Stampa questo articolo
 
Diaz e tortura
 
di Mario Chiavario
 

L’Italia condannata in Europa per tortura! Non è il primo Stato democratico ad esserlo, ma la notizia ha fatto egualmente sensazione e soprattutto ha generato avvilimento e preoccupazione.
Eppure la sentenza – adottata all’unanimità da una sezione della Corte dei diritti umani (con il voto anche del giudice italiano) – non suscita sorpresa per chi, da un lato, abbia appena seguito le incresciose vicende del 2001 durante e dopo i tumulti occasionati dalla riunione del G8 e, per altro verso, conosca anche solo superficialmente la giurisprudenza dei giudici continentali che siedono a Strasburgo.
Del resto, già la Corte d’appello genovese, chiamata a suo tempo a giudicare alcuni tra i responsabili dell’irruzione alla scuola Diaz, aveva parlato, senza mezzi termini, di “tortura” per definire quella che persino un funzionario di polizia ebbe a chiamare “macelleria messicana”. E la Cassazione aveva poi confermato la definizione così data dai giudici del capoluogo ligure.
Al di là dei sentimenti che la decisione della Corte europea, pur “annunciata”, suscita più immediatamente, sono comunque parecchi gli elementi di riflessione che essa propone. Fermiamoci almeno su due di essi: l’uno, concernente il rapporto tra i fatti della “Diaz” e quanto accaduto in quei giorni per le vie e le piazze di Genova; l’altro, riguardante le carenze che, al di là di singole responsabilità individuali, erano e sono da addebitare al sistema delle nostre leggi.

Dal primo punto di vista c’è chi, anche oggi, sostiene più o meno apertamente che i pestaggi di polizia sarebbero comunque stati giustificati per via della guerriglia urbana in precedenza scatenata da una parte dei manifestanti alle proteste contro il G8, e in particolare a causa delle violenze fisiche e morali da essi inflitte ai membri delle forze dell’ordine. La Corte europea, com’è ovvio, non minimizza affatto il clima di quei giorni né le pesantissime responsabilità di coloro che lo avevano direttamente o indirettamente infuocato. Però mette bene in chiaro che tutto ciò non poteva giustificare dei pestaggi come quelli incontestabilmente documentati, tanto più perché compiuti “a freddo” su persone inermi da membri delle forze dell’ordine, alla presenza dei propri superiori.
Alla Corte di Strasburgo (che non è una sorta di supremo giudice penale) non toccava e non tocca distribuire sanzioni ai singoli, né ai manifestanti né ad agenti o ufficiali di polizia. Ma è importante che ne sia venuto un fermo monito, purtroppo subito svillaneggiato da quei politici e da quei giornali secondo i quali il porre limiti all’uso della forza da parte di chi è delegato alla tutela della vita e dell’integrità fisica delle persone e della sicurezza del Paese sarebbe inevitabilmente un attentato alla loro dignità e alla loro stessa incolumità. Nessuno stress, nessuna rabbia, seppur comprensibilmente accumulata in tante ore di pesantissimo servizio, può legittimare certi comportamenti; tantomeno può esimere da responsabilità un apparato – e, in definitiva, uno Stato – i cui ufficiali lascino mano libera (se non, addirittura, giungano a sollecitare) “sfoghi” di quella gravità, durante operazioni condotte con assoluto disprezzo delle persone e con conseguenze in parte irreversibili. L’ammettere il contrario sarebbe, oltretutto, il peggior insulto che si possa fare alle stesse forze dell’ordine.

Un secondo elemento di riflessione non chiama soltanto in causa l’assenza della previsione di uno specifico “delitto di tortura” nel nostro codice penale ma, ancor più in generale, talune vistose incoerenze del nostro sistema di giustizia.
Intendiamoci. Ancora una volta, non è tanto questione di etichette (sebbene anche certe denominazioni giuridiche abbiano un significato non solo simbolico); e non è neppure soltanto questione di misura delle sanzioni per chi si renda responsabile di certi comportamenti. A dire il vero, in caso di condanna, già le lesioni gravi – quali erano quelle contestate agli imputati dei processi di Genova – sono punite in Italia con una pena che, se il delitto è commesso con sevizie o crudeltà, sfiora i dieci anni di reclusione. Non proprio una bazzecola, dunque. Il fatto è che, nel caso della scuola Diaz, gli accertamenti sono stati dapprima sviati da scandalosi depistaggi e poi vanificati da indulti e prescrizioni estintive.
Ben venga dunque una nuova legge che introduca il reato di tortura. E speriamo che le polemiche politiche, già divampate più o meno strumentalmente, e la stessa ricerca di un “meglio” a confronto di un “bene” a torto o a ragione giudicato mediocre, non ne rimandino di nuovo l’approvazione alle calende greche. Ma è soprattutto importante che le scappatoie dalle sanzioni diventino davvero impossibili per chi dovesse compiere o tollerare, se non addirittura ordinare, certe “imprese”. In tal senso un segnale positivo appare il raddoppio, appunto fissato dal progetto di legge per i casi di tortura, del termine ordinario di prescrizione. Ma pure tale accorgimento può diventare inefficace senza uno sforzo corale di correttezza da parte delle istituzioni, a cominciare da rapidità e imparzialità delle indagini, che impediscano di perdere tempo e risorse preziose nella malaugurata ipotesi che comportamenti delittuosi di quel genere dovessero ripetersi.

(Questo articolo è stato pubblicato su “Il nostro tempo” del 19 aprile scorso)