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Consigli per il lavoro che manca
 
di Franco Maletti
 

Ho letto da qualche parte che “tutti i politici di un certo livello sanno quali sarebbero le cose giuste da fare: quello che non sanno è se verranno rieletti dopo averle fatte”. Questo, credo che valga anche per il sindacato. In quanto soltanto la conservazione della poltrona spiega l’accanimento con il quale si oppone a qualunque forma di cambiamento attraverso un NO ideologico: ripetuto ossessivamente, come una formula magica di scongiuro, alle “masse” di lavoratori che pretende di rappresentare nella loro interezza.
Eppure basta guardarsi intorno, partendo proprio da Torino, per vedere che della società industriale sono rimaste soltanto le sue ingombranti macerie. Per effetto della globalizzazione la produzione di massa è andata via, probabilmente per sempre, là dove il lavoro costa di meno: in quei luoghi dove intere moltitudini, spinte da una fame atavica, accettano di essere sfruttate e di lavorare senza tutele e con qualunque tipo di compenso. L’imprenditore italiano (ma non solo) di fronte a questa situazione ormai ventennale ha reagito così: “Se una cosa prodotta in Italia costa 100, e la stessa cosa prodotta in Cina costa 20, io posso chiudere il mio stabilimento e vendere in Italia al costo di 80 (compensando col minor costo la possibile minore qualità del prodotto) e avere senza rischi guadagni enormi: evitando oltretutto i problemi derivanti dall’avere dei dipendenti da pagare bene, le rogne dei sindacati, il rispetto di leggi vincolanti e assurde, le tasse esorbitanti. Perché dunque non adeguarsi cogliendo questa opportunità?”. Questa situazione di “adeguamento”, che si protrae da anni e che continuerà almeno fino a quando non inizierà un processo di emancipazione del lavoro dipendente che porterà a livello mondiale un livellamento (utopia?) delle condizioni retributive e di lavoro, non può più passare sotto silenzio: come se si trattasse di una cosa passeggera che un giorno finirà.
I sindacati (ma non solo), se non vogliono prendere in giro i lavoratori, devono avere finalmente il coraggio di dire loro come stanno le cose. A meno che, cosa gravissima, continuino a non rendersene conto: vivendo in un mondo tutto loro e fuori dalla realtà.
Sembra che tutti dal Jobs Act si aspettino il miracolo della immediata creazione di posti di lavoro. Non è così. Oggi come ieri siamo privi di una classe imprenditoriale seria, in grado di investire sul futuro invece che sulle rendite parassitarie con effetto immediato. Abbiamo bisogno di nuovi “intraprenditori”. Partendo dai giovani. Allora il sindacato deve capire per primo (e far capire ai lavoratori) che nei momenti di crisi è inutile aspettare che qualcuno intervenga dall’alto per risolvere i nostri problemi. Nelle sfide della globalizzazione ognuno cerca di risolvere i propri problemi nel miglior modo possibile per sé: senza preoccuparsi delle conseguenze negative nei confronti degli altri “competitors” (cioè NOI). E soltanto se si avanza qualcosa questi sono disposti a prenderci in considerazione buttandoci qualche briciola: perché quando c’è la crisi gli egoismi prevalgono. Allora bisogna che la smettiamo di litigare tra di noi e cominciamo a fare proposte valutando tutti insieme le soluzioni migliori. E tutti insieme (nessuno escluso!) organizzarci per attuarle. Ribadisco: TUTTI.
Va chiarito una volta per tutte che un lavoratore a tempo indeterminato non acquisisce una “adozione a vita” da parte del suo datore di lavoro (che qualcuno continua a chiamare spregiativamente “padrone”). Si tratta di una concezione statalista del rapporto di lavoro ormai fallita anche là dove c’era lo statalismo. Sarebbe ora che qualche guru sindacale cominciasse a guardare il calendario per vedere in che anno siamo (e poi, magari, anche la carta geografica). Ma, soprattutto, il sindacato dovrebbe cominciare a dire a chiare lettere che il posto di lavoro garantito per tutta la vita non esiste più: per effetto delle dinamiche di mercato e delle innovazioni tecnologiche. Perdere il posto di lavoro non è una colpa e non è nemmeno un dramma. Diventa un dramma se si pretende un nuovo lavoro a condizioni mai inferiori a quelle precedenti.
La seconda cosa che il sindacato dovrebbe dire a chiare lettere ai lavoratori è che una vita lavorativa “in crescendo”, sia sul piano economico sia su quello gerarchico, non è più possibile senza una formazione continua da parte del lavoratore.
Se l’obiettivo rimane quello di lavorare tutti così come previsto dall’art. 36 della Costituzione, bisogna considerare che, con l’allungamento della vita lavorativa (per effetto positivo dell’allungarsi della vita stessa) si dovrebbe provvedere al più presto a una riduzione generalizzata dell’orario di lavoro contrattuale. Riducendolo dalle attuali 40 ore settimanali previste da quasi tutti i contratti vigenti e riproporzionando in egual misura anche le retribuzioni. Inoltre, con l’avanzare dell’età, chi svolge lavori faticosi e usuranti dovrebbe avere il diritto di essere assegnato a mansioni più leggere: così da potere raggiungere l’età per la collocazione a riposo senza affanni e in buona salute.
Con i sistemi informatici attuali, praticamente esiste la possibilità di consorziare tutte le piccole aziende, anche artigianali, per sfidare il mondo globalizzato. Basta organizzare centri di coordinamento in grado di distribuire le grandi commesse sulle attività artigianali del territorio: ciascuno a seconda delle proprie possibilità e capacità. Ma il problema è che bisogna superare gli egoismi individuali e affidarsi a questi centri di coordinamento che devono avere (e dare) garanzia di trasparenza e siano immuni da favoritismi. Sarà possibile, un giorno, organizzare tutto ciò? Chi, con riconosciuta autorevolezza, può prendere l’iniziativa per fare queste proposte e realizzarle?

Ai tanti giovani disoccupati (e non) preoccupati per il loro futuro vorrei dare due consigli conclusivi:
- se siete portati per lo studio prendete la laurea, cercate di ottenere il massimo dei voti, studiate bene almeno un paio di lingue oltre l’italiano, ricordatevi che la laurea è un punto di partenza e non un punto di arrivo, fate studi di specializzazione, ricordate che fasi cicliche in cui dovrete riprendere a studiare saranno tanto più frequenti quanto è più alta la vostra professionalità, abbiate come luogo di riferimento per il lavoro il Mondo, se decidete di restare in Italia fatevi “intraprenditori”: valutate cioè la possibilità di mettere su una attività in proprio.
- per coloro che invece proprio non sono portati per lo studio, ma che hanno abilità manuali, il mio consiglio (cha vale anche per i laureati) è quello di puntare sui lavori e sulle occupazioni che dall’Italia NON POSSONO ESSERE PORTATE VIA: la cura e l’assistenza degli anziani, la raccolta e il riciclaggio, le riparazioni, la gastronomia, i trasporti pubblici, la salvaguardia dei beni artistici e paesaggistici, le attività legate al turismo e all’accoglienza, le opere di manutenzione, tutti i servizi connessi alla persona, coltivazioni agricole, alimentazione, ecologia, valorizzazione del territorio, fonti di energia alternative, raccolta e smaltimento rifiuti, agenzie di recapito, sport, spettacolo, fotografia e cinematografia, moda, giardinaggio, sorveglianza, lavori domestici, costruzioni e ristrutturazioni, attività balneari e termali, ceramica, florovivaisti, lavorazione del legno, lavanderie, oreficeria, panificazione, servizi funebri, attività olearie, odontoiatria, impianti sportivi, palestre, calzature, giornalismo, giocattoli, abbigliamento, acconciatori, agenzie immobiliari, acquedotti, amministratori di condominio, autoscuole, centri elaborazione dati, chimica, commercio, concerie, autostrade e trafori, chimica farmaceutica, autorimesse e noleggio automezzi, allevatori e consorzi zootecnici, consorzi di bonifica, consorzi agrari, agenzie di credito, enti previdenziali privatizzati, impianti sportivi, modellismo, istituzioni socio assistenziali, laterizi, lampade, magazzini, agenzie marittime, occhialeria, retifici meccanici da pesca, studi professionali, trasporti a fune, vigilanza privata, lavorazione del vetro, attività portuali, lavorazione penne matite e spazzole, attività tessili artigiane, piloti di elicottero e droni, scuole materne, scuderie, poligrafici…
E che il lavoro sia sempre con voi.


franco maletti - 2014-12-03
I commenti fatti finora confermano che le uniche occasioni di lavoro rimangono su quelle attività che "non possono essere portate via". Alle produzioni di massa che difficilmente potranno ritornare si potrebbe rispondere con una produzione che passi dalla quantità alla qualità. Ma servirebbero imprenditori coraggiosi e lavoratori disposti a seguirli collaborando con loro: l'esatto contrario di quello che oggi propone il sindacato di Landini. Ultima osservazione: se il quadro è così fosco ed il futuro così incerto, tanto vale ridurre per legge l'orario contrattuale di lavoro in misura tale da consentire la maggiore occupazione possibile. Se non altro salveremo i giovani dalla inattività permanente che ne fa esseri abulici e incapaci di reagire, analfabeti di ritorno e "vecchi" anzitempo. Questa sì che sarebbe vera solidarietà.
beppe mila - 2014-12-03
Io credo che quanto detto da Giuseppe Ladetto, anzi crudelmente stigmatizzato in poche righe rappresenti, la REALTA', purtroppo. Il resto, al momento sono esercizi di stile (dalle mie parti si diceva in altro modo). Non dimentichiamo poi, che noi siamo un Paese di 60 milioni (più gli immigrati), non possiamo essere un paese di servizi come il Belgio o l'Olanda. Senza agricoltura e industria, quella vera pesante metalmeccanica, non si sopravvive. Ma noi (il renzismo in modo particolare) abbiamo osannato Marchionne come un Dio... che senza colpo ferire ha liquidato la Fiat spostandola negli States e salvando un'industria spacciata come la Chrysler. La tanto vituperata Germania a Wolsburg ha ben tenuto in piedi la sede e gli stabilimenti principali della Wolkswagen. Riflettiamoci.
Giuseppe Ladetto - 2014-12-02
Per dare vita ad un assetto economico-produttivo in grado di far sopravvivere il paese, non possiamo certo attendere che arrivi a compimento un processo di livellamento planetario delle condizioni di lavoro e delle retribuzioni dei lavoratori, ciò di cui dubito. In ogni caso a quel tempo l’Europa sarà già un campo di macerie, o un deserto. Non si può nemmeno immaginare un futuro fondato sulla sola terziarizzazione dell’economia senza quell’industria manifatturiera che rappresenta, insieme alla agricoltura e alle fonti energetiche (rinnovabili), la forza di un paese. Ed altrettanto non ci sarà un futuro vivibile se attendiamo che la globalizzazione cambi natura per diventare solidale. C’è un solo tipo di globalizzazione: quella attuale, fondata su una feroce competizione all’insegna di “mors tua vita mea”, e su uno sviluppo predatorio, distruttivo dell’ambiente e di ogni forma di coesione sociale.