per quanto riguarda Latouche, credo che abbia fatto un errore di comunicazione definendo “decrescita felice” il suo progetto. Il nocciolo del suo discorso non implica una vera decrescita ma il rispetto dell’equilibrio tra prelievi di risorse ed emissione di inquinanti, da un canto, e, dall’altro canto, capacità del pianeta di rigenerare le risorse e di metabolizzare le scorie. Mi sembra poi un’imprudenza aver attribuito alla fuoriuscita dalla crescita l’aggettivo “felice”. Giuseppe Giaccio giustamente rileva che non c’è alcuna certezza sull’esito di un tale percorso che potrebbe anzi essere tragico perché chi (nazione, categoria sociale, ecc) oggi detiene il controllo delle risorse userà qualunque mezzo per mantenerlo, comprese le armi nucleari o quelle biologiche.
Beppe Gamba - 2015-06-04
Ottimo ed equilibrato contributo. Ora sarebbe anche interessante entrare nel merito delle necessarie azioni di mitigazione e adattamento, ovvero degli interventi mirati ad aumentare l'efficienza del sistema economico, a eliminare gli sprechi, a indurre stili di vita più sobri. Trasformazioni del modo di vivere, produrre e consumare che molto dipendono dalla sensibilità di cittadini, imprenditori e consumatori, ma che alla fin fine molto sono condizionate dalle politiche pubbliche e dalle scelte di Governo. E qui bisogna ammettere che in Italia i Governi e i parlamenti che si sono succeduti fin qui sono ancora troppo distratti, o forse convinti che sia colpa delle stelle....
Andrea Griseri - 2015-06-04
Grazie per questa efficacissima sintesi.Col suo permesso diffondo. Vorrei conoscere la sua opinione sui c.d. profeti della decrescita (Illich che ne è l'antenato, Latouche che forse è l'economista più noto di questa scuola). Sempre su questo filone in Italia opera Bonaiuti: avevo letto un suo libro e mi è parso scientificamente dotato e più realista di un Latouche.
marco verga - 2015-06-04
Si stima che il 97% della comunità scientifica sia concorde sui cambiamenti climatici. Esiste sempre una minoranza che in buona fede o spesso al soldo di qualcuno nega l'evidenza. Quindi non c'è divisione sul tema e sempre di più è necessario liberarsi delle pseudoscienze o delle cattive scienze che ci danneggiano e ci fanno ritornare ad un medioevo scientifico.