Alla fine degli anni Sessanta, nel pieno del dibattito che avrebbe portato allo Statuto dei Lavoratori, abbondavano anche le discussioni di ordine filosofico, che andando oltre le convinzioni politiche di ciascuno, ponevano il problema teleologico della finalità dell’uomo.
Il punto di partenza della disputa era dato da questo ragionamento: “Mentre un animale ha un comportamento pressappoco identico nel corso dei millenni, l’uomo, pur soddisfacendo le stesse necessità, è fuor di dubbio che tramite la sua visione finalizzatrice abbia enormemente cambiato il suo comportamento. E che la sua tendenza sia quella di accentuare sempre più questo cambiamento. Pertanto, l’impostazione teleologica in una azienda nasce nel preciso momento in cui la direzione accetta il progetto di una macchina: ma proprio per il fatto che è soltanto la direzione a decidere, che pur non partecipando materialmente alla produzione obbliga gli altri ad accettare queste condizioni come il prodotto del loro lavoro, si determina una situazione di “contrasto” tra azienda e lavoratore. Possiamo quindi notare che, mentre dalla parte dell’azienda tutto è basato su di una impostazione finalistica, dall’altra il contesto di queste impostazioni determinate da pochi costituisce il processo irreversibile dello sviluppo universale che coinvolge tutti”. Oggi questi ragionamenti fanno sorridere: in quanto basta schiacciare il tasto di un computer per trasferire in un attimo capitali immensi da una parte all’altra del mondo, decidendo di fatto i destini economici e produttivi di intere popolazioni.
Come contrastare questo meccanismo speculativo e perverso? Quali sono le intese possibili a livello internazionale?
Le risposte dovrebbero partire dalla considerazione che, al giorno d’oggi, la “visione teleologica” non è più legata alle scelte individuali, ma deve essere necessariamente allargata alla comunità delle persone: perché dipende da questa visione (e solo da questa) la possibilità di costruire un futuro di benessere e di tranquillità.
Si osservava anche, con un certo realismo, come l’origine del sindacato derivasse dalla nascita delle prime fabbriche: moltitudini di lavoratori costretti a lavorare fianco a fianco prendevano progressivamente coscienza della loro condizione di sfruttati. E, forti del loro numero, attraverso lo strumento dello sciopero traevano il potere necessario per contrattare migliori condizioni di lavoro e migliori trattamenti retributivi. Col passare del tempo però, si prendeva successivamente atto che le fortune di una fabbrica erano in stretto rapporto con il livello di gradimento dei consumatori, trasferendo l’importanza del produrre all’importanza del vendere ciò che veniva prodotto. Si stabilivano nuovi equilibri: spostando quindi i problemi di ordine etico e morale su ciò che veniva prodotto alle richieste di mercato. Tutto finiva col concentrarsi, da parte dell’azienda, sull’aumento della produttività e sulla riduzione dei costi. Mentre, da parte del sindacato, ogni richiesta di cambiamento da parte dell’azienda veniva sostanzialmente monetizzata tramite accordi aziendali.
Progressivamente, col passare del tempo, il progresso tecnico, nella sua evoluzione, ha provocato un irrigidimento operativo in ogni forma di lavoro: alla ricerca continua dell’efficienza. Tutto questo ha messo progressivamente fuori gioco i rappresentanti dei lavoratori: risultando forzatamente inadeguate le loro conoscenze tecniche al fine di potere trattare le varie questioni riorganizzative con cognizione di causa. Insomma, come alternativa, nei processi decisionali dell’azienda, da parte del sindacato si è finito col monetizzare tutto o quasi. Oggi, la produzione non equilibrata tra settore e settore a causa della evoluzione tecnologica, ha finito con l’accelerare sempre più il suo ritmo o la frequenza delle fasi cicliche di ristrutturazione. Provocando una ripercussione negativa sul mercato del lavoro. La scuola si è sempre più dimostrata inadeguata nei processi formativi in quanto impossibilitata a prevedere di quali figure professionali avrebbe necessitato il mercato del lavoro. E le stesse aziende non erano e sono in grado di indicare le nuove professioni delle quali avrebbero necessitato prima che le scoperte scientifiche si avverino.
Ma le lauree non bastano! Alla crescita culturale delle persone deve corrispondere una loro altrettanto corposa crescita sul piano etico. Altrimenti è un disastro: perché tutto quello che può fare la crescita culturale per migliorare la condizione umana viene distrutto o vanificato dall’assenza di valori etici e morali. E, alla fine, l’egoismo personale prevarrebbe su tutto e su tutti, generando ingiuste disuguaglianze, anarchia e caos. Forse, (e in conclusione sul tema), rimane questo interrogativo: la vera formazione di tipo specialistico, in definitiva, non può che essere prerogativa delle aziende stesse? E, in caso affermativo, in quale modo e con quali sovvenzioni lo Stato può intervenire in questo processo di valorizzazione dei lavoratori?
(2. Continua) |