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Le imprese chiedono riforme e credito
 
di Alessandro Risso
 

Ospiti del terzo incontro seminariale su COME CREARE LAVORO sono stati l’economista Daniele Ciravegna (di cui potete leggere l’intervento nell’articolo sottostante) e Aldo Palmeto, responsabile delle relazioni sindacali in API, Associazione piccola industria.
“Rispondere a come creare lavoro è impegnativo – ha esordito Palmeto – perché dipende da una serie di elementi che devono concorrere tutti insieme alla ripresa. Prima di tutto occorre capire a che punto siamo. Stiamo vivendo la crisi più grave del tempi moderni, iniziata nel giugno del 2008. I dati dell’ultimo quadrimestre 2014 indicano che la crisi parrebbe cominciare ad allentarsi”. Vedremo se qualche rondine statistica di segno positivo annuncerà veramente la primavera della ripresa economica. Per adesso si vedono solo tante macerie: “Abbiamo avuto moltissime cessazioni di attività e fallimenti nella piccola industria. Poi dobbiamo anche considerare le imprese che non nascono. Una crisi di queste dimensioni è giunta davvero inattesa. Il sistema economico ha dovuto scontare una sovraccapacità produttiva del 25-30%, che ha richiesto un altissimo utilizzo degli ammortizzatori sociali. Le imprese che hanno perso redditività e si sono indebolite sul piano patrimoniale. Gli investimenti si sono fermati per anni, con il conseguente rallentamento dei processi di innovazione e la perdita di capacità nel competere sul mercato. Aggiungiamo il blocco del credito da parte delle banche che quando piove di più ‘chiudono l’ombrello’, e possiamo capire che si è determinata la ‘crisi perfetta’. Il nostro sistema-Paese si è trovato travolto da uno tzunami su un’Italia non pronta, che era sostanzialmente la stessa di oggi”. Ma qualcuno è riuscito a salvarsi… “Le imprese migliori sono state quelle capaci di andare sul mercato estero, puntando sull’export, diversificando il mercato. Un chiaro esempio in ambito torinese sono le imprese dell’automotive che hanno saputo sganciarsi dalla crisi di FIAT”. C’è qualche altro segnale che potete cogliere dal vostro osservatorio? “Un segno positivo è la ripresa delle assunzioni, che constatiamo nel lavoro quotidiano di consulenza agli associati che ci viene richiesta nelle ultime settimane. Grazie alla spinta del Jobs Act per il tempo indeterminato rispetto agli altri contratti e termine, si sta registrando una netta inversione di tendenza: se il dato del 2013 parla del 60% di contratti a tempo determinato e del 17% a tempo indeterminato, oggi pare che si sta invertendo il rapporto con la trasformazioni di molti contratti. Non possiamo però ancora parlare di nuovo lavoro, anche se ci sono primi segnali di discontinuità, specie nell’automotive. Invece nell’edilizia, altro settore trainante dell’economia, non si vedono purtroppo segnali di ripresa”.
Come allora far ripartire l’economia e creare lavoro nuovo? “Sono tanti gli elementi da mettere nel pentolone. Le nuove regole del mercato del lavoro da sole non possono attirare i necessari investimenti stranieri: questi in Italia rappresentano, in rapporto al PIL, solo un misero 1,5% contro il 4,5% della media europea. Le significative agevolazioni sulle assunzioni servono, ma il rapporto con la Pubblica Amministrazione, i tempi e la complessità degli adempimenti per aprire un’attività, il tempo dei contenziosi, la legislazione non certa, il peso della fiscalità, sono tutti elementi che gli investitori giustamente considerano. Sono tutti problemi che spiegano la bassa percentuale di investimenti esteri e non, su cui intervenire per creare nuova impresa e nuova occupazione. L’abbattimento del costo del lavoro doveva essere fatto, ed ha avuto primi effetti positivi. Devo dire invece che la modifica dell’articolo 18 non è invece stata significativa, dato che la stragrande maggioranza delle imprese, piccole e con meno di 15 dipendenti, non era di fatto interessata al provvedimento”. Qualche aiuto le imprese lo aspettano anche sul fronte del credito: “Il sistema bancario deve immettere denaro nell’economia. Le banche sono senza alibi con il Quantitative easing, in una congiuntura aiutata da petrolio e dollaro bassi, e dalla politica monetaria della BCE”.
Quindi, perché riparte il lavoro deve prima ripartire l’impresa, che aspetta riforme strutturali in vari ambiti – legislazione, fisco, giustizia, sburocratizzazione –, con tempi necessariamente lunghi. Si può fare qualcosa a breve? “Una prima necessità, banale ma vera, è saturare il lavoro che c’è. Tanti posti di lavoro non sono occupati, perché il mondo dell’intermediazione tra domanda e offerta non funziona, e non funziona da sempre. Si trova lavoro soprattutto per conoscenze, per il passaparola, ieri come oggi. Manca una sinergia forte tra il sistema delle imprese e il sistema scolastico, per dare ai giovani un orientamento professionale e poi per veicolarli nel mondo del lavoro. Conosco una selleria, attiva nel settore dei sedili per elicotteri, aerei e auto di lusso, che vuole aprire una propria scuola perché non riesce a trovare gli artigiani specializzati. Occorre uno sforzo per cogliere le opportunità di lavoro già esistenti. Il Jobs Act accenna a questo problema, ma per capire le proposte di soluzione bisognerà aspettare i decreti delegati. Si potrebbe fare molto anche per favorire la mobilità dei lavoratori in ambito europeo, con Paesi che oggi hanno tutti normative diverse e non sempre armonizzabili, anche per favorire il passaggio tra settori con troppi addetti e altri in carenza di risorse umane. È importante passare da un sistema di ammortizzatori sociali ad un altro che formi i lavoratori in esubero e li veicoli verso settori che richiedono forza lavoro. Infine, anche il carico fiscale deve cambiare: vogliamo che si affermi un sistema in cui è più conveniente lavorare in bianco piuttosto che prendere un ammortizzatore sociale e lavorare in nero. Devo però riconoscere che il sistema degli ammortizzatori sociali, in decenni di crisi ricorrenti, ha avuto il merito di tenere insieme l’Italia”.