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La risposta è nella qualità
 
di Daniele Ciravegna
 

Come creare lavoro? La domanda, di tre parole, richiederebbe una risposta di tre milioni di parole.
La crisi iniziata nel 2008 ha coinvolto moltissimi Paesi in tutto il mondo. La sua gravità, in Europa, è stata peggiore di quella del 1929. Pensavo che la Grande Depressione non potesse più ripetersi. Eppure, malgrado l’esperienza maturata negli ottant’anni passati, si è ricaduti in errori già visti. Le banche questa volta sono state sostenute – non come allora – ma, come allora, è stata applicata in Europa la cura della politica dell’austerità che, deflazionando la domanda, ha aggravato di molto la crisi.
La crisi attuale – sommersa inizialmente sotto l’acqua della crisi finanziaria – è ora riapparsa alla ribalta nei suoi connotati di fondo. Discende dalla mondializzazione del sistema economico, che pone a confronto economie con livelli di vita assai differenti fra di loro: economie (l’Italia, per esempio) con elevata quantità pro capite di beni prodotti e disponibili per la popolazione; economie (Africa sub-sahariana, per esempio) con insufficienti quantità pro capite di beni prodotti e disponibili per la popolazione; ma anche economie (la Cina, per esempio) con medie quantità pro capite di beni prodotti, però con basse quantità di beni disponibili per la popolazione, poiché hanno una forte eccedenza delle esportazioni sulle importazioni.
La disponibilità di beni è alta (primo gruppo di Paesi, che chiamiamo “ricchi”) là dove il lavoro è ben retribuito ed è bassa (secondo e terzo gruppo di Paesi, definibili per comodità “poveri” ed “emergenti”) là dove il lavoro è scarsamente retribuito. Conseguenza di ciò è che le imprese tengono a lasciare i primi Paesi per localizzarsi nei secondi e i primi Paesi hanno anche difficoltà a mantenere la competitività in termini di prezzo rispetto agli altri. Cioè nei Paesi ricchi, per un verso, si perdono produzione e occupazione per via dell’uscita delle imprese verso i secondi e, per altro verso, le imprese che rimangono hanno grosse difficoltà nel mantenere la loro posizione nei mercati internazionali, con ulteriore perdita di produzione e occupazione.
Di fronte a questa situazione epocale, due sono le risposte che possono essere date. La prima è che si accetti una più equilibrata redistribuzione della produzione mondiale: si stima che oggi i beni prodotti possano soddisfare i bisogni di base di una popolazione di 12 miliardi di persone; siamo in realtà 7 miliardi, ma 800-850 milioni sono le persone che soffrono di denutrizione grave e permanente. Queste vivono nei Paesi poveri ed emergenti (oltre che, come minoranze, in Paesi ricchi) e gli spostamenti di produzione verso di essi porterebbe a una redistribuzione della produzione a loro favore. Nei Paesi ricchi, il dover competere in termini di prezzo con i beni che provengono dagli altri due gruppi di economie non potrà che deprimere il livello delle retribuzioni del lavoro al proprio interno. Una redistribuzione con perdita del livello di vita economico nei Paesi del primo gruppo e guadagno nei Paesi poveri ed emergenti, a meno che la maggiore produzione venga destinata all’esportazione in misura maggiore rispetto alle importazioni.
Se tale perdita di reddito nei Paesi ricchi non è gradita, questi devono scegliere la seconda risposta: puntare sulla qualità dei prodotti, non tanto nel senso di spostarsi sulla gamma di produzione di élite (per definizione, di dimensioni quantitative limitate), ma nel senso di avere requisiti di qualità superiore anche nelle produzioni di massa, così da poter essere venduti a prezzi più elevati rispetto alla concorrenza estera.
Se la concorrenza potrà essere battuta anche applicando prezzi più alti (questo è il significato pragmatico della competizione in termini di qualità), si potranno mantenete livelli di redditi, e quindi livelli di vita, più elevati. L’alternativa all’abbassamento dei livelli di vita nei Paesi del primo gruppo sta quindi nel saper competere in termini di qualità dei prodotti. Ma non si può avere qualità nei prodotti se non si ha qualità del lavoro, che di per sé è in grado di produrre beni di elevata qualità, ma è anche in grado di determinare la buona qualità del capitale attraverso processi d’innovazione attuati grazie all’elevata qualità del lavoro dei ricercatori e degli organizzatori della ricerca.
La qualità del lavoro è l’elemento di snodo per competere con gli altri Paesi, che hanno costi più bassi, mantenendo il proprio tenore di vita, ma qualità del lavoro è anche mettere al centro dell’attività economica il lavoro e non il capitale, mettere l’uomo al centro dell’economia, come afferma la Dottrina sociale della Chiesa: il lavoro è per l’uomo e non il lavoro/l’uomo al servizio della produzione.
Investire nella qualità del lavoro – in “capitale umano”, come dicono gli economisti – è tuttavia assai impegnativo. Secondo un detto buddista, “se vuoi mangiare subito, devi raccogliere; se vuoi mangiare tra un anno, devi seminare; se vuoi mangiare tra dieci anni, devi piantare; ma se vuoi mangiare tra venti anni, devi educare”. Se non faremo questo investimento di lungo periodo dovremo accontentarci di sopravvivere.
Si deve puntare a creare lavoro, ma non un lavoro qualsiasi: deve essere un lavoro di qualità e dignitoso, cioè tale da permettere all’uomo e alla donna di realizzare la propria persona, tale da consentire l’inclusione sociale del lavoratore. Non solo, importante è anche il lavoro produca beni socialmente utili. Dico questo poiché sovente si sente dire che quella certa iniziativa è positiva perché crea occupazione, che una certa opera pubblica ha da farsi perché crea occupazione. Addirittura si sente dire con un accento di positività, ad esempio, che la produzione di coca e la sua lavorazione in pasta di coca e in polvere di cocaina dà lavoro a decine di migliaia di persone in Sud America. Discorsi analoghi per la produzione di armi. Non si avverte la necessità di scendere in profondità: lavorare è premessa per produrre “cose”, ma occorre che queste cose siano “cose individualmente e socialmente buone”, siano “beni”. Non ci si può fermare all’attività produttiva, al flusso di reddito che il lavoro apporta al lavoratore e alla sua famiglia, e neppure alla realizzazione della personalità del lavoratore/lavoratrice: è invece necessario che da questa attività sgorghino “cose buone”. Altrimenti il lavoro non compie la sua missione, che consiste nel mettere a disposizione della propria comunità “beni” e non semplicemente “cose” o nel produrre beni per metterli a disposizione di altri, esportandoli, per dare agli altri questi beni di cui essi abbisognano o per avere dagli altri beni che si importano in cambio.
Ci sono poi vari modi per produrre. Di solito si mette al centro l’indicatore rappresentato dal profitto, che certamente deve esserci, in quanto indicatore di efficienza produttiva. Ma non come unico indice di valore assoluto. C’è il modo di produrre in cui le decisioni sono prese con un approccio cogestionale da parte dei diversi fattori che partecipano all’attività produttiva. C’è il modo cooperativo, nel quale le strutture produttive perseguono fini di mutualità e di democrazia fra i soci. C’è il modo delle imprese di comunione, nelle quali si punta a creare una comunione totale, economica e metaeconomica, fra le diverse persone in esse operanti. C’è il modo delle cosiddette imprese con finalità sociali: imprese di proprietà privata che non hanno come motivazione della loro azione la massimizzazione del profitto (nel breve e nel lungo periodo), bensì il conseguimento di obiettivi sociali, quali la produzione di beni di primaria necessità (comprese l’abitazione, l’istruzione, l’assistenza sanitaria, l’avviamento al lavoro, il credito) a prezzi accessibili a tutta la popolazione (compresi i poveri e gli altri soggetti deboli), in modo comunque da essere sostenibili, cioè da coprire con i ricavi i costi di produzione – mantenendo così il capitale – con remunerazione nulla o pressoché nulla dello stesso.
Partendo dai principi or ora enunciati, e fermandosi al livello di competenza politica regionale, si possono fare sensate scelte di politica industriale, individuare gli ambiti in cui è bene investire. Ma questo probabilmente non è sufficiente: occorre che la politica industriale sia affiancata da un valido spettro di politiche attive del lavoro. Oltre ad un’efficace politica per l’istruzione e la formazione, a tutti i livelli – in grado di seguire in tempo reale la continua evoluzione dei fabbisogni di formazione lavorativa – imprescindibile politica attiva del lavoro è la creazione di un servizio pubblico che sia veramente in grado di mettere in contatto domanda e offerta, non solo mettere timbri. Che sia anche in grado, qualora manchino ai lavoratori disoccupati pezzi di formazione e riqualificazione professionale, di fornirli per adeguare così l’offerta di lavoro alla domanda.
Un ultimo punto, che riguarda gli ammortizzatori sociali. Essi non devono svolgere una funzione puramente passiva. Ad esempio, che la cassa integrazione sia una mera integrazione del reddito del lavoratore sospeso. Essa dovrebbe comunque essere accompagnata, come avviene in diversi altri Paesi europei, da azioni obbligatorie di riqualificazione professionale, da un piano di azione per la ricerca di una nuova occupazione, con un assiduo e prolungato accompagnamento del lavoratore. Allora, perché non collegare l’erogazione della CIG al distacco presso altra azienda, con cui il lavoratore potrebbe mettere il piede in una nuova unità produttiva acquisendo anche nuova qualificazione lavorativa, facendo dipendere da questo intervento di accompagnamento attivo – da parte dell’azienda che vuole sospendere il lavoratore – l’approvazione del progetto a sostegno della richiesta dell’attivazione della cassa integrazione guadagni?


carlo beltrame - 2015-06-30
Che piacere rivedere Ciravegna su un tema di così grande interesse e con risposte più che sensate