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Bisogna ridare valore al lavoro
 
di Mauro Magatti
 

Questo è un estratto dell’intervento che Mauro Magatti, sociologo all’Università Cattolica, ha fatto il 25 settembre presso la Palazzina Liberty (Largo Marinai d’Italia) a Milano per l’inaugurazione di Spazio Lavoro, il progetto della Fondazione Giangiacomo Feltrinelli e del Comune di Milano che indaga gli sviluppi del mondo del lavoro. Lo riprendiamo dall’articolo dedicato all’iniziativa da “Il Fatto Quotidiano”.

L’Italia è alla fine di un lungo declino storico. Pensare un possibile futuro del lavoro richiede un nuovo modello di sviluppo che esprima capacità di essere produttivi e, allo stesso tempo, garantisca equità sociale. Ci siamo voluti illudere che potesse esistere e durare nel tempo una economia basata esclusivamente sul consumo. Aver spostato il baricentro in questa direzione a poco a poco ha però fatto perdere rilievo al lavoro. Soddisfatti dell’accesso al godimento diffuso che il modello prometteva, i cittadini delle società avanzate hanno perso di vista l’importanza economica, sociale ed esistenziale del lavoro. Non a caso sono almeno due decenni che il lavoro ha cominciato a perdere quota sul valore aggiunto del prodotto. Rivelando così la progressiva marginalizzazione di questa dimensione che rischia di portare alla sua irrilevanza. Di certo, non si può più tornare indietro. Occorre guardare avanti. Ma come? La distruzione del lavoro –che produce disoccupazione di massa – e gli ormai conclamati problemi derivanti da una concentrazione della ricchezza sempre più scandalosa sollecitano una inversione di rotta. Ma rimane difficile capire come.

Le categorie che sono servite per leggere il lavoro nella seconda metà del XX secolo ci appaiono inadeguate. Ad esempio, in molti casi, la distinzione tra lavoro dipendente e autonomo non regge più. Da un lato, perché ci sono dipendenti così precari da essere costretti a una autonomia forzosa; dall’altro, perché ci sono lavoratori autonomi che sono, di fatto, dei dipendenti mascherati, a cui semplicemente non vengono riconosciute le tutele connesse al loro ruolo. E dato che la fabbrica non è più il principale luogo lavorativo, i lavori si sparpagliano nei contesti più disparati, rendendo difficile qualsiasi forma di riconoscimento collettivo. Effetto rafforzato dal fatto che gli orari ruotano sempre più spesso sulle 24 ore e sui sette giorni; o dalle tipologie dei contratti che sono sempre più variegate e “personalizzate”. Per non parlare del lavoro nero (che, nonostante tutto, continua a essere un fenomeno molto rilevante) e di quello criminale, il cui fatturato è sempre in crescita. E ci si mette pure la trasformazione del ciclo di vita e dei rapporti tra i sessi a far aumentare le dimensioni in movimento. Benvenuti nella Babele dei lavori.

Se non riusciamo a dar conto di quello che accade, ciò significa che non abbiamo più le categorie giuste per interpretare il mondo del lavoro. Ad esempio, continuiamo a parlare di agricoltura, industria e terziario. Ma ha ancora senso questa tripartizione? Gran parte del lavoro agricolo è meccanizzato e industrializzato, mentre un’unica categoria, per di più residuale – il terziario – raccoglie i tre quarti di tutte le attività economiche. Non è forse venuto il momento per cercare di introdurre criteri di interpretazione nuovi? Ad esempio, parrebbe utile distinguere tra coloro che si dedicano alla produzione di beni (di qualsiasi specie), coloro che lavorano per la manutenzione del sistema tecno-economico planetario nel quale viviamo, coloro che si occupano della persona e delle sue necessità fisiche e psichiche. Ma qualsiasi categorizzazione vogliamo impiegare, ciò su cui non si può non essere d’accordo è che dobbiamo aggiornare le nostre mappe cognitive. E proprio per questo occorre investire su linee di ricerca che aprano piste interpretative nuove. E chi meglio dei giovani può realizzare questo obiettivo?

Quando Karl Marx prefigurava la futura società comunista, si immaginava un mondo in cui ciascuno avrebbe avuto la possibilità di esprimere al meglio le proprie capacità, nel quadro di una società finalmente liberata dall’ossessione della crescita quantitativa. Da allora, la società comunista non si è realizzata. E tuttavia, ciò non significa che la direzione indicata da Marx non fosse auspicabile. In realtà, è proprio la grande crisi in cui l’economia mondiale è immersa che spinge a ricercare soluzioni innovative capaci di portarci al di là della società dei consumi. Ciò di cui abbiamo bisogno per tornare a far girare l’economia è un cambiamento culturale di fondo che sposti l’accento sulla capacità personale e collettiva di produrre valore. Ciò è possibile a condizione di cambiare il modo di guardare e trattare il lavoro. Non solo semplice merce da scambiare e sfruttare, ma soprattutto espressione della capacità personale di iniziativa, creatività e realizzazione, elemento fondamentale per una economia giusta e una società umana.


Carlo Baviera - 2014-10-29
Mi pare che anche i commenti dicano chi sono i "colpevoli" della situazione: non certo i lavoratori (e neanche il sindacato, da anni messo nell'angolo quando avanzava proposte, e accusato di fare scioperi inutili). Chi lavora, la sua rappresentanza sindacale, a volte anche il Governo devono tenere conto della realtà e adattarsi a difendere il possibile e a far ripartire come si può la produttività e l'occupazione. Credo, però, che non ci si possa sempre e comunque adagiare nel vicolo stretto in cui ci ha ricacciato il turbocapitalismo e l'economia senza regole. Perciò, serve una risposta mondiale che imponga regole e tutele minime e che penalizzi chi delocalizza solo per speculazione oppure fa dumping sociale e ambientale; si devono dare tempi di rientro alle economie emergenti; si deve garantire un minimo di diritti a operatori economici, lavoratori di ogni sorta, imprenditori onesti. Gli Stati non possono restare a lavarsi le mani: la globalizzazione in negativo va bloccata. A volte l'intervento dello Stato ci vuole. Sarà una cosa ottocentesca, ma se risolve qualche problema (con la solidarietà fiscale di tutti), può essere contemplata insieme alle privatizzazioni già effettuate e a quelle da effettuare. Altrimenti scivoleremo sempre più verso la miseria, aprendo la porta a rivolte sociali inevitabili.
giuseppe cicoria - 2014-10-27
Si deve prendere atto che nelle economie opulente si è instaurato un "meccanismo perverso" che le condanna all'aumento esponenziale ed infinito dei consumi, pena la loro morte economica-sociale. Con l'aumento dei consumi, però, non è assolutamente detto che si "crea lavoro".! Il principio dei vasi comunicanti, ha causato lo spostamento della produzione dei beni di consumo, nei paesi dove prevalentemente la mano d'opera è meno costosa e dove scarseggiano o sono del tutto inesistenti i diritti dei lavoratori. Addirittura si sfiora lo schiavismo e gli esseri umani sono considerati fattori della produzione talvolta di valore e protezione al di sotto degli animali o degli impianti. Quasi sempre l'aumento dei consumi nei paesi senza protezioni doganali, e dove i costi di produzione sono superiori ad altri, causa un effetto traslattivo di ricchezza verso questi ultimi. Si verifica, inoltre, un aumento vertiginoso dell'indebitamento per l'aumento dei costi sociali causati dalla disoccupazione e per il conseguente minor gettito erariale. L'indebitamento è, poi, favorito dall'enorme circolante virtuale la cui massa è addirittura migliaia di volte superiore alle necessità del mercato reale dei beni e servizi. Gli strumenti finanziari creati hanno, infatti, assunto il valore di moneta e considerati alla stessa stregua di merce! Per questo motivo un paese può diventare in brevissimo tempo opulento e subito dopo sull'orlo del fallimento se i crediti vengono velocemente ritirati con il sistema telematico. Le banche nazionali di qualsiasi dimensione ormai non sono più in grado di controllare questi flussi colossali di moneta e strumenti finanziari virtuali che possono creare disperazione e miseria a milioni di persone. In questo disordine generale le nazioni più scaltre, poi, riescono a sfruttare meglio le discrasie fiscali e normative e sottraggono slealmente risorse dei paese cosiddetti "amici", "rubando" reciprocamente il benessere agli altri. E' inutile nascondere che tutti i vecchi meccanismi sono saltati: Resta soltanto la necessità di governare meglio l'irreversibile" processo dei "vasi comunicanti" che, gradualmente, crei un accettabile riequilibrio del tenore di vita dei popoli del mondo intero.
Franco Maletti - 2014-10-27
Come analisi sociologica nulla da obiettare. Ritengo tuttavia che ci siano delle domande che, forse per pudore, continuano a restare in sospeso. Tipo: "Il Sindacato oggi è all'altezza dei problemi del mondo del lavoro? Ha gli strumenti per affrontarli? Ha delle proposte da fare?". Probabilmente no: salvo la illusione che un giorno tutto possa tornare ai fasti del tempo che fu. I lavoratori e gli aspiranti tali (cioè tutti) aspettano fiduciosi: ma non più così tanto. Eppure basterebbero pochi segnali. Segnali che spetta al Sindacato dare ai lavoratori. Ne elenco brevemente alcuni: nessuno è più in grado di garantire lo stesso lavoro per tutta la vita, nessuno è più in grado di garantire un lavoro in crescendo come qualità e gratificazione personale, nessuno è più in grado di garantire un lavoro in crescendo sul piano retributivo, si dovrà essere disposti ad accettare lavori via via qualitativamente peggiori e meno retribuiti, sarà necessaria una formazione di base che punti più alla duttilità ed alla adattabilità in contesti diversi piuttosto che ad una specializzazione esasperata, saranno necessarie armonizzazioni normative e retributive nei settori produttivi simili (accorpamento dei CCNL), dovrà essere messa in conto una normativa peggiorativa nei rinnovi contrattuali e nella contrattazione aziendale, con l'allungarsi dell'età lavorativa vanno previsti lavori protetti per i più anziani e tali da far loro raggiungere i requisiti per la pensione. E poi: le lauree non bastano! Occorre che alla crescita culturale delle persone corrisponda una loro altrettanto corposa crescita sul piano etico. Ed altro ancora. Tutto in attesa che si realizzi anche quanto auspicato da Andrea Griseri, con il quale concordo.
Andrea Griseri - 2014-10-27
Questo non sarà possibile senza la definanziarizzazione dell'economia e il ritorno della sovranità monetaria nelle mani di istituzioni controllate democraticamente dai cittadini