Ci viene detto che il capitalismo finanziario è diventato il primo attore economico nella società globale. Gli vengono imputati molti dei mali di cui abbiamo a soffrire con la crisi economica in atto. Ma, per chi come me è piuttosto digiuno di tutto ciò che riguarda la finanza, è difficile capire che cosa sia questo nuovo soggetto che occupa la scena.
Due libri, (Finanzcapitalismo di Luciano Gallino, e Uscita di sicurezza di Giulio Tremonti), pur nella differenza di metodo e di ampiezza con cui analizzano il fenomeno, ci consentono di farci un’idea di ciò che è ormai un superpotere in grado di asservire ai propri scopi tutto ciò che esiste al mondo.
In primo luogo, bisogna cogliere la natura sostanzialmente differente dell’odierno capitalismo finanziario, o del finanzcapitalismo come lo definisce Gallino, rispetto alla finanza tradizionale. Quest’ultima svolge una fondamentale funzione di sostegno all’economia produttiva: raccoglie il risparmio e lo impiega per concedere prestiti che, di massima, vengono investiti nella produzione di beni e di servizi. Il finanzcapitalismo invece investe denaro per ricavarne altro senza intervenire nella fase produttiva. A tale fine, utilizza varie modalità operative: ricorre a operazioni speculative manipolando i prezzi di materie prime e di derrate alimentari; fa crescere il prezzo di ciò in cui si investe creando bolle (un aumento transitorio o volatile di valore); ottiene denaro estraendolo dalla natura, come, ad esempio, dal valore di un terreno agricolo diventato area fabbricabile; approfitta di cose, situazioni e persone sempre per lucrare. La gran parte del denaro messo in campo dalla nuova finanza circola senza produrre né beni materiali, né servizi reali. Infatti la massa di segni monetari, in larga misura elettronici, costantemente in crescita, è arrivata a superare di molte volte il PIL mondiale: ciò significa che dietro all'incremento dei “valori” prodotti dalla nuova finanza non ci sono né nuovi beni, né nuovi servizi acquistabili. Mediante lo sviluppo di segni monetari indipendenti dalla realtà materiale, si è così generato un capitale in grado di moltiplicarsi potenzialmente all'infinito.
Il capitalismo finanziario è diventato ciò che è oggi grazie alla globalizzazione, con la quale non solo le merci, ma anche i capitali attraversano indisturbati le frontiere degli Stati nazionali, resi così incapaci di sottoporli ad alcun controllo o regola. È inoltre supportato dalla rete elettronica di comunicazione, che rende possibili istantanee operazioni di trasferimento di enormi quantità di segni monetari da un punto all'altro del pianeta.
Le sue componenti operative sono in primo luogo le grandi banche, che agiscono prevalentemente nelle attività della nuova finanza “creativa” e in altri settori di attività ad essa collegati; poi troviamo altri importanti investitori istituzionali (fondi pensione, fondi comuni di investimento, fondi comuni speculativi, compagnie di assicurazione) che muovono ingenti quantità di denaro; infine c’è la cosiddetta “finanza ombra”, che crea credito in modo non controllato: in essa operano sia intermediari specializzati nel confezionare e vendere complessi titoli obbligazionari, sia società (talora definite “veicoli di investimento strutturato”) costituite dalle banche al solo fine di veicolare attivi fuori bilancio. Entrano inoltre a farne parte anche le rilevanti quantità di derivati non registrati a bilancio dalle banche o scambiati tra privati al di fuori di ogni registrazione in borsa.
L’attuale capitalismo finanziario è diventato un superpotere in grado di dominare tutta la sfera economica, e di dettare legge alla politica ridimensionandone il ruolo. Pertanto, pensavo che ciò fosse avvenuto perché la finanza era sfuggita al controllo di una classe politica disattenta che non aveva compreso, comportandosi da apprendista stregone, quali forze scatenava aprendo la porta alla circolazione dei capitali e alla loro deregolamentazione. Invece non è stato così. Ci ricorda Gallino che a compiere questi passi sono stati importanti uomini politici ben consapevoli delle loro azioni: non solo Ronald Reagan e Margaret Thatcher, ma anche Jacques Delors, Tony Blair, e Bill Clinton, per restare ai più noti.
Molti immaginano che ad esercitare il controllo della nuova finanza sia un coagulo di poteri forti, una sorta di Spectre. Invece, alla base del dominio del capitalismo finanziario, c’è qualche cosa di molto più vasto e complesso. C’è ormai un intreccio inestricabile tra sfera politica e mondo della finanza che oggi si manifesta anche negli scambi di ruoli: banchieri e finanzieri che diventano ministri, o che ricoprono posizioni di vertice negli organismi internazionali; e, di contro, politici e alti funzionari della pubblica amministrazione, o alti gradi delle forze armate che, lasciati i loro incarichi, entrano nei consigli di amministrazione di banche, di assicurazioni, o di grandi imprese, sovente multinazionali.
E non c’è solo l’intreccio a livello delle persone; c’è ormai, negli esponenti di questa nuova oligarchia internazionale, un comune modo di pensare e di rappresentare la società e il mondo: ciò li porta inevitabilmente a percorrere gli stessi cammini e a condividere le scelte in ogni ambito. Ci sono esempi particolarmente negativi di tale intreccio di funzioni e di poteri: penso a personaggi come Jean Claude Juncker, presidente della Commissione Europea, di cui è stato evidenziato il ruolo avuto nel favorire l’elusione fiscale di imprese di vari Paesi; o come Karel De Gucht, commissario europeo al commercio internazionale e incaricato del negoziato per il TTIP, che risulta indagato in Belgio per aver agevolato frodi fiscali.
Che cosa ha spinto tutto questo mondo politico-economico a favorire l’affermazione della nuova finanza? Mauro Bonaiuti (La grande transizione. Dal declino alla società della decrescita) imputa la trasformazione delle società capitalistiche, iniziata a partire dalla seconda metà degli anni Settanta, alla caduta dei tassi di profitto per i più ridotti margini di manovra del capitale. Alla base del fenomeno, riscontra l’aumentato potere rivendicativo della classe operaia, la crescita del costo delle risorse, l’ingresso dei Paesi emergenti nel mercato globale, e la raggiunta maturità delle principali produzioni manifatturiere. Sono fattori che, nel loro insieme, hanno concorso ad attenuare la crescita e a ridurre i profitti.
Per far fronte alla situazione, al fine di contenere i costi, si è risposto con la flessibilità e le esternalizzazioni delle attività lavorative; nel contempo, si è affermata la terziarizzazione dell’economia con una nuova centralità imperniata sulle attività commerciali, sul marketing, e sulle reti di servizi informatici e di comunicazione. Tuttavia per sostenere i tassi di profitto, la via principale è stata la finanziarizzazione dell’economia, con la quale i detentori dei grandi capitali hanno ceduto la gestione diretta dell’attività produttiva concentrando l’attenzione sul controllo delle attività finanziarie, di massima molto redditizie. Malgrado ciò, è continuata la caduta tendenziale del saggio di profitto e si è comunque attenuata la crescita.
A fronte di questa caduta dei rendimenti, nei mercati finanziari si guadagna ancora molto anche se i rischi sono elevati; ma ciò non preoccupa le grandi banche, i principali agenti operativi, alle quali, in caso di necessità, viene in soccorso lo Stato: infatti quando vanno incontro a un crack, interviene la mano pubblica, e a pagare le perdite sono sempre i contribuenti.
I Paesi anglosassoni, dove è nata e si è principalmente sviluppata l’attuale finanza creativa, sono quelli che si sono spinti più avanti su questo terreno. Forse non è un caso che gli Stati Uniti, da molti decenni, registrino un forte squilibrio tra importazioni ed esportazioni: nel 2013, tale deficit della bilancia commerciale è stato di ben 752 miliardi di dollari (vedi Calendario Atlante De Agostini 2015). Gli americani infatti consumano molti più beni e servizi reali di quanti ne producano: ciò è loro consentito grazie al primato raggiunto nelle attività finanziarie e al ruolo internazionale del dollaro (moneta che la Federal Reserve può emettere a propria discrezione secondo il bisogno, ciò che non è possibile, in tali proporzioni, alle altre banche centrali).
Malgrado si indichi da più parti la necessità di ridimensionare il peso assunto dal mondo della finanza, riconducendolo al suo ruolo naturale, l’impresa appare fuori della portata della attuale classe politica, i cui vertici, come abbiamo visto, sono in notevole misura interconnessi con gli esponenti della finanza. In materia, Gallino e Tremonti, nei libri citati, fanno delle proposte in qualche caso convergenti, come, ad esempio, separare le banche commerciali da quelle di investimento, distinguendo l’attività di credito da quella di affari per evitare che lo Stato debba compiere costosi salvataggi per proteggere i depositi dei risparmiatori. Non mi soffermo su tali proposte perché fuori dalla mia portata in un ambito così complesso e tecnico. Gallino, nella convinzione che le lobby della finanza riusciranno a vanificare, o ad annacquare, ogni riforma che tocchi i loro interessi, auspica che i cittadini si attivino e richiedano ai parlamenti nazionali, a quello di Strasburgo, e alla Commissione Europea, riforme capaci di incidere sugli aspetti più negativi dell’attuale architettura finanziaria.
Mi chiedo, tuttavia, fino a che punto l’attuale “turbocapitalismo” prodotto dalla società globale sia in grado di fare a meno della finanziarizzazione dell’economia (e del connesso neoliberismo che ne è fondamento teorico), se solo questa finanza creativa gli assicura rendimenti adeguati in questi tempi difficili. Il turbocapitalismo è simile a una motocicletta di grossa cilindrata (il paragone è di Tremonti, ritornato socialista) che è costretta a viaggiare veloce: se rallenta troppo, perde equilibrio e cade. Ma la motocicletta in questione già dà segni di essere in difficoltà. Infatti, Luca Ricolfi scrive che il declino delle società avanzate è preoccupante, perché dura da mezzo secolo e pare progredire con ritmo implacabile. Con riferimento ai paesi OCSE, evidenzia che il tasso medio annuo di crescita era attestato al 4% negli anni Sessanta, si è collocato nel decennio successivo di poco sotto il 3%, per giungere al 2% negli anni Ottanta e Novanta, e calare sotto l’1% nel primo decennio del secolo in corso. Una velocità di crescita che non sembra idonea a tenere in assetto la motocicletta del turbocapitalismo, impedendole di cadere. Forse, per questo, si ricorre ad un carburante “potenziato”, ancorché tossico, come è la nuova finanza.
Come si può vedere, i problemi che ci troviamo di fronte sono enormi e non ci sono facili ricette per risolverli. Mi convinco sempre più che, per affrontare le varie crisi che investono l’economia e altri settori, sia necessaria una vera e propria rivoluzione culturale capace di mobilitare e coinvolgere l’intera società.
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