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Comunità vecchie e nuove
 
di Giuseppe Ladetto
 

Ritorno sul tema delle comunità, già affrontato in un articolo dell’aprile 2014 (intitolato Bilanciare comunità e società, si trova nell'archivio della sezione DA LEGGERE, ndr).
Fra gli esponenti politici e intellettuali ascrivibili al mondo “liberal”, oggi prevalenti in ambito “progressista”, c’è una crescente preoccupazione per il diffondersi di un bisogno di appartenenza di tipo comunitario a seguito dei guasti prodotti dalla globalizzazione e dal connesso liberismo. Di qui le molte prese di posizione tese a demonizzare ogni tipo di comunità, visto sempre come oppressivo all’interno, e ostile nei confronti di chi non ne fa parte.
Da queste pesanti critiche si discosta Monica Fabris – sociologa, presidente di Episteme – che, in un articolo su “Il nostro tempo” di qualche tempo fa, assegna alla comunità un ruolo centrale nella tenuta sociale del nostro Paese. La comunità cuore del Paese è infatti il titolo dell’articolo. Tuttavia la comunità di cui scrive la Fabris è cosa molto diversa da ciò che comunemente si intende con tale termine. Per lei la comunità va assumendo nuove caratteristiche in funzione dell’evoluzione dei tempi.
La modernità attuale ha condotto all'atomizzazione della società, e generato individualismo, edonismo, prefigurando un mondo di monadi tese alla gratificazione immediata. Di qui il manifestarsi di crescenti segnali di sofferenza per la perdita di riferimenti, per l’isolamento e la solitudine delle persone, per il venir meno di sostegni materiali e morali su cui un tempo si poteva far conto. Per far fronte a tale situazione, si ripropone la comunità in una accezione nuova. La Fabris scrive infatti che la comunità “non è più un nucleo chiuso e distante, ma un cuore vivo e pulsante all'interno dei confini della convivenza civile”. Le nuove comunità (siano esse famiglie allargate, gruppi di amici, appassionati di hobby, promotori di cause di varia natura e molte altre cose) non richiedono appartenenze forti, normative ed esclusive. Queste comunità motivate da differenti istanze possono convivere dando risposta a bisogni diversi. Sono comunità tenute insieme da legami deboli, resi tuttavia forti da sementi ideali, e principi etici basilari che si affermano nella collaborazione e nella prassi, a partire dalla quotidianità dei gesti spontanei. Queste nuove comunità “plurali” rispondono alle esigenze dell’uomo post moderno, sfaccettato e polivalente, attratto da molteplici opportunità spesso non compatibili tra loro, privo di una identità univoca riconoscibile. Così, una nuova società si va ricostituendo a partire dal basso, dallo stare insieme, dal condividere allorché tutto questo si combina a idee, sensibilità, valori.
La Fabris non lancia strali contro le comunità tradizionali, semplicemente le ritiene superate poiché la modernità ha rotto l’isolamento in cui esse vivevano e di cui avevano bisogno per mantenersi; le ha disperse in favore della società civile. Ciò che più assomiglia alla comunità nel contesto attuale sarebbero appunto le molteplici relazioni interpersonali che la Fabris indica sotto la voce “nuove comunità”. Queste, secondo la sociologa, possono reintrodurre quei legami sociali la cui dissoluzione ci ha portato nella modernità liquida.
È questo un discorso che richiede un approfondimento, perché può essere fonte di equivoci.

In tema di comunità, resta sempre fondamentale la lezione di Zygmunt Bauman. Il sociologo polacco ci dice che la comunità (basata sui rapporti interpersonali, sul contatto diretto, sulla vicinanza fisica e morale) e la società (strutturata su relazioni a distanza che si instaurano tra gli individui, e tra singoli e organizzazione pubblica) sono forme di relazioni e rapporti di appartenenza coesistenti all'interno del genere umano, perché l’uomo vive a un tempo in una comunità e in una società. Anche oggi, la comunità, in ritirata nella società globale, sopravvive nella dimensione locale, nell'ambito in cui si è nati, si è stati educati e in cui si mantengono i legami forti, gli affetti, la cultura condivisa.
Quindi le comunità (a cominciare dalla famiglia tradizionale), pur essendosi indebolite, non sono scomparse. Hanno ancora qualche funzione? Possiamo tranquillamente assistere alla loro scomparsa, o dobbiamo fare qualche cosa, se possibile, per aiutarne la sopravvivenza?
Bauman ci dice che la società ci rende liberi, ma che la società senza comunità sarebbe una realtà dura e disumana. Pertanto, è necessario contare su entrambe; bisogna far convivere le due cose cercando un punto di equilibrio. Quale è questo punto di equilibrio?

Sentiamo quanto scrive in proposito Ralf Daherendorf, un liberale non dogmatico, in La libertà che cambia. La rottura dei legami con le appartenenze (da quelle familiari, a quelle nazionali e religiose), con i luoghi, con le tradizioni, ha lo scopo di liberare gli individui da vincoli, da responsabilità, da tutto ciò che costituisce impedimento alla realizzazione di sé stessi. Tuttavia oggi, quando molta parte di tali legami è stata dissolta, invece di essere più liberi, siamo disorientati perché viviamo in una condizione di carenza di norme e di riferimenti, sicché le nostre scelte si verificano in un deserto sociale in cui mancano coordinate in grado di giustificare un orientamento piuttosto che un altro: di fatto non siamo più in grado di fare scelte consapevoli. Quindi è lecito interpretare tali parole come la necessità di fare dei passi indietro rispetto all’oggi per ricercare un punto di equilibrio valido tra libertà e sicurezza, ovvero tra società e comunità. Ciò significa essere reazionari? Possono le nuove comunità prospettate dalla Fabris essere sostitutive delle comunità basate su legami forti?
Confrontiamo le “famiglie tradizionali”, formate da una donna e un uomo, uniti da un legame duraturo, e dai figli, con le “nuove famiglie” (siano esse legalmente riconosciute o meno), costituite da due adulti e da figli non sempre di entrambi i conviventi, sempre a rischio di disunione. Ora, senza mitizzare le prime né demonizzare le seconde, mi pare evidente che le nuove famiglie, se diventano il modello dominante, non concorrano a infondere sicurezza e fiducia nei rapporti interpersonali e più in generale nella società quando (come scrive Anthony Giddens) “con la rottura del rapporto amoroso (l’essere ancora innamorati), la persona più intima torna di colpo a essere un estraneo”. E altrettanto avviene in altri ambiti: ad esempio, allorché sempre più persone, alla ricerca di nuove opportunità, vanno ovunque ne intravedano una anche a costo di sacrificare i rapporti con gli ambienti umani e con i luoghi in cui hanno realizzato parte della loro vita, ne risulta il venire meno di ogni appartenenza territoriale, che (come scrive Cristopher Lash) “non lascia al patriottismo uno spazio significativo nel cuore della gente”. E qui patriottismo significa anche responsabilità verso la nazione, intesa come un’entità che dura nel tempo, al di là della vita di chi ne fa parte, essendo erede di un passato, di una cultura trasmessa e condivisa che è riferimento per preparare l’avvenire.

C’è un altro aspetto da prendere in considerazione, affrontato già negli anni Novanta da Alain Touraine, noto sociologo francese. Egli scrive in Critica della modernità che i legami di appartenenza (etnica, religiosa, nazionale, o comunque fondata su una cultura e una memoria condivisa) sono elementi fondamentali della costituzione del “soggetto”, considerato come colui che è in grado di fare scelte autonome, sottraendosi alla massificazione: ieri, quella prodotta dai totalitarismi del secolo breve; oggi, quella riconducibile al conformismo dilagante nell’odierna società di mercato e di comunicazione a senso unico. Anche nei momenti più bui dei totalitarismi del secolo passato, le resistenze maggiori sono venute da gruppi di persone caratterizzati da forti vincoli di appartenenza, e anche oggi accade la stessa cosa rispetto all’omologazione prodotta dalla globalizzazione.
Ora mi chiedo: fino a che punto i legami deboli sopraccitati sono in grado di contribuire alla formazione del soggetto? Credo poco, poiché tali nuove comunità mancano di un requisito essenziale: la tenuta nel tempo. L’abitante delle nuove comunità, l’uomo post moderno, sfaccettato e polivalente, attratto da molteplici opportunità spesso non compatibili tra loro, privo di una identità univoca riconoscibile, non pare essere in grado di resistere ai condizionamenti, alle seduzioni delle mode, degli stili di vita dominanti, e di opporsi al conformismo dilagante nell’odierna società globale.
La modernità ha compresso nell’uomo l’innata socialità, creando sofferenza; lo ha reso solo, isolato. È evidente che il declino della società tradizionale ha lascito un vuoto che si cerca di riempire comunque. Nelle periferie urbane (scriveva Konrad Lorenz già negli anni Settanta), il bisogno di appartenenza porta giovani sradicati, sottoproletari, a formare bande inclini alla violenza: privi di riferimenti culturali, tali giovani non trovano altro collante e scopo, per formare un gruppo coeso, che il compattarsi nella lotta contro gli altri, sempre nemici. È il caso degli ultras delle tifoserie calcistiche, delle bande di minori dedite a imprese teppistiche, di molti gruppi di estremisti catalogabili in vario modo.
Il bisogno di comunità spinge le persone a cercarne dei surrogati, qualche cosa che ad essa assomigli senza possederne però qualità e difetti. È il caso delle comunità virtuali costruite su internet: ma queste, ci dice Bauman, si dissolvono di fronte al primo problema in cui si imbattono perché costruite su legami deboli e fragili.
Fra le nuove comunità di cui ci parla la Fabris, ce ne sono alcune che possono essere qualche cosa di più di un surrogato: penso a quelle persone che scelgono di vivere in comune nella logica della condivisione e del mutuo soccorso, anche per affrontare condizioni di vita sempre più difficili. Comunque positive sono tutte le altre iniziativi capaci di stabilire significative relazioni tra le persone. La questione è, se a fronte di ciò, si possa tranquillamente assistere alla scomparsa di quanto resta di quelle comunità che giungono a noi da lontano, a cominciare dalla famiglia tradizionale. Forse merita di fare qualche cosa a sostegno di quel mondo fondato su forti rapporti interpersonali, sul contatto diretto, sulla vicinanza fisica e morale.
Rispondere a questo quesito, chiarendosi le idee in materia, è indispensabile per affrontare consapevolmente molte tematiche di cui da qualche tempo si dibatte in ambito politico, sempre nella sola ottica dell’introduzione di nuovi diritti o nella contrapposizione tra nuovo e vecchio.


PAOLO CAVALLO - 2015-05-12
BELLISSIMO ARTICOLO!!! SE NON SI NAVIGA INSIEME, CI SI PERDE NEL MARE DELLA BIG SOCIETY
Marco Gambella - 2015-05-12
Molto interessante. Una società che si rispetti deve essere "inclusiva", cioè coinvolgere anche coloro che non intendono (o non possono) partecipare alle decisioni comuni. Che lo vogliano o no, perché il benessere della società arriva dal benessere di ognuno dei suoi individui.