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Jobs Act da migliorare
 
di Remo Grava
 

In questi giorni il Jobs Act è all’attenzione delle commissioni parlamentari che entro metà febbraio dovranno esprimente il loro parere, comunque non vincolante. Successivamente, se non ci saranno modifiche, l’ultimo passaggio sarà la firma del Presidente della Repubblica.
L’obiettivo del provvedimento è il rilancio dell’occupazione vista la drammatica situazione italiana con una disoccupazione giovanile che raggiunge circa il 42%.
Una delle prime questioni affrontate è stata quella di dare certezze agli imprenditori, agevolare le nuove assunzioni e togliere la discrezionalità alla magistratura sui licenziamenti, discrezionalità che in passato aveva generato sentenze paradossali con reintegri anche di dipendenti colti in fragranza di reato.
Non si può quindi non concordare su quanto sopra esposto, ma una lettura attenta dei decreti lascia alcune perplessità.
Iniziamo dal nome del nuovo contratto “a tutele crescenti” che sostituisce ogni altra forma di contratto a tempo indeterminato per i nuovi assunti (ad eccezione del contratto di apprendistato già non così diffuso e che ora sarà ancora meno utilizzato). In effetti questo contratto non ha in pratica nessuna tutela crescente ad eccezione delle mensilità supplementari in caso di licenziamento che aumentano con l’anzianità. Il nome del nuovo contratto deriva probabilmente dalle prime bozze del professor Tito Boeri che prevedevano un contratto incentivato “a tutele crescenti” per tre anni per poi riottenere la tutela dell’articolo 18 negli anni successivi, ma il modello Sacconi-Ichino sembra avere avuto di gran lunga il sopravvento.
A proposito proprio degli indennizzi in caso di licenziamento, emerge subito la loro pochezza. Un minimo di 4 mesi, 2 per ogni anno di anzianità fino ad un massimo di 24 mensilità (senza contributi). In pratica un operaio, un impiegato o un professional avranno come numero di mensilità un indennizzo minore a quello di un dirigente con una media anzianità.
Al di fuori del licenziamento per motivi discriminatori per cui è prevista la reintegra, sarà sempre possibile il licenziamento con indennizzo per motivazioni economiche. Tali motivazioni sono molto vaste e comprendono anche le generiche riorganizzazioni, esternalizzazioni, nuovi progressi tecnologici, ecc. Non sono presenti elementi oggettivi per limitarne l’applicabilità.
Un altro punto che lascia perplessi è il reintegro per i licenziamenti disciplinari, sbandierato come un successo nella mediazione con Renzi dalla sinistra PD. Il reintegro in questi casi è previsto solo per la non sussistenza del fatto, quindi in teoria una persona potrebbe essere licenziata per qualsiasi motivo disciplinare, anche ad esempio per un ritardo sul lavoro di pochi minuti. Il giudice non potrà intervenire sulla “proporzionalità” del provvedimento e quindi l’azienda potrebbe essere condannata al massimo a 24 mesi di indennizzo, ma il lavoratore in ogni caso non avrebbe più il suo posto di lavoro.
Altro elemento, passato all’inizio sottovoce, è l’applicazione delle nuove norme ai licenziamenti collettivi. Anche in questo casi si potrebbero verificare casi a dir poco paradossali. Ad esempio l’applicazione da parte dell’impresa di criteri non corretti per la scelta dei lavoratori da licenziare può essere sanzionata solo con l’indennizzo fino a 24 mesi e mai con un reintegro.
Infine è necessario ricordare che il “nuovo contratto a tutele crescenti” si applica ai “soli” nuovi assunti. Ovviamente i nuovi assunti sono tutti coloro che entrano per la prima volta nel modo del lavoro o cambiano lavoro, quindi in questa fase si crea un forte disincentivo a cambiare lavoro oppure per i professional o i tecnici molto specializzati scatterà la gara a trattare “paracadute” individuali, come in uso spesso per i dirigenti, nei loro contratti di assunzione.
A questo punto si potrebbe anche profilare questo scenario. La disoccupazione tenderà a scendere, gli incentivi sono effettivamente alti, fino a 8 mila euro per ogni assunzione e soprattutto non c’è nessuna verifica prevista di ulteriore stabilità del contratto del nuovo assunto, che quindi dopo tre anni potrebbe comunque essere licenziato per motivi economici. L’economia potrebbe cominciare riprendersi dopo anni di crisi e già ora alcuni segnali positivi fortunatamente si intravedono. Non mancherà quindi chi sosterrà che la cosa migliore è estendere il contratto a tutele crescenti a tutti, anche per evitare che nel frattempo possa essere considerato in qualche modo non costituzionale avendo creato categorie di lavoratori con tutele molto diverse.
In conclusione la riforma era necessaria, ma si ha la sensazione che in Italia, come già successo in molti settori esempio il commercio, si passi in breve tempo da un eccesso di regolamentazione che provoca confusione e rigidità a una situazione di eccessivo liberismo e di mancanza di dovuti controlli.
Intanto speriamo che come già più volte annunciato si parta anche con l’eliminazione di tutte le forme contrattuali atipiche che ora, con il nuovo contratto “a tutele crescenti”, non sono più giustificabili.


franco maletti - 2015-02-15
Più che condividere le giuste osservazioni, quello che meno mi convince della jobs act è il suo impianto che parte dal presupposto di garantire il più a lungo possibile la stabilità del posto di lavoro. Si tratta di un problema molto sentito dai lavoratori. Ma questo deriva dal fatto che le tutele per chi il lavoro non ce l'ha sono scarsissime ed in alcuni casi nulle. Ovviamente mi riferisco in particolare alle tutele economiche. In un mondo del lavoro che cambia rapidamente nelle sue dinamiche, dove le occasioni di lavoro nascono e muoiono rapidamente anche per effetto delle nuove tecnologie, la jobs act sembra rivolgersi più al passato che al futuro. Meglio sarebbe stato occuparsi della garanzia di un sussidio per tutti i lavoratori disoccupati con tutele economiche decrescenti, piuttosto della garanzia di illusorie tutele crescenti per chi trova un lavoro già sapendo che con quello difficilmente arriverà a vedere l'età della pensione.