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Anacronistico il liberal Renzi
 
di Alfredo Reichlin
 

Pubblichiamo la lettera che Alfredo Reichlin, che ha presieduto la commissione per la stesura del “Manifesto dei valori” del Partito Democratico, ha inviato a Repubblica per commentare criticamente la trasformazione in atto nel partito. Ci pare contenga interessanti osservazioni per arricchire in nostro dibattito sull’argomento.

Caro direttore,
vedo che Matteo Renzi parlando del partito che ha in mente si richiama alla espressione “partito della Nazione” che io cominciai a usare discutendo con Pietro Scoppola sul fondamento identitario da dare al PD, quando già si intravedeva la dimensione storica della crisi italiana. Non mi pare però che pensiamo le stesse cose e vorrei chiarirlo.
Io parto dalla necessità che sento, acutissima, di dare al Paese uno strumento politico forte capace di arrestare la decadenza non solo della sua economia ma del suo organismo statale, della sua tenuta sociale, della sua identità civile e morale. Parto, insomma, dalla crisi della nazione come maggiore danno per tutti ma in specie delle classi lavoratrici. E penso, quindi, che sta qui la funzione “nazionale” del PD, il suo essere l’opposto di un partito “pigliatutto” e delle avventure personali che da anni ci affliggono. Ma come svolgere questa “missione”? Con chi, contro chi, e come? Questo è il punto.
Confesso che mi sono cascate le braccia quando ho sentito Renzi dire che il punto fondamentale della sua idea di partito, è quello di garantire le “pari opportunità”. Ma in che mondo egli vive? Sì, certo, lo so anch’io che non c’è più la vecchia società classista e che i grandi partiti novecenteschi (il PCI ma anche la DC) non ci sono più e non torneranno più. Ma qualcuno ha informato Renzi che è finita anche l’epoca di Tony Blair, cioè quella dei “liberal” e delle “pari opportunità”?
Parlo di qualche decennio fa quando il sistema non era certo ugualitario ma in compenso funzionava ancora “l’ascensore sociale” per cui il povero di oggi poteva diventare – se intelligente e laborioso – il ricco di domani.
L’epoca dello Stato nazione e dei diritti uguali. Ben altre sono oggi le logiche dell’economia finanziaria in cui siamo immersi: l’economia del debito e delle grandi speculazioni del denaro fatto col denaro. Lasciamo stare le dispute tra economisti. Un politico serio non può fingere di non vedere questa gigantesca ondata di denaro che non rende conto a nessuno e che sta percorrendo il mondo arricchendo enormemente una ristretta oligarchia ma creando al tempo stesso nuove povertà. Una parte dei ceti medi è già stata declassata. Viene colpita la funzione stessa dell’imprenditore, dell’ingegnere, del capitano d’industria. I poveri, anche quelli che non diventano più poveri, diventano plebe.
Mi scuso per la sommarietà di queste osservazioni ma che tipo di società umana si va formando? La domanda più importante, parlando di un partito, è questa. Perché è solo a partire da questo fondamentale interrogativo che una forza che voglia riaccendere il campo del riformismo può ridefinire la sua funzione storica, riuscire ad essere l’incontro di forze e culture diverse e mettersi in condizione di leggere il mondo con categorie nuove rispetto anche a quelle classiste. Stiamo attenti perché sta avvenendo qualcosa che cambia le ragioni dello stare insieme e il senso della convivenza civile.
Perciò io penso che noi, invece di oscillare tra un “nuovismo” inconsistente e l’accettazione rassegnata dall’uomo solo al comando dovremmo cominciare a riflettere meglio sulle ragioni di fondo di un partito nuovo. E ciò partendo dal fatto che il conflitto si sposta parecchio oltre la sfera economica e distributiva, per investire i modelli di vita, la qualità dell’organizzazione sociale, l’auto affermazione dell’individuo. Io penso che in realtà siamo di fronte a un allargamento del conflitto e di conseguenza a una domanda di progettualità che non può più essere separata dalla politica. Altro che partito degli eletti e non più dei militanti. Altro che disprezzare i “corpi intermedi”.
E mi sia consentito di dire agli amici della “Leopolda” che il terreno vero del “cambiamento” sta nel mettere in relazione le ragioni della libertà individuale con quelle della comunità, nel costruire una comunità contro le spinte dissolutive e nel difendere l’autonomia e la dignità della persona.

(Tratto da “Repubblica” del 24 ottobre 2014, e ripreso da http://cinquantamila.corriere.it/storyTellerArticolo.php?storyId=5449eb211fe9c)


Andrea Griseri - 2014-10-31
Mi chiedo se tanti under 40 o under 30, scolarizzati e brillanti (magari pure deputati...) ma figli della cultura del tweet, abituati a considerare il tempo come una sequenza di istanti e non come un flusso, la discontinuità come oblio e non come una soluzione che paradossalmnte accoglie e metabolizza il passato, siano in grado di comprendere la profondità di queste considerazioni o di leggerle pazientemente senza mostrare insofferenza.